Pierluigi Natalia

 

 

 

La crociera

di  Chiara

 

 

 

 

 

 

Diario di bordo di un marinaio
sotto forma di resoconto ad un’amica


 

 

A quanti, vivi e morti,

 navigano l’oceano

 della memoria e degli affetti

 

 

 

 

 

 

Nota dell'autore

 

I fatti qui narrati sono reali. L'autore ne fornisce però un’interpretazione parziale e personale ed ha quindi preferito, cosciente del limite di un resoconto scritto in prima persona,  mutare i nomi dei protagonisti. Anche con ciò, ammette per alcuni di loro descrizioni superficiali e forse fuorvianti, tali comunque da non approfondirne storie personali e autentico sentire. Se ne scusa con quanti si riconosceranno nei personaggi, anche se invoca il diritto dello scrittore di trasfigurare avvenimenti e  persone. I partecipanti alla crociera sono donne e uomini migliori di come qui descritti. Come personaggi del racconto ruotano però intorno alla protagonista, qui chiamata Chiara. Se questo li offende, valga ad assolvere l'autore la circostanza che per il suo cuore era così nella realtà.

 

 

Al lettore

 

Questo è il  diario di bordo personale redatto da Renato Molia durante quella che lui identifica come la crociera di Chiara. Tale opinione trova il conforto di alcune circostanze. La stessa Chiara D'Orlando  ha celebrato il suo compleanno a bordo, il 24 luglio. La crociera le ha dato l’occasione per conoscere Sabina, la compagna di suo fratello Flavio, e per fare dopo molti anni una vacanza con quest'ultimo. Infine, per Chiara  si è trattato della prima esperienza su una barca a vela. Sebbene fosse così anche per altre persone, chi scrive ha sentito questo motivo come particolarmente rilevante soprattutto per quanto la riguardava. In ogni caso, come detto, questo è un diario personale, sia pure destinato a una ristretta divulgazione, e il suo autore si attribuisce il pieno diritto di impostarlo e di titolarlo come crede e, soprattutto, di cercare i motivi delle sue scelte nel suo cuore.

La crociera si è svolta a bordo dell'Opal, un Jeanneau di 47 piedi, armato a sloop,  di armatore francese, ma sotto bandiera tedesca. L'Opal ha salpato il 19 luglio 1999 da Antibes, sulla costa mediterranea francese, e vi è tornata il 30 luglio 1999, dopo aver navigato nel golfo di Provenza e lungo la costa occidentale della Corsica, toccando i porti di  Calvi (20 luglio), di Ajaccio (22 luglio), di Bonifacio (24 luglio), di Cargèse (27 luglio) e di Îles-Rousse (29 luglio). A bordo, oltre alle persone già nominate, c'erano Gil Cordoba (marinaio tunisino naturalizzato francese), Mario Molia (fratello maggiore di Renato), Lorella (giovane signora veronese, recente conoscenza di Renato), Giulio (amico dello stesso Renato) e Antonella (l'attuale compagna di Giulio). Tale elencazione spiega in parte il perché Renato si sentisse responsabile del buon esito della crociera. Antonella e Giulio sono purtroppo sbarcati in anticipo (23 luglio) ad Ajaccio, rientrando con mezzi diversi in Francia continentale e poi in Italia.

 

 

La crociera di Chiara

 

 

 

 

31 luglio 1999, cimitero di Antibes,

un'ora dopo l'alba.

 

Amica mia, se sei davvero in questo luogo che scegliesti per il tuo ultimo riposo, certo sarai lieta di quanto vengo a dire chino sulle lettere del tuo nome e della frase che dettai come epitaffio alla tua vita e alla mia giovinezza. Ti promisi che avrei resistito almeno dieci anni. Mancano quaranta giorni. Ho resistito. Sono stanco, sfibrato, ma ho resistito. Sono in anticipo sul nostro appuntamento. E queste rose non sono quelle coltivate da te, e poi per te e in vece tua, con lungo amore. Queste  le ho comprate, non le ho colte. Sono in anticipo di quaranta giorni. Ma questo non è il mio pellegrinaggio, se non in quest'ora di un alba estiva e tiepida, ma che pure sento livida e in qualche modo dolorosa. Sono qui perché si è conclusa la crociera di Chiara. Non voglio parlarti di me, non oggi, non più a lungo di come abbia fatto in questi anni quasi ogni sera, in quel modo un po’ tenero, un po’ crudele, un po’ alienato dalla realtà che accompagna il pensiero di te. Oggi devo parlarti di Chiara.

Sai, Virginie, credo che tu possa considerarla un'amica o, almeno un'alleata. La conobbi negli anni nei quali declinava la nostra storia, nella parte finale degli anni Ottanta, l'ultima della tua vicenda, l'ultima del mio essere giovane. O la prima del mio essere impazzito, come mi dicesti una volta. Forse te ne parlai. Collaborava con il mio giornale. All'epoca era una specie di macchia nel mio palmares, come lo chiamavi tu: mi diede buca all'ultimo minuto dopo che già avevamo organizzato un fine settimana a Siena per il Palio, quello di luglio del 1986. Si, proprio quando ti volli dimostrare che una finestra su Piazza del Campo e una bella donna per accompagnarmi le avrei trovate anche senza di te. Ma all’ultimo momento ci ripensò. Forse un fine settimana con me non le interessava, neppure per godersi il Palio dalla finestra messa a disposizione dall’Arcivescovo. Fu un peccato, in tutti i sensi. Tra l’altro, con lei probabilmente non ti sarebbe riuscita l’interpretazione impeccabile di quella sera, quando facesti sentire un imbecille me e una sgualdrinella cretina quella poveretta alla quale avevo proposto di accompagnarmi con mezzora di preavviso. Come attrice anche lei non era male, anzi. Oltretutto lo faceva di mestiere. Ma non le avevo spiegato la sua parte. Avesti gioco facile, amica mia.

Ma soprattutto fu un peccato perché mi lasciò abbastanza indifferente. Si, avevo preso una buca. Ma non faceva male. Neppure all’orgoglio. Tanto lo sapevo che non era una cosa persa, ma solo rimandata. Comunque, all’inizio Chiara non era certo una persona importante nella mia vita. Ma poi lo diventò. Si, credo che anche tu possa esserne contenta. Tu mi chiedesti di vivere. Lei mi aiutò, per un breve, essenziale tratto della mia vicenda, a non ridurre quegli anni terribili solo ad un sopravvivenza disperata. Fu un'amica - non solo un’amica, come si dice di solito, ma addirittura un'amica -   e seppe trovare non solo il cuore (in tanti hanno cuore, eppure non hanno statura), ma le parole giuste per un uomo che alle parole ha sempre dato un peso immenso. Credimi: è molto quanto le devo. Questi giorni dell'ultimo luglio del secolo sono stati il mio grazie. E forse il mio dono di congedo. Ma è stato un dono immenso: le ho regalato il mare.

 

 

19 luglio 1999, giorno.

 

Alla fine stiamo arrivando ad Antibes in perfetto orario. Per com’è andato questo viaggio in macchina da Roma è quasi un miracolo. Mio fratello Mario non ne poteva più di soste, tappe, deviazioni. In parte lo capisco, ma mi ha trasmesso angoscia tutto il tempo. E non afferro il perché. Anch’io ho l’ansia di trovarmi in mare. Ma che cambia se arriviamo un’ora prima? Tanto non diamo vela prima di sera. Perché tutta quest’insofferenza, questo fastidio tanto sbandierato? Che differenza fa se con gli altri ci vediamo per strada o se ci diamo tutti appuntamento al porto? E oltretutto mi sta accrescendo il mio tutto privato di fastidio. Ma non è colpa sua. Né dell’organizzazione del viaggio. È il vizio originale che ho accettato. Sto passando in Liguria, sto andando in Costa Azzurra e in Corsica. E ci porto Chiara. La nostra prima volta in mare insieme la sto innestando sui ricordi di stagioni diverse, le sto imponendo il confronto con i fantasmi. Proprio con quei fantasmi che ci hanno sbarrato una strada, una storia nostra, autentica, che non fosse il curarci a vicenda le ferite. Certo, non è stato solo questo. Non è mai solo il primo passo a stabilire una direzione o un modo di camminare. Sono un tempo lungo, tredici anni, per cambiare ritmo, obiettivi, persino per trovarsi motivazioni. È proprio il mare ad insegnarlo: se cambia il vento cambia l’andatura. E tredici anni sono un tempo troppo lungo perché sia solo l’errore dell’inizio ad averci impedito di viverla meglio questa storia che nessuno dei due nega importante e che nessuno dei due dice essenziale.

Ma poi è vero che è una storia? Che storia è se non l’ho mai portata in mare? Come posso solo pensarla una vicenda lieta che non abbia una barca a trasportarla? Io sono questo. Per me la gioia è il mare. E per tanti anni, per troppi anni, ho imbarcato da solo. Ma stavolta no, stavolta ce la porto in mare la donna che forse ha restituito alla mia vita la voglia di avere desideri.

Ma non dovevo accettare quest’itinerario, questo porto, questa rotta. Certo, è stata lei a scegliere, persino ad insistere sulla Corsica.  E forse era una sfida. (“No, andiamo in Corsica, spendiamo meno e poi a me la Corsica piace. E poi non sei tu a parlare sempre di punto di vista elettivo, a dire che la terra vista dal mare non è il mare raggiunto dalla terra? Ecco: io voglio andare in Corsica dal mare. Siamo tutti d’accordo. Non fare storie”).  E invece avrei dovuto farne qualcun’altra di storia. (Oh Virginie, perché mi sono fatto convincere? Dovevo insistere per una barca italiana, per le Eolie e le Egadi, o magari andare in Grecia. Certo, questa che ci ha procurato Roger costa due lire, ma come posso tornare ad Antibes con altra gente,  imbarcarmi ad Antibes su una barca che non sia  la "Mer de Dieu"?).

E va bene. Gliela  ho organizzata la crociera in Corsica. A lei e a suo fratello, fresco reduce dai corsi di vela a Caprera e che vuol far vedere alla sua nuova ragazza quanto è divertente una vacanza in barca. E al mio di fratello, al quale invece la ragazza che voleva portare ha dato buca. Speriamo che almeno trovi simpatica Lorella, che ho invitata all’ultimo momento. Sono gli unici due a non essere una coppia. Volenti o nolenti dovranno frequentarsi più fra di loro che con tutti noi altri. Con Lorella, soprattutto, spero di essere stato chiaro. Questa non è più Buenos Aires. Stavolta non sono solo. Non imbarca con me, imbarca con un gruppo. Davvero, speriamo che l’equipaggio faccia amicizia. 

Ma sono preoccupato da quest’ansia di Mario, da questa insofferenza, da questo volersi scrollare di dosso tutto insieme e subito quanto si lascia alle spalle. Forse non avrei dovuto portarlo. Forse non è pronto per tornare in mare. Già due anni fa, in Tirreno, non l’ho mai visto godersi la vacanza, gioire davvero d’essere di nuovo in mare. La storia che lascia a terra non è il passato, ma ancora il suo presente e, forse, può restare persino il suo futuro. Se poi è vero che la lascia a terra, questa storia di vent’anni che tutti, lui  e lei per primi,  giudichiamo un fallimento. Ma poi, perché? Certo, lei in barca non vuol venirci da tanti anni, non le interessa più, se mai le è interessato. Ma lui davvero vuol tornarci? Davvero è autentico questo desiderio di rivivere quanto un tempo sapeva appassionarlo O è solo dimostrarle, dimostrarsi, che sa star bene anche senza di lei? E poi perché dopo tanti anni? Cos’è che non so? Cos’è che Mario non mi dice?

Per fortuna c’è Giulio. Con lui non star bene è difficile. Certo, se andiamo a contare le ferite non so chi dei due sta messo peggio. Ma in lui c’è sempre un’allegria sana. C’è  un affrontare la vita con fiducia nel suo modo di proporre simpatia, amicizia. Mi ha detto che questa nuova storia con Antonella promette bene (ed ha persino ammesso che ad oltre  sessant’anni è più normale stare con una donna di età giusta che con una ragazzina di diciannove. Certo, ne abbiamo fatte di sciocchezze. Ma poi, perché? Dove sta scritto che a guadagnarci non siano state le ragazzine?). Comunque anche quello è passato. E dubito che possa ritornare.

Antonella non mi pare proprio il tipo che molla la presa. Se non mi sbaglio, mette anche me nel conto di quanto va in qualche modo vigilato. Quell’insistere nel farmi frequentare Clara mi suona tanto come un tentativo di tenere sotto controllo uno che a Giulio possa ricordare e forse far rimpiangere un altro modo di spendere gli affetti. Certo, è stato un bell’incontro Clara. Ma non mi convince poi tanto questo doverla vedere  sempre in quattro. Anche il fatto che Antonella le abbia detto di questa crociera appena si è liberato un posto non è che mi sia piaciuto molto. Poteva per lo meno chiedermelo prima. Ma Giulio non sembra capirli questi giochetti. Comunque, sono contento di andare in mare con lui. Si, sono contento che ci sia Giulio. Oltre tutto si è dato da fare più di me perché ottenessimo le migliori condizioni possibili. Roger è stato prezioso ad organizzarci tutto. Peccato che non imbarchi pure lui. Se non altro non ci sarebbero stati dubbi su chi comandava sulla barca. Ma sono fesserie. Io o Giulio conta poco. Quello che conta è ritornare in mare.

Anzi, no. Quello che conta veramente è soddisfare quest’attesa di Chiara, questa voglia nuova che mostra di voler essere felice. L'essenziale su questa barca è lei. È lei la dueña del barco. Questa vacanza è per lei. E la prima volta che mi ha chiesto con tanta insistenza di organizzare una vacanza insieme. Ci tiene davvero a questi giorni in Corsica. Il primo che glieli rovina lo butto a mare, fossi anche io stesso. (Oh Virginie, ma perché sono venuto nel tuo porto, sul nostro mare, se la dueña del barco è un’altra?). Si basta. Quello che conta è stiamo andando in vacanza. Ma per tutto il viaggio in macchina ho sentito  segnali di pericolo. E di sventura. Basta. Sono casi, coincidenze. Basta fantasticherie morbose. Basta.

Flavio e Sabina li incontriamo al casello autostradale di Savona. Fanno invidia: sono giovani, belli, innamorati e neppure cretini. Per quanto mi riguarda, ormai vale solo quest'ultima considerazione e forse neppure più tanto. Chiedo se vogliono fermarsi a pranzo mentre io vado alla stazione ferroviaria per prendere Lorella che arrivava  in treno da Verona, ma poi andiamo tutti. Perdiamo tempo in fila dietro a un camion della nettezza urbana (tanto per punirmi di aver dimenticato che questa città con me è sempre stata un'immondizia). Quando incontriamo Lorella, la prima cosa che noto è che si è portata solo una borsa. Meno male, almeno una che segue le istruzioni c'è (vero, Mario?). Tra l'altro fra bagagli e provviste portate da Roma ho una macchina più carica di un gommone albanese in Adriatico.

Presentazioni al resto del gruppo. Ma stiamo trattenendoci troppo a Savona. E, tanto perché bisognerebbe imparare a non sfidare il destino, mentre chiacchieriamo e sistemiamo i bagagli, passa il padre di Serena con un ragazzino, presumo quel figlio di lei che ho sempre rifiutato di conoscere. Il medesimo individuo  mi guarda, chiaramente mi riconosce e cambia strada. Fortunatamente non sono solo e la tentazione di parlare a quel bambino dura appena un istante. Ma tentazione c'è stata. E forte. È ancora aperta la ferita di quel figlio di un altro chiamato con il nome che con Serena avevamo destinato al nostro primo figlio.

Mario non se ne accorge. Ma Chiara si. E mi guarda come per interrogarmi. Ma non mostra sorriso né apprensione. Ha lo sguardo  appena curioso, ma soprattutto irritato. E di un’irritazione che forse data da dieci anni. (Te l’ho detto, Virginie,  nei primi anni della nostra conoscenza non è che Chiara mi stesse tanto a cuore. Era carina, simpatica, ma tutto lì. E poi quello fu il tempo in cui Serena invase la mia vita. Poi venne l'89 - altro che rivoluzione di voi francesi: è stata la mia di rivoluzione -, l'abbandono di Serena, la mia lunga fuga dalla mente, la tua malattia, le tua morte. Forse cominciai allora a volerle bene, in quell'anno che ha segnato il mio destino, in quell'anno che il destino ha scelto perché tu mi lasciassi solo ad affrontare la fatica e le sconfitte, il peso e la rinuncia. In quelle lunghe settimane in clinica, Chiara fu una delle poche persone che non solo venne a trovarmi ma riuscì a vedermi - mio fratello faceva uno sbarramento saggio e necessario, anche se non lo ho mai ringraziato abbastanza - e in qualche modo, quando ne uscii, mi rimase una sorta di gratitudine, di affetto più profondo e più sincero per lei che aveva voluto starmi accanto in quei giorni o di vuoto o di agonia).

Proseguiamo, ma poco dopo facciamo un’altra sosta per il pranzo in un ristorante sul lungo mare. Mio fratello è sempre più insofferente (oh Mario: non scocciare. Abbiamo tutto il tempo. E poi è meglio fare conoscenza un po' prima di salire in barca, dovresti saperlo). Lorella sembra più che disposta a farlo. Ai nostri rapporti a Buenos Aires fa appena un accenno. Poi con Mario, con Chiara e con Flavio si mettono a discutere di lavoro nel pubblico impiego. A sentir loro, in Italia non funzionano minimamente né la scuola superiore, né la sanità, né la protezione civile, né la polizia. A me, tutto sommato,  sembrano quisquilie. Sarà che da troppi anni sono abituato a concentrarmi sulle tragedie vere, sarà che la guerra e la fame sono un’altra cosa. Ma forse sarà invece che da troppo tempo parlo solo con me stesso. Sta attento, Renato: questa è paranoia.  Sono i tuoi amici. È tuo fratello. E lui si apparta per telefonare. Non sta parlando con lei, di questo sono sicuro. Ma ha come una vena di panico, due occhi da animale intrappolato. Cos’è che non so? Cos’è che non mi dice? Da quando abbiamo smesso di parlarci?

Per ora, comunque, mi metto a parlare con Sabina. Lei lavora in banca ed io, a guardarla, quasi rinnego il motto che tante volte cito (meglio lavorare in barca che lavorare in banca), se non altro perché di marinai così carini non ne ho visti mai.  E poi è chiaro che anche lei mi trova carino. E si è documentata: mi chiede com’è davvero la situazione in Kosovo e mi cita persino un mio articolo di qualche giorno fa. Quando ripartiamo, Chiara cambia macchina e va con il fratello e con Sabina. C'è traffico. Guida Mario. All'altezza di Nizza non vediamo più l’altra automobile. (Avrei dovuto fare più attenzione, ma i pensieri se ne stanno andando nel passato. Questa costa è la mia storia, il mio tormento, le mie sconfitte). Mario si ferma. Cerchiamo di chiamare Flavio, ma il suo telefono cellulare non prende. Poi (botta di genio) lo chiamo con il prefisso internazionale dell'Italia. Ci ha superato. È già nel traffico di Antibes. Ma nessun problema. Sa dove deve andare.

Ad Antibes non trovo il tempo per andare al cimitero e neppure alla villa. Va bene. Ci sono anche gli altri. Una sosta in un cimitero non la capirebbero. E in ogni caso non ho nessuna intenzione di raccontare i fatti miei a tutte le persone di questa vacanza.

Nonostante tutto, alle 18 precise siamo sul molo di Port Vauban.

Non basta. Giulio è esagitato lo stesso, perché lui è arrivato in mattinata, insieme con Antonella, e sperava di andarsene prima in mare. Incomincia a mettere fretta a tutti e a protestare. Lo trovo fuori registro. Dopo tutto sono loro in anticipo, non noi in ritardo. Ho l'impressione che gli altri la pensino come me. E forse con più perplessità e con maggior disagio (lo stile di Giulio non sempre si apprezza al primo impatto. D'altra parte neppure il mio). Tutto sommato, però, più che scenate sembrano sceneggiate.

Giulio mi presenta il marinaio, Gil Cordoba. All'apparenza è in gamba, vedremo all'opera. Prima sensazione sgradevole appena salito a bordo dell'Opal (Virginie lo diceva sempre: "mai barche con nomi di pietre: vanno a fondo"): Antonella, in coperta a prendere il sole, ha già occupato la cabina armatoriale. Seguo lo sguardo di mio fratello e vedo che ha portato a bordo una decina di borse e di valigie, compreso un beauty rigido pieno di creme e di cremette che ha poggiato sul tavolo da carteggio. Praticamente una bestemmia in chiesa.

Butta male su questa barca.

Ma dopo il primo impatto con Giulio non voglio sollevare questioni. Mio fratello capisce con un'occhiata e si adegua. Intelligente il ragazzo. Oltre tutto, Antonella versa birra nei bicchieri e si fa perdonare (almeno per il momento). E poi indossa un bellissimo pareo ed io ho sempre apprezzato chi sa vestirsi in barca.

Ed è tempo di assegnare le cabine. Sembra che Gil voglia sistemarsi in dinette. Il che mi mette una pulce nell'orecchio. Vado a prua e mi accorgo che nel pozzetto delle vele non c'è cuccetta. Il progetto originario – Sandro e Antonella, Flavio e Sabina, Chiara ed io nelle doppie, Lorella in una delle cuccette a castello di dritta, Mario in dinette e marinaio a prua – è da rifare (ma questa Roger me la paga). Non posso certo mandare Lorella nella cabina cuccette con Mario o in dinette con Gil. Così, fin dalla partenza si decide il destino di questa vacanza. E forse il mio. Alle ragazze assegno l'altra cabina di poppa.  Flavio e Sabina   nella doppia a sinistra. Mario ed io nelle cuccette a dritta.

Carichiamo. Mario e gli altri stivano cambusa. Io e Giulio andiamo a sistemare i conti. Quando consegno i documenti, l'armatrice, Danielle (va bene, Roger, avevi ragione: meriterebbe di essere conosciuta un po' più in privato), mi dice che non servono. Giulio ha preso Gil come skipper, non come marinaio. Certamente è meglio: meno rogne e meno responsabilità. In questo Giulio ha ragione. Ma anche meno autorità sulla barca e, dato l'equipaggio, prevedo questioni. Ma forse sono prevenuto (e tra l'altro non è detto che con Giulio ed io a dividerci le responsabilità non sarebbero sorti problemi). Meglio, molto meglio una responsabilità esterna. Litigare in barca rovina le amicizie. Dicono anche gli amori. Ma spesso li fa nascere.

In ogni caso, per Gil sono cinquecento franchi al giorno e non trecento, come si pensava. Il che mi mette un'altra pulce nell'orecchio: chiedo a Danielle conferma del fatto che nel nolo della barca pattuito siano comprese le spese di porto. Come volevasi dimostrare: sono comprese solo le tasse personali, quelle di attracco no. Giulio sostiene che è quanto mi aveva detto quando mi aveva chiesto l'elenco dell'equipaggio da inviare a Danielle. Io me la ricordavo diversa. Al diavolo: sono quattro soldi. E poi dormiremo quasi sempre in rada.

Giulio insiste per partire subito. Io vorrei un'ora per me (che cavolo, sono ad Antibes: avrò diritto al mio passato) e inoltre prima di partire vorrei controllare la barca. Lui dice di averlo già fatto e che è tutto a posto (diavolo, Renato, se non lo sa lui che armava barche per l'Atlantico...). Smetto di discutere, torniamo al molo e salpiamo.

Sono le 20.22.

 

 

19 luglio, sera

 

Niente vento. Si va a motore. Prendo il timone e rumino sensazioni non del tutto piacevoli. Non ho dedicato l'ultima ora a terra ai miei ricordi e mi sembra un'inadempienza ad un dovere dell'anima. Ma presto c'è solo il presente. Sono di nuovo in mare ed è sempre bello. Sono con persone amiche ed anche questo è bello.  E forse c'è chi può diventare più importante dei miei ricordi. (Oh Virginie, cosa è più importante? Cosa rimane? Di me, nel tuo riposo, che immagine hai portato? Te lo ricordi, amica mia, che rudere che ero, quando vennero quegli altri giorni, quelli  terribili di agosto e di settembre,  se tu stessa mi reputasti solo alla fine in grado di accompagnarti alla tua morte?, se tu stessa mi tenesti così a lungo nascosto il tuo destino? E il mio. Lo sai: avevo chiuso con la vita. Davvero. C'era solo quella promessa di resistere che mi avevi estorta a conservarmi in una sopravvivenza stanca. Mi aiutò a mantenertela, in autunno, il ritorno dall'Argentina della piccola Aurelia. Anche Chiara, intanto, aveva vissuto qualche sconfitta pesante. Ma conservava un che di luminoso. Riprendemmo a vederci qualche volta. Alla mia Aurelia piacque. "Zio, perché non te la sposi?", mi chiese una volta che era stata tre ore a disegnare con lei. Ed a me piacque vederla così dolce, così giusta con Aurelia, piacque pensare che nella mia vita sarebbe rimasta una sorta di carezza. Quando Aurelia  morì -  era un'altra volta luglio, quello del '91 -, quando si schiantò del tutto la mia anima, fu proprio Chiara la persona che più seppe parlarmi, tirarmi fuori dall'incubo della pazzia, dalla disperazione, dalle sconfitte che avevano accompagnato  tutta la mia vita).

Ma sono in mare. Sono di nuovo in mare. Che importa se non ho non ho controllato la barca, se oltretutto non è quella prevista dalle descrizioni che mi hanno inviato (tra Giulio, Roger e Danielle ci deve essere stato qualche difetto di comunicazione). Tra l'altro, è un quarantasette fuori tutto, in realtà un paio di piedi in meno. E un paio  sono tanti, soprattutto di bolina (però è comoda: cuccette spaziose, quelle a poppa persino con lavabo e specchio, dinette da tenerci una conferenza dell'Onu, due bagni, proprio una barca da vacanza). Come tutti i Jeanneau, anche l'Opal pesa poco. Fiocco murato troppo avanti. Boma troppo alto. Insomma anche a vele chiuse si capisce che è una barca sottoinvelata. Tipico per un charter. Tuttavia sembra molto equilibrata.

Mollo la ruota per controllare il passo dell’elica. Mi pare destrorsa. Però forse era abbrivio precedente. Riprovo. Si è destrorsa. Giulio fa un commento buffo sulla mia scia a serpentina. Rido anch'io, ma poi ho come la sensazione che abbia detto sul serio, che non si sia accorto di cosa stavo facendo. Gil mi sembra imbarazzato. Mi chiede se voglio qualche spiegazione. Traverso la barca per controllare la risposta del timone (lui sarà lo skipper, ma io su questa barca devo starci. E non io solo). Chiedo a Gil se l’Opal è a chiglia lunga o a coltello o a bulbo (la Jeanneau ne ha fatte di tutti i tipi, mi pare). Giulio si intromette e traduce in francese. Gil non lo sa in nessuna lingua. In ogni caso è chiaro che la lingua di servizio sarà lo spagnolo (non male come soluzione  su una barca di fabbricazione francese che batte bandiera tedesca e che porta un equipaggio misto italiano e franco-tunisino). Comunque, scopro che Gil è arrivato solo un'ora prima di me e che non conosceva prima la barca. L'unico che sembra capire cosa sta succedendo è mio fratello. Ha la faccia preoccupata. Mi rendo conto che siamo eccessivi tutti e due (ma lui forse è preoccupato che io rompa troppo le scatole). Dai, Renato, piantala: la barca è buona (mica è detto che di tedesco funzionino solo i sommergibili: questa resterà a galla). Non c'è da fare troppe storie per qualche controllo omesso.

 Tramonto sul mare bellissimo. Il primo te a bordo. Mario dice che non funzionano bene i blocchi delle pentole. Va bene, li aggiustiamo appena hai finito di fare un altro te. Il rito del cucchiaino con la molletta nel vasetto del miele (Dio, sono di nuovo in mare!). Flavio si applica - metodo e stile - a preparare fette di pane di segale con il miele. E poi dicono che ai corsi di Caprera giocano a imporre vita rude. Sabina chiede perché io non ne prendo. Guardo Chiara, ma lei stavolta non  gioca il nostro gioco, non mi porta alle labbra la sua tazza. E  prendo quella che mi dà Sabina.

Primo scherzo a Mario che invece di un pronto soccorso si è portato una valigia con una sala operatoria, ma si è scordato l'aspirina. Giulio accusa mal di testa e ne chiede una. Mario gli offre un altro farmaco. Giulio insiste con l'aspirina. Mario gli spiega perché va bene la sua prescrizione (dopo tutto il medico è lui). Giulio persiste. Mario coglie il mio sguardo e mi manda al diavolo ridendo. Sembra tornato in forma il fratellino: racconta storie di ospedale in tono lieve, arguto. Forse ho torto. Forse è a lui, non a me,  che serve davvero solo tornare in mare per tornare allegro.

Mario e Giulio preparano la cena. E vero, i blocca pentole sono spanati.  Nessun problema. Tanto siamo a motore e non c’è mare. La cucina non bascula  praticamente per niente. Mangiamo e subito dopo Gil e Giulio spiegano le regole per la navigazione notturna. Giulio dice ad Antonella di stare  sentire con attenzione e che i piatti si possono lavare dopo. Gil dice che di notte ci vuole assicurati anche in pozzetto, distribuisce le cinture di sicurezza  e mostra come si usano. Giulio chiosa il tutto con reiterati ammonimenti sui pericoli del mare. Io mi prendo una cintura e vado sul ponte. Esce anche Mario. Gli dico di assicurarsi. Mi guarda come se lo stessi sfottendo (Come se? Piantala, Renato, che ha ragione lui: questa crociera l'hai organizzata tu e  potevi  metterle in chiaro prima due o tre cosette). Ma quando ne parla lo fa con un tono troppo carico. Piantala anche tu, fratellino: stiamo partendo male. E non prendertela con me. Lo skipper è Gil. Diglielo a lui se ti scocciano gli eccessi di sicurezza. E in ogni caso quanto vuoi che duri? Da domani sono tratte brevi. Piuttosto fila una traina, casomai ti riuscisse di procurarci il pranzo di domani. “A sette nodi? Che ti devo pescare, un motoscafo?”. Stavolta ha ragione lui. 

Dopo un po' tutti in pozzetto con le cinture correttamente assicurate. Stelle da spalmarcisi la pelle. Giulio ne indica e ne nomina qualcuna. Io incomincio a raccontare le storie greche. Orione non si vede, ma il suo cane si (io: "sapete il suo nome?". Mario: "No, e non ce ne frega niente". Va bene: ho recepito. Sirio non sembra prendersela).

Lorella racconta di sua madre, ed io mi accorgo che ormai è più di un anno che è morta. Ma mi sembra che ripeta le stesse cose dette a me a gennaio a Buenos Aires. Non è che questi mesi in più le abbiano poi tanto attenuato la sofferenza. E forse lo smarrimento. Sembra quasi che voglia giustificarsi di aver passato vent’anni ad accudire la madre. Dice che questa è la prima vacanza dopo tanti anni (e a Buenos Aires che era? Che è un lavoro andare a passare una settimana a ballare il tango?). Poi scende giù per andare in bagno ed io le dico di aprire l’osterigio, cosi le passo la cintura di sicurezza e sta assicurata anche mentre fa pipì.  

Giulio mi guarda storto, mi dice di non scherzare sulle questioni che riguardano la sicurezza e si dilunga spiegando di nuovo come ci si deve comportare su una barca a vela (spero bene che se vuole fare il professore non abbia la strana pretesa di annoverarmi nella classe!). Ma visto che parliamo della barca, mi faccio un giro per osservare le manovre fisse (forse un tantino ostentatamente). Gil mi viene dietro a prua, senza fissare la cintura. Stacco la mia e lo guardo (un tantino ostentatamente, senza forse). Ridiamo. Uno per bordo ci assicuriamo alla battagliola e, didascalici, torniamo in pozzetto in perfetto stile (si fa così,  ragazze, sempre che ci sia vento a forza sette e mare formato). Faccio un commento su un candeliere allentato. Giulio continua a  guardarmi storto, insiste che è tutto a posto e mi dice di piantarla. Sarà, ma a me resta una sensazione di disagio. Vedremo.

 

 

Notte tra il 19 e il 20 luglio.

 

Abbiamo visto subito. Dopo tre ore, durante la traversata per Calvi, parte il pilota automatico. Resta in standbay.  In pratica abbiamo un controllo sulla bussola in più e un timoniere (per le tratte a motore il più importante) in meno. Si annunciano lunghe tirate alla ruota oppure perdite di tempo per la riparazione (al fatto che l'armatrice ne faccia comperare uno nuovo ci credo poco). Giunge vento da terra. Gil si conferma competente: scambiamo un'occhiata e issa la randa. Fuori anche il fiocco. Regolo le vele e finalmente spengo motore. Gil si mette a trafficare con il pilota automatico. Inutile. È proprio andato. E intanto che stiamo controllando, scopriamo che il radar funziona solo sopra la distanza di due miglia (utilissimo per virare in tempo con questa petroliera dall’abbrivio incontrollabile…).

Continuiamo. Dai, venite a timonare anche voi altri. Mario e Giulio, sembrano almeno arrugginiti. Almeno qualcuna di queste onde potrebbero tagliarla, sono talmente basse e talmente lunghe che si vedono un’ora prima. Va bene la rotta, ma dopo tutto andiamo in Corsica: è difficile mancarla. Gil si limita a suggerire leggere correzioni. Io taccio (strano). Va un po’ al timone Flavio ed è  una lieta rivelazione. Ha l'istinto. Va bene che è fresco di corso a Caprera, ma non mi pare che sia questo il punto (anche perché sul piano tecnico mi pare che non abbia ancora assimilato bene che con la ruota si timona al contrario che con la barra e, soprattutto, che bisogna anticipare le manovre). Il punto, invece, è che mostra sintonia con il mare e con le barche. Nonostante qualche errore, è rilassato. Speriamo che sia un dono di famiglia o che almeno sia contagioso (se non  la sorella – che a lei penso io – potrebbe  contagiare mio fratello che quando ha preso il timone aveva una faccia contratta che un po’ faceva ridere un po’ mi preoccupava).

Fissiamo i turni. (Io: “Flavio e  Mario fanno il primo, Giulio e Gil il secondo. Niente donne, così non si distraggono. Io faccio il terzo”. Chiara: “e noi?”. Io: “a voi a turno concedo di fare compagnia a me, così imparate a navigare e magari vi rendete pure utili, sempre a turno, perché ormai ho una certa età”.  Chiara: “si, quella di crescere”. Ma che hai? Che è questo tono? Che ti ho fatto? Da quand’è che non si può più fare una battuta?).

Quello che non ha voglia di scherzare è Gil e fa chiaramente capire che lui resterà sveglio in ogni caso. Buon pro gli faccia. Da parte mia, dato che lui resta in pozzetto, me ne vado a dormire almeno un paio d’ore in dinette, in attesa del mio turno, alle 4.00. Ma dopo mezzora appena mi sveglia il rumore del motore riacceso. Mi alzo e  vedo che nessuno ha fatto il caffè. Butta male su questa barca.

Mare calmo. Abbiamo tolto fiocco. C’è appena un po’  di brezza, sette o otto nodi. A me basterebbero. A Flavio ritengo altrettanto. Mario andrebbe a vela anche se soffiasse il fiato di un sacrestano su una candela. Ma lo skipper è Gil. Randa e motore. Ma prima o poi ne riparliamo, Giulio. Con te e con Roger che se lo può scordare il piacere che mi ha chiesto. Comunque se appena  rinforza un minimo io il fiocco lo riapro e vado a vela. Tanto è il mio turno di timone. Ma non rinforza e finisce che continuo anch’io a motore. Anzi, dico a tutti che possono  andare a dormire, tanto ormai quel cavolo di diesel mi ha svegliato. Flavio e Mario mi prendono in parola. Gil e Giulio no. Tutti e tre in pozzetto. Luci di pescherecci lontanissime e, comunque, fuori rotta. Giulio ne approfitta per farmi l’interrogatorio sui luci, fari e fanali. Pare che io non sappia la segnalazione di rimorchio di relitto. Gil neppure, ma ne approfitta per chiedere rivelazioni ai sogni e si fa un pisolino.

Chiedo a Giulio come va davvero con Antonella. Secondo lui benissimo. Lei sta sempre in giro tra l’Umbria, Roma dove vive la figlia e la Sicilia dove vive il figlio. Così non lo assilla. Ma poi gli sfugge detto che se uno si mette con una donna è per starci insieme. “E tu e Chiara siete fidanzati?”. Non lo so, amico mio. Formalmente no. Questa crociera serve anche a capirlo. “Ma perché hai portato pure quell’altra?”. Gli dico dell’amica di mio fratello che ha rinunciato. “Poteva trovarsela lui un’altra”. Già. O magari potevamo imbarcare solo in sette. Ma anche Lorella aveva bisogno di farsi una vacanza con gente nuova, lo hai sentito, amico mio. “Si, ma intanto dormi solo”. E quando mai ho dormito in barca? E poi la cabina più comoda te la sei presa tu, mi pare. Lui dice che eravamo d’accordo da prima. Devo aver detto di si a un sacco di cose che non mi ricordo… Poi ci mettiamo a parlare un po’ di Roberta e di Margherita. Mi dice che aver troncato quella storia è stato meglio per tutti e due. Parla per te, amico mio. Io Margherita me la sarei tenuta ancora un po’ (sono nobile e generoso, io: prima di negarmi ad una ventenne in formazione ci penso due volte). E poi, al fatto che ora non starebbero dormendo, ma sarebbero qui su a godersi questa notte con noi ci hai pensato? “Ma che c’entra?”. C’entra amico mio, c’entra. Che storia è una storia con una donna se non la porto in mare? “Si vede che a terra non le sai fare divertire più”.

Dopo dieci ore di navigazione, all'alba, svegliamo i delfini. Un branco numeroso. Giulio soffia come un matto in un fischietto per richiamarli (i delfini non so, ma mio fratello e Flavio li richiama di sicuro). Si avvicinano a gruppi di sei o sette. Come sempre, vengono a giocare con l'onda di prua. C'è anche un cucciolo, tenerissimo. Flavio ed io filiamo una cima e ci tuffiamo. Chiamiamo invano le ragazze. Continuano a dormire. L'unica a uscire, magari un po' tardi, è Sabina. Avercene sempre di visioni così all'alba:  tra lei e i delfini è un trionfo di bellezza. Beato Flavio. Ma mi impongo di ricordare che su questa barca naviga di meglio.

E il meglio finalmente esce sul ponte. Flavio le dice dei delfini. Lei guarda a lungo il mare. Forse spera che tornino. O forse sta soltanto scoprendo cos’è la prima volta lo svegliarsi a bordo, l’essere in mare appena desti. C’è un po’ di termica. Si potrebbe dare vela. Ma Gil dice di no, che si farebbe troppo tardi (tardi per cosa? Con chi abbiamo appuntamento? Ma perché non gliela posso regalare a Chiara una veleggiata fino alla Corsica?) Va bene, Gil. Se vuoi andare a motore pigliati il timone. Dopo tutto, anche se questa non è la mia barca, forse questa può diventare lo stesso la mia vacanza.

   Scendo in quadrato. Faccio un caffè e torno con due tazze. Sta tremando un po’. Le do il mio maglione e l’abbraccio per scaldarla. Ma si ritrae e si scuote. “Scusa. Preferisco un te. Ho freddo. Scendo”. Forse è vero e infatti chiede a Mario se può accendere il fornello. Ma è la prima volta che rifiuta la culla del mio abbraccio.  Resta giù a chiacchierare con Flavio. Quando lui risale, lei torna in cabina. Anche gli altri sembrano tutti addormentati.

E già siamo in vista della terra. Già il vento ci porta quella fragranza inconfondibile di rosmarino e di lavanda che è il segno della Corsica. In lontananza appare Calvi, porto legato ai grandi marinai e che si dice patria di Colombo (con altri  sette o otto ex possedimenti genovesi). Qui Nelson perse il suo occhio. Qui rischio i miei, già troppo famelici nello spiare i segni del destino.

 

 

20 luglio.

 

Arrivo a Calvi. Quattordici ore di traversata, ma con mare a favore e a motore (oh Virginie: furono diciotto con la "Mer de Dieu", ma con le vele a riva. Con il rumore solo del vento e dell'onda. E con la giovinezza nelle vene). Indovino una perfetta manovra di attracco al molo del benzinaio. Piccola soddisfazione personale (avevo paura di essere un po' arrugginito anch'io). Meno soddisfacente il conto. Rapido calcolo sui consumi: a sette nodi si può fare. Gil si perde una scarpa a mare. Flavio ha la sindrome del nodo di bitta (sarà che siamo stati un'ora a insegnare nodi alle ragazze). Chiedo doppini. Esegue.

Valutazione generale sulla barca: complessivamente una delusione. Vele poche (niente spinnaker, niente trinchetta) e tagliate male. Il fiocco, piatto come tutte le vele con i rollatori,  è murato troppo avanti e la randa porta poco dato il boma troppo alto. Insomma è la classica barca da charter sottoinvelata, come peraltro era prevedibile. Meno prevedibile era che non funzionassero gli strumenti (però, male che vada, c'è il sestante: utilissimo nel caso finissimo in pieno Atlantico dopo dieci giorni in cappa sotto tempesta e con satellitare in avaria). L’Opal è buona solo sull'aspetto della leggerezza e della prua bassa. Dovrebbe filare anche con venti leggeri. E se c'è mare, la chiglia a coltello (come appurato durante il tuffo in navigazione) sarà un vantaggio sulla planata. (Al diavolo, Renato: hai più di quarant'anni e trenta chili di troppo. E questa è una crociera, non una regata. Lascia stare e non fare il saccente. Neppure con te stesso).

Valutazione generale (di massima e da rivedere) sull'equipaggio: ho paura che ci saranno difficoltà di convivenza. Mi spiace (neppure tanto) dirlo, ma il problema sembriamo essere i  meno giovani. Giulio mi appare  cambiato: più che  il ragazzo di sessant’anni che ho imparato ad apprezzare sembra improvvisamente diventato un bambino petulante (va bene: non mi è riuscito di organizzare un incontro generale prima di partire, ma per il momento non mi pare che ci siano questioni drammatiche). Giulio, però, continua a punzecchiarmi, pontifica quasi quanto me (quasi, ma è lo stesso troppo dato che io a forza  di stare in Vaticano sono peggiorato), ha nominato Gil comandante e si è autonominato armatore e nostromo.

Soprattutto, mi pare che si comporti come una sorta di portavoce delle lagnanze di Antonella assunte in proprio, dato che lei non le esprime (ma forse mi sbaglio,  dopo tutto finora è stata quella che ha socializzato più di tutti. Tuttavia non è molto brava a giudicare le persone: è evidente che trova Mario più simpatico di me. C’è stata a chiacchierare due ore dopo che Giulio è andato a dormire. O tempora, o mores! Ma guarda un po’ con chi si doveva fidanzare Giulio)

In ogni caso, nonostante le assicurazioni della vigilia, è manifestamente la prima volta che Antonella naviga su una barca a vela di queste dimensioni e non mi sembra che ci si trovi a proprio agio. Lo steso vale per Lorella: se questa è la sua quarta crociera a vela, nelle prime tre era almeno distratta, dato che non distingue un'ancora da una randa  (va bene, Renato, piantala: non è certo proprio questo il motivo per cui da qualche ora ti  sembra decisamente meno simpatica di quando l'hai incontrata a Buenos Aires). Inoltre sembra decisa a contraddire chiunque parli, specialmente Giulio (che da parte sua non sembra averla presa troppo in simpatia), ma anche me e gli altri (piantala, Renato: è solo un modo di parlare. Anche tu, spesso, cerchi lo spunto polemico per esprimere un’opinione).

Io stesso mi scopro nervoso e stanco.  Tratto male mio fratello (tanto c'è abituato) e con qualche bruschezza tutti gli altri. Oltre tutto, ho paura che i primi screzi affioranti alla fine finiscano per riversarsi su di me (sarà la sindrome da Gesù Cristo, ma mi tocca sempre sopportare i peccati degli altri, come se non bastassero i miei). Anche Mario, però,  è più polemico con me del solito (ma gli altri si divertono: certo che per vedere in coppia i fratellini Molia bisognerebbe pagare il biglietto). Comincio ad infastidirmi: non è colpa mia se gli zii delle sue amiche si ammalano, ammesso che il motivo per cui è partito solo sia davvero quello. Più che offrire il posto ad un’altra  persona non potevo fare.  E poi, da parte sua, chiamare "loculo" una cuccetta bassa è chiaramente una provocazione nei miei riguardi. In barca l’ho visto dormire persino a paiolo. Intanto si è appropriato di mezza dinette. Gil dell'altra mezza. Ed io ho dimenticato di portare l'amaca: di dormire con i piedi in alto mi sa che non se ne parla. Sarà perché ci sto pensando, ma già li vedo gonfi e mi fanno male. Butta male su questa barca.

Per fortuna ci sono i ragazzi: è palese che potrebbero bastarsi, ma non si isolano, fanno gruppo, fanno simpatia. Sabina è radiosa, nonostante che sia stata poco bene durante la notte di navigazione. Di primo impatto sembrerebbe  timida, persino insicura, ma poi mi dico che è solo un’impressione suscitata dalla tenerezza che ispira (stai attento Renato, non farti fregare dalla sindrome da cucciolo: questa è una che ha fatto scelte dure, non è una ragazzina). Flavio lo trovo maturato (per quello che mi ricordo delle poche volte che lo avevo incontrato negli anni scorsi, quando mi era sembrato un po’ troppo concentrato solo su se stesso). Certo, è ovvio che ci sia una differenza tra uno studente di poco più di vent’anni e un trentenne impegnato in un lavoro duro come quello del commissario di polizia in una metropoli. Tuttavia mi sto quasi convincendo che a maturarlo abbia contribuito proprio questa storia con Sabina (dai, Renato, per una volta almeno fatteli gli affari tuoi).

Momenti di malumore ricorrente mostra Chiara (alle prese anche con problemi fisici, mi pare) ed è come se si velasse il sole. Al diavolo, Renato: non ci pensare troppo. Non le interessavi davvero neppure trenta chili e tredici anni fa, quando eri il padrone di Roma. Lascia stare: questa è la sua crociera, non la tua. E non forzare il gioco. Il mare è un dono, non un complice, se non per le persone banali.

Ormeggio in banchina. Quando richiamo a poppa, Gil mi dice di non accostare troppo. Gli rispondo che non abbiamo passerella -  quella usata a Port Vauban era dell’ormeggiatore - e che comunque la banchina sotto è vuota. Lui mi dice di mollare lo stesso un po’ a poppa e richiamare la drappa a prua. Va bene. Comanda lui (del resto, anche Giasone si ritrovò senza una scarpa e poi finì a comandare la nave più importante del mondo). Comunque, per oggi, la risolve: trova una tavola in porto. Abbiamo la passerella.  Meno male, perché appena finito di ormeggiare si sono già svegliati, lavati e vestiti tutti e scappano subito a terra, neppure se l’Opal bruciasse, compresa Lorella (quella alla quarta crociera) che dobbiamo aiutare in due a camminare su un metro e mezzo di passerella.

E compreso Mario che di solito non scende da una barca se non vede tutte le cime addugliate e magari prima impiomba pure qualche cimetta sfilacciata. Quando lo vedo tornare gli vado incontro e andiamo insieme al bar per un caffè. Telefoniamo a mamma. Ci dice che zia Marta è morta. Era una notizia attesa, ma fa male lo stesso. È quasi come se morisse un'altra volta zio Filippo. Mario è sconvolto. Parla di interrompere la vacanza, di andare a New York al funerale. Mamma gli dice che è già domani. Non faremmo in tempo. Ma lui non è convinto. Poi si calma. Però a me resta  una sensazione di forzatura. Non è solo addolorato. Sembra quasi che si cerchi un motivo per soffrire. O forse un dolore che sia pretesto per scordarne un altro. Possibile che sia solo la ormai annosa crisi del rapporto con lei? Cos’è che non mi dice, mio fratello?

Quando Chiara torna in barca  le dico di zia Marta. E le scorgo negli occhi pena per me, quasi lo stesso sorriso tenero, malinconico (in lei che di sorrisi è così avara, che è seria o ride) che le colsi in viso mentre mi portava per mano fuori dall’angoscia della morte di Aurelia. È dolce credere che il suo non sia solo il cordoglio superficiale di un estraneo, che li abbia conosciuti ed apprezzati. E penso a quei giorni trascorsi a New York con lei, in stanze rigidamente separate (viva i cattolici!) in casa di zia Marta e  zio Filippo, quando   il problema maggiore che mi poneva erano i cronici  ritardi ad esser pronta per uscire, quando pensarla un’amica mi bastava. Ma stavolta pesa non dormirle accanto. (Oh Virginie, forse proprio  in quei giorni a New York  compresi davvero che eri morta, che non c’era più gioventù nel mio futuro. Chissà se scelsi o se mi ci trovai? Ma certo fu allora che volli rispondere alla domanda di Aurelia che in tanti,   a cominciare da mia madre, mi hanno ripetuto in questi anni. Finché non ho scoperto - con timore, con pudore - che Chiara forse era davvero quanto di più importante avessi trattenuto e che una risposta a quella domanda dovevo chiederla a lei. Ho incominciato a dirglielo proprio durante quella vacanza insieme a New York. Mentre imburravo religiosamente una tartina durante una prima colazione al Plaza, le dissi che non mi riusciva di trovare una donna che avrei voluto più di lei come madre per un mio figlio. Poi ho continuato ad instillarmi e ad instillarle l’idea di noi due insieme. Ma ogni volta che le ho parlato d’amore l’ho fatto con quella sorta di autoironica riserva mentale che mi impedisce da tanto tempo di vedere una donna come un progetto di vita. A lei, oltretutto, mi è difficile pensare come a una possibilità concreta di felicità. Lo sai: sono sempre stato bravo nel valutare i sentimenti che ispiro e che provo. Né i suoi né i miei sono proprio quelli che ci vorrebbero. Ma incomincio a sperare che mutino e, stranamente, mi compiaccio di sperarlo).

Tornano anche Giulio ed Antonella. Dico a Giulio di segnare la spesa del gasolio. Lui prende la cassa comune dal tavolo di carteggio e mi chiede quanto deve darmi. Gli rispondo che stamattina li ho presi da là. E lui strilla che glielo devo chiedere prima, che il cassiere è lui e che su queste cose bisogna essere precisi. Ma  sei diventato scemo? Ti sveglio per dirti che prendo dei soldi dalla cassa? Antonella gli dice che ho ragione io e lui pare calmarsi.

Chiedo a Chiara se vuole fare una passeggiata con me. No, preferisce aspettare Flavio e Sabina. Anche Lorella mi dice che preferisce restare a bordo per fare una doccia. Mario è sparito. Gil pure. Tana libera tutti fino alle sette e mezza. Giulio conosce un ristorante dove si mangia la vera zuppa di pesce corsa e dice che prenoterà per le otto.

Vado a terra da solo. E dal cammino di ronda della cittadella lo sguardo spazia dalle montagne al mare (il che sarà banale, ma sfido chiunque a rinunciarci). Guardo il profilo dolce della Revellata, penisola piccola da cui seppi protendermi verso una stagione lieta (oh Virginie, perché bisogna sopravvivere? Perché, se più non mi sostiene la speranza?). Sono tornato. Dopo quindici anni. E guardo il mare come si guarda un idolo da ammansire. Dio mio, che sia propizio alla mia pace, che sia benigno a questi amici, che sia di nuovo amico a mio fratello. E che innamori Chiara della vita.

A sera, dopo cena, mentre passeggiamo a terra, provo (invano) ad innamorarla io. Parlo di noi. Le chiedo perché non decidiamo una buona volta che il nostro futuro è insieme. Non vuol parlarne. Anzi, dice una frase dura: “Da quand’è che hai scoperto di non bastarti? Beh, io mi basto. Non ho nessuna intenzione di vivere con te. Siamo stati, forse siamo ancora amanti. Certo siamo  anche amici. Ti è sempre andato bene. Da quand’è che data questa svolta?”. (Già, da quando data veramente? Forse da tre anni fa, quando tornò nella mia vita Serena, per una breve, rabbiosa stagione. Una sera che lei era a Roma, una di quelle sere clandestine che mi facevano sentire una sgualdrina,  io me ne andai a cena con Chiara. Certo, era solo una polemica con me stesso e un modo di dimostrarmi che Serena non era più la mia padrona. Ma poi, all’improvviso, mi accorsi che nel cambio ci stavo guadagnando, che Chiara era un aliseo costante nella mia vita e nel mio cuore, una brezza leggera, forte e dolce, tanto più giovevole dei venti impetuosi e sterili delle tempeste che avevo fronteggiato tante volte).

Ma non gliele dico queste cose. Non si parla così dopo dieci anni, neppure  a chi  avrebbe il diritto di sapere. Così le dico solo che sono contento che questa volta sia venuta (Sai Virginie,  due anni fa ci mettemmo a parlare del mare e organizzai una crociera. Ma l’abitudine di darmi buche Chiara non l’ha perduta. Anche quella volta all’ultimo momento non venne. Quel suo mancarmi, due anni fa,  lo sentii come una specie di segno del destino. Glielo scrissi anche in una cartolina, con un messaggio che era in grado di capire solo lei, magari se si sforzava un po’. Sentii  come se mi fosse negato averla accanto in ciò che più amo. Mario da allora è convinto che Chiara sia una “sola”, come diciamo a Roma. Ed anche stavolta ha avuto fino all’ultimo momento dubbi che si imbarcasse davvero con noi. Io invece stavolta ero sicuro. Non ha parlato d’altro per un mese).

Lei cambia discorso e si mette a parlarmi di Flavio e di Sabina. E all’improvviso mi accorgo che il discorso non l’ha cambiato affatto. Mi accorgo che sono loro il motivo del suo imbarco, non io. Mi dice che è preoccupata che Flavio  non si senta libero di decidere serenamente del suo futuro, teme che  faccia scelte obbligate dato che lei ha lasciato suo marito per lui. C’è qualcosa che non mi convince nel ragionamento, ma non capisco cosa. Però capisco bene cosa mi sta chiedendo: vuole aiuto nel valutare Sabina. È troppo lucida per non tener conto della gelosia irrazionale che prova, di quell’istinto di possesso nei confronti di Flavio che tanto rimprovera alla loro madre e che lei stessa però mutua  praticamente uguale.  Ma non può chiederlo a me. Non posso instaurare un rapporto con Sabina solo in funzione di Flavio. Non è il mio di fratello. Per me non è il punto più importante.

 E poi non riesco a concentrarmi sulla questione. Torno a parlare di noi due, di New York. Lei se la ricorda diversa quella conversazione al Plaza. “Non parlavi di una moglie, parlavi di un’istitutrice se mai avessi avuto un figlio da educare”. No: io le avevo detto che per educare un bambino ci vuole una donna e che lei era quella che avrei scelto per madre di mio figlio. Non mi pare la stessa cosa. E lei ribatte che scelte del genere non si fanno dopo tanti anni, che i rapporti con il tempo assumono una loro logica che non è giusto voler forzare. Io penso solo che se un rapporto non evolve,  in qualche modo muore. Ma ho paura a dirglielo. Ho paura che mi dia ragione.

E torna a parlare di Flavio, che invece di anni ne ha appena trenta. Ed è l’età in cui se si sbagliano le scelte di vita si pagano prezzi alti. (Già, era la mia età quando conobbi lei. E quando Serena invase la mia vita). “Lei non mi sembra il tipo che s’impegna per conservare un rapporto se sorgono difficoltà”. Ma perché, Chiara? È una difficoltà come tante altre l’amore? E poi se lui le ha fatto lasciare il marito vuol dire che è convinto che questa sia la donna giusta. O no? Secondo lei no: “Quella è stata una scelta di Sabina. Flavio è stato chiaro: non era per lui che lo faceva, ma per se stessa”. Ah, si chiama chiarezza …

Finisce che incontriamo Lorella che cerca bagni pubblici (si vede che la doccia dell’Opal non andava bene). È sola ed ovviamente si aggrega a noi (latitante di un fratello: è proprio tanto difficile capire cosa devi fare?). Fine del mio momento privato con Chiara. Ma forse è meglio così. Stasera non riesco proprio a farmi capire. Torniamo in barca chiacchierando tutti e tre. Giulio esce e fa una scenata sulle persone che dicono di essere esperte di vita di bordo e che poi fanno casino di notte in barca mentre gli altri dormono (questa è per me, presumo). Abbozzo. Mi scuso per tutti e tre. Ma incomincio a pensare che con Giulio forse dovremmo chiarirci. Esce anche Antonella, con un altro pareo bellissimo. Mi dice piano che Giulio non si è sentito troppo bene e si scusa per lui. Rispondo che  scuse devo porgerle io. E intanto, mentre ci scambiamo simili amenità, Chiara si è chiusa dietro la porta della cabina. Butta male su questa barca.

 

 

31 luglio 1999, cimitero di Antibes,

un'ora dopo l'alba.

 

Amica mia, il quadro era questo. Tre partite, forse quattro, sulla stessa barca. Ed io in mezzo, incerto se giocarle tutte o se aprirne una mia nella mia mente. Che non è più la stessa. Sono invecchiato. E invecchiato male. Forse sono un uomo più buono oggi rispetto ai nostri anni, ma l'energia va spegnendosi, lo spirito sonnecchia, l'anima non ruggisce più. Né canta. Sono mutato. E a farmi ritrovare quel me stesso che amavi non è bastato neppure il mare, il nostro mare, il fremito ampio del mare, come in quel verso mio che tante volte mi citavi. Certo, so ancora donarlo ad un'amica - e questa mi è cara come poche -, ma per me il dono e l'incanto del mare si riaffermano con sempre più fatica. Ma poi, ogni volta, è più difficile affrontare il pensiero del rientro, del ritorno a un quotidiano che sembra una condanna. Affrontare la negazione del per sempre imposta alla mia vita. Non tu, non Serena siete state il mio per sempre. Eppure non vi abbandona il mio pensiero. Eppure non rinuncio, ogni giorno - e giorno dopo giorno - al soffermarmi un poco a ricordare.  

Si pensa all'essenziale in barca: sei proprio tu ad avermelo insegnato nei giorni del nostro essere ragazzi. Ma qual è il mio essenziale in questi giorni non lo so ancora. E non lo sapevo sull'Opal. Certo, le priorità erano evidenti: Chiara su tutto. Perché le voglio bene davvero. E non è solo riconoscenza, affetto, stima. È quanto di più simile all'amore ho vissuto dopo di te e dopo la ferita di Serena. Ma non sono in grado di rigenerarmi dentro le due gambe per me ormai amputate con le quali cammina l'amore adolescente: la passione e la speranza. E lei merita l'una e, soprattutto, l'altra.

Poi questo mio fratello, così diverso e così simile a me, anche lui ostinato nel non riconoscere che alcune persone  si tramutano in sconfitte, anche lui, come me, esposto alle ferite. Ma più di me difeso, più di me con  appetiti e desideri concreti e, forse, meno tormentato.

Poi Giulio, questo amico più recente, ma caro, simpatico, con cui è bello dividere allegria. Ed anche lui, improvvisamente, apparsomi diverso, ma non meno caro.

Amica mia, avevo imbarcato molto sull'Opal. E ancora non so che cosa ha dato frutto, che carico riporto dal viaggio.

 

 

21 luglio.

 

Golfo della Girolata.  Lezione di carteggio. Sono come Aristotele: maestro per un solo allievo. Per lui era Alessandro, per me è Sabina (brava, intelligente e pronta: magari conquisterà l'Asia anche lei come Alessandro. A conquistare me c'è già riuscita). Però cerco lo stesso, invano, di coinvolgere le altre signore. Dopo un po' mio fratello mi dice piano, da parte, che Antonella sembra infastidita dal continuo parlare di barche, di vela, di carteggio e di manovre. Va bene. Proviamo a dare vela. Navigazione lenta. Poco vento. Ma la tratta è breve. Guai a Gil se prova a rimettere motore.

Ancoraggio laborioso sotto il Col de la Croix. Ci mancava solo l'ancora leggera! E oltretutto il richiamo a poppa del comando dell’ancora  non funziona. Certo, niente di grave, gente da mandare a prua ne abbiamo quanta ne vogliamo, ma quando torno giuro che Danielle ed anche Roger mi sentono. Lorella va subito a fare un bagno. Flavio si prepara per immergersi e devo ricordargli che qui è vietata la pesca. Sandro porta Antonella e Chiara in tender a terra. Sabina fa il te e me ne dà una tazza (va bene: è meglio di qualsiasi geisha giapponese, ma questo non autorizza certi evidenti pensieri dei maschietti rimasti a bordo. Non miei, peraltro, o almeno non tanto, dato che ho da pensare a un'altra).

Poi succede di tutto. Prima Lorella sparisce senza avvertire nessuno. Preoccupazione (poca) soprattutto mia. Mezz'ora in tender a cercarla per tutta la baia (tra l’altro mi scordo di portarmi una maglietta e mi ustiono). Alla fine spunta.   Pacato ammonimento, per la prossima volta, di restare a vista e di avvertire se intende stare per conto suo. Poi si rompe uno dei bagni. Meno male che accade mentre lo sta usando Giulio, altrimenti finiva che era colpa mia anche questa. Poi Mario si accorge che ha perso il portafoglio in mare e avvia una serie di scenate. Sarà pure mio fratello (e tra l'altro da questo momento sarà in carico economico a me), ma la questione barca mi sembra più impellente. Telefonate all'armatrice. Domattina alle nove ci aspetta in banchina ad Ajaccio un tecnico per le riparazioni sia del bagno sia degli strumenti. Significa navigare tutta la notte.

Intanto godiamoci questa rada che i corsi hanno lasciato un paradiso. Mario non ne vuol sapere. Vuole partire subito perché deve bloccare le carte di credito, dice. Già, deve evitare che una cernia le raccolga in fondo al mare e vada a prelevare i suoi soldi a un bancomat. Chiara e Flavio riescono dove io fallisco e, finalmente, Mario si dà una calmata. Anzi, porta tutti di nuovo in tender a terra. In bordo restiamo solo Gil ed io. Chiacchieriamo un po’ in pozzetto, poi lui si va a sdraiare in dinette. Ma poco dopo lo devo svegliare. Mi sono accorto che lo scandaglio segna trenta metri. Cavolo. Ne avremo al massimo sei o sette. Partito anche questo, come il pilota automatico, il radar  e il salpa ancora di poppa. Quelli non sono problemi, solo fastidi. Questo, invece, può essere grave in qualche porto. Chiedo a Gil se conosce bene i fondali dei porti che toccheremo. Li conosce come la sua madre, dice. E io che ne so come e se la conosce?

Mario riporta tutti a bordo. Si cena. Non abbiamo ancora finito che già Antonella incomincia a lavare i piatti. Le dico di smettere. Ripeto che questa è riserva marina. Non voglio sapone in mare. Giulio, che non mi può contraddire, trova lo stesso la maniera di polemizzare e mi fa chiaramente intendere che dovrei insegnare a Chiara e ad Lorella non tanto a fare i marinai, quanto  a fare i mozzi e a lavare prima le verdure e poi le stoviglie. Non è del tutto vero, mi pare. L'unico che ancora non ha toccato il lavello né si è occupato della cambusa e della cucina sono proprio io. E poi lui e Mario avevano entrambi detto di voler cucinare loro. Quanto ad Antonella, può evitarlo di fare la mammina della barca. Faccia lavorare anche gli altri, anzi le altre. E non solo Sabina, che si dà da fare anche mentre si sente male (o è finta o è un angelo). In ogni caso, affari loro: facciano i turni (se proprio è necessario sono persino disposto a lavare qualche piatto anch'io. Ma solo se è proprio necessario). E poi basta: che sono tutte queste storie? Quando mai in barca sono un problema i piatti? Appena ci muoviamo li metto in una nassa e li filo in mare, così si lavano da soli, sempre se la trovo una nassa a bordo.

Nel frattempo me ne vado a prua. E vengono in processione, una per volta. La prima è Lorella. Vuole solo chiacchierare un po’, dice. Mi chiede che sensazioni diverse dà il navigare sotto costa dal navigare in oceano. Mi sta a sentire mentre le parlo dell’onda lunga dell’Atlantico. Chiede se con questa barca ci si potrebbe andare e sta di nuovo a sentimi mentre le spiego perché no, compresi i particolari tecnici su cosa occorrerebbe fare per armare l’Opal a cutter e la necessità di poter arretrare il centro velico. Poi però non resiste e mi chiede quali siano davvero i miei rapporti con Chiara (“Sai, lei dice che le fai la corte solo per gioco. Ma state insieme o no?”). Ma si, parlate pure di me, tu che mi conosci da sei mesi e lei che mi conosce da una vita. Chissà che non finiate per capirci davvero qualcosa. E magari lo spiegate pure a me. E poi, se la verità non ve la dite tra voi due, perché chiederla a me? No, cara. Mi spiace, ma non sono affari tuoi. Così mi chiudo, minimizzo (“Certo che è un gioco. Si corteggiano sempre le compagne di barca”). Ma  forse credo di scherzare e invece dico il vero, forse io e Chiara ormai siamo davvero solo  compagni di barca. Lorella, mi pare, ora ne è convinta.

Le dà il cambio Antonella, con un altro pareo bellissimo (ma quanti se ne è portati?), anzi, in pratica solo con quello. Parla di Giulio (“Dici che stiamo bene insieme?”). Poi  dei suoi figli. Poi di Mario (“Ma perché è tanto nervoso?”). Già, perché è tanto nervoso? Cos’è che non mi dice mio fratello? Ma certo non ne discuto con Antonella. E anche lei si decide a fare la domanda che le brucia: “Ma perché te le sei portate tutte e due?”. Perché si era liberato un posto, lo sai benissimo. “Va bene, ho capito, non ne vuoi parlare. Non so come ti sei spiegato con loro, però secondo me hai fatto male comunque”. Arriva Giulio,  equivoca (?!? ) e dice che ha ragione lei, che ho fatto male a non spiegarglielo bene prima a quelle due signorine come si sta in barca. E io che so? Non mi hai detto ieri sera che sono un millantato esperto di vita a bordo e di galateo del porto? Lui continuerebbe, ma Antonella se lo porta via.

E spunta Sabina. Lei viene a cercarsela la culla del mio abbraccio. O forse le serve un bel cuscino. “Perché dici che una stella è un cane?”. E le racconto di Orione ucciso dall’invidia degli dei  e del suo cane Sirio, della fedeltà che si fa morte di dolore. E lei mi parla della sua storia con Flavio. Nei fatti non è diversa da quanto mi aveva detto Chiara. Erano stati insieme da ragazzi, poi lui l’aveva lasciata, poi lei aveva sposato un altro, poi si erano rincontrati con Flavio e avevano scoperto di essere ancora innamorati.  E suo marito ha capito. Penso – e le dico - che la parte migliore, in tutta la vicenda, l'abbia fatta proprio lui. Probabilmente non si può chiedere a un uomo di restare con una donna che non è più tutta sua. Ma c'è stile, sofferenza e rispetto nel suo lasciarla andare. Penso a Serena. A quel suo strappo lacerante. A quel taglio netto che diede alla nostra storia e alla mia vita. E penso a come, allora, avrei accettato di tenerla a qualunque condizione. Ma le dico solo che Flavio deve amarla davvero: è tanto più facile tenersi una donna come amante piuttosto che chiederle di lasciare il marito. “No, lui è stato onesto: mi ha detto che se decidevo di lasciare mio marito lo facevo per me stessa, non per lui”. Ah, si chiama onestà …

Si leva vento di terra, caldo. Mi pare che l’ancora ari un poco. Ma è dolce restarsene appoggiato al coronamento con una ragazza tra le braccia. Anche se non è quella che vorrei. E poi tra poco  partiamo. Sarebbe inutile dare fondo un’altra volta. “Perché dici dare fondo? Non si dice buttare l’ancora?”. No,  l’ancora è troppo preziosa per buttarla. “Sono contenta che ci sia tu. Questa vacanza è importante per me. E tu sei uno che vuole bene alle persone”. Addirittura. “Non scherzare, si vede”. Da che si vede non me lo sa spiegare, ma dice che le sembra di conoscermi da sempre e che sente di potersi fidare di me. Ma poi anche lei – e tre – la fa la domanda vera: “Secondo te a Chiara sto simpatica?”. “Sarebbe incontentabile, se non le piacessi”. “Vorrei che diventassimo amiche”. E le rispondo che l’amicizia di Chiara è preziosa. “Tu le vuoi bene, vero? Organizzarle il compleanno in barca è un bel regalo”. Allora vuol dire che le vogliamo bene tutti, mica ci sono solo io. “Non è lo stesso”. O si, lo so che non è lo stesso, ma se vuoi tra un mese facciamo in barca anche il tuo. “Noi due da soli o tutti insieme?”. Vediamo, magari lo chiediamo a Flavio. O magari ce ne andiamo in quattro, in famiglia. “Magari avessi un familiare come te”. Ma che hai ragazzina? Chiedilo a Chiara che razza di palla al piede posso essere. E Chiara esce, guarda la scena e torna giù. Poi esce Flavio e ci raggiunge. Sabina resta sul cuscino che si è scelta.

Poi esce Gil e mi dice che è ora di salpare. Tutti in pozzetto. Io scendo a prendere la cerata. Ma Mario sembra finalmente più concentrato sulla vacanza che sul portafoglio perso. Mi dice che lui e Giulio faranno il primo turno. Bene:  tracciatevi la rotta, salpate l’ancora e appena fuori dalla baia date vela. Vado a dormire un po’. Fate voi. E loro fanno. Con Gil che supervisiona. Però quando ci mettiamo in rotta riescono a non indovinare per due ore un'onda che è una (ma forse sono io ad essere ipercritico con tutti e due). Flavio, che era stato per tre ore a fare immersioni, nel frattempo dorme. Idem le ragazze, o almeno restano in cabina.

Anch'io sonnecchio un paio d'ore e poi esco in pozzetto. Gil, che è stato sveglio finora (e per buona parte del giorno e della notte precedente) mi chiede se posso fare due turni, il secondo magari con Flavio, per consentirgli di dormire un po' (lo ripete: se voglio un cambio o compagnia devo chiamare Flavio, altrimenti devo svegliare lui).  Poi, di fatto, si limita sdraiarsi in pozzetto (e comunque il cambio non mi serve. Quanto alla compagnia, se sveglio qualcuno, sveglio Chiara. Dopo tutto l’ho sentita chiacchierare due ore con Lorella. Qualche minuto potrebbe dedicarlo anche a me, se non altro per spiegarmi se sono io quello che deve andare dieci anni in psicoanalisi di cui stavano parlando. E poi, non si sa mai. Le stelle, i brividi dell’umidità che giustificano gli abbracci premurosi, le parole alate che cercano di far vibrare l’anima... Non si sa mai).

Ma non è questa la notte adatta. Onda corta di prua e anche un po’ di mare incrociato. Ma il cielo è chiaro e le stelle fanno compagnia di notte agli amanti e ai naviganti (io sono l'uno e l'altro: sto navigando e amo. Su più consuete e meno letterali accezioni del termine amante meglio soprassedere). Gil si riscuote e mi chiede se deve darmi il cambio. No. Allora scende e va a dormire sul serio.

Comunque alle cinque, quando vedo luce dal boccaporto della cabina di Flavio, lo chiamo. Esce Sabina e mi dice che è stato male. Niente di grave, però. Infatti esce anche Flavio  e l'aria lo rinfranca subito. Timone a lui ed io vado a fare il caffè. Torno in pozzetto con biscotti e tre tazze. Gil dorme ancora. Flavio timona. Ma si vede che non sta ancora troppo bene. Gli dico di tornarsene a dormire. Anche Sabina scende. Il mare va calmandosi. Dopo un po' posso timonare da seduto. Basta un piede sulla ruota. Strano: non sono stanco. Si sveglia Mario ed esce. Gli dico di mettere la cintura. Lui dice che scende a prendere una tazza di caffè. Non risale.

Chiara  non esce. Dorme. E sono sicuro che non abbia neppure il pudore di sognare di me. Penso a lei e cerco di capire come vivrà questa esperienza (soprattutto cerco di capire in che modo indirizzerà l'eventuale nutrimento all'anima che potrebbe trarne e, in via subordinata, in che modo potrebbe manifestarsi la doverosa gratitudine per me che glielo ho procurato. Oh Renato: non dirlo neanche per scherzo. Non scherzare sulla gratuità del dono. E dell'amore). In ogni caso, Chiara per ora sembra concentrata sulle altre persone più che su se stessa (e su di me, sempre  in via subordinata). Ma il mare ha tempo ed io ho imparato a dare tempo al mare.

Su Sabina, la dueña del barco sembra restia a formulare giudizi affrettati, nonostante qualche evidente tentazione in merito. Sembra quasi che voglia vietarsi di volerle bene o male troppo presto. Ma a me sembrano destinate a piacersi o, almeno, a volersi piacere (il che spesso è anche meglio: se riesco a convincermene e, soprattutto, a convincere Chiara, do una svolta alla mia vita). Da parte di Sabina è manifesto che ad interessarle è soprattutto  il giudizio di lei. Noi - e specialmente io (ma è perché non ha ancora capito che per Chiara conto relativamente poco) - siamo di appoggio e, per la verità, ci sa trattare bene. Ma evidente che la partita da giocare è quella con Chiara.

Questa, dal canto suo, sembra andare d'accordo con Lorella. Sono ventiquattro ore che chiacchierano. Almeno in questo mi è andata bene. Tuttavia mi concedo di rimpiangere per un momento che non ci sia a bordo Clara (forse con Chiara non si sarebbero trovate tanto simpatiche. E a mutare posto letto ci vuole poco).

Lo dico, piano, a Giulio, appena uscito in pozzetto (senza cintura, ma a lui non faccio storie). Lui incomincia a chiedere particolari sui miei rapporti con Chiara e mi sfotte perché non faccio in modo da cambiare la disposizione dei posti in cabina, dato che mi vede palesemente deluso (ma non è così semplice, amico mio: non sono deluso, sono concentrato su un pensiero strano. Penso se in una moglie, in una compagna sia più importante l'amica o l'amante. In ogni caso, occorre essere complici, avere qualcosa di riservato per sé soli. E Chiara ed io, forse, non l'abbiamo più). A Giulio però mi limito a rispondere che mi sta bene che Chiara e Lorella si siano trovate simpatiche a vicenda. (Ma baro con me stesso: preferirei di gran lunga che Chiara restasse di più con me. Ma c'è tempo, almeno spero, e poi... c'è il mare). Anche Giulio torna a dormire. Resto solo. E cerco la mia stella mentre attendo il sole.

 

 

22 luglio.

 

C'è qualcosa che non funziona in questa crociera. Forse gli dei del mare non vogliono che questo gruppo navighi insieme. Alle otto del mattino attracchiamo ad  Ajaccio, ma il tecnico promesso da Danielle  non arriva per tutta la mattinata. Quando si presenta (ore 15), dice che va a chiamare un riparatore e torna alle sette di sera. Nell'attesa, io ho anche rimandato il doveroso omaggio a Napoleone. In compenso me ne vado a guardare Chiara che fa il bagno dall'altra parte del molo. Non sarà Venere che sorge dalle acque (poca spuma e manca la conchiglia), ma è decisamente un bel guardare. In mare è giusta. In barca ancora non so. (Al fatto se sia giusta o meno per la mia vita rifiuto di pensare sul serio, più che altro per non dovermi porre l'interrogativo reciproco). In ogni caso, lei ha messo paletti chiari e non è detto che questa crociera le farà mutare valutazione sui nostri rapporti. Con gli altri possiamo anche scherzare, tra noi due lo scherzo può diventare un gioco complice, ma non sono certo che si convincerà a farne un gioco serio. Altre donne della barca sparse tra scoglietti e viuzze. Mi concedo (fossi diventato un po' cafone?!) il gusto di ignorarle tutte.  

In attesa che torni il tecnico (boccoli biondi e aria strafottente), Gil fa una sfacchinata per smontare e per cercare di riparare il cesso (assistenza morale di Giulio; io sdegnosamente rifiuto di impegnarmi in simili attività e mi limito a saltuari controlli). Niente da fare. C'è la valvola di scarico marcita e spezzata a livello dello scafo. Per ripararla bisognerebbe alare la barca.

Il sedicente tecnico (quando si decide a tornare fresco di permanente) prende per i fondelli e sostiene che siamo stati noi ad otturarlo. Flavio, seraficamente, gli dice che allora lo sturi al prezzo prefissato di cinquecento franchi (sulle barche da charter c'è persino scritto a bordo). Il boccoluto si scusa, ma poi cerca di buttarla sul banale ("... non vi vorrete rovinare la vacanza per così  poco") e ripete la stessa solfa, scambiandoci per novellini e sostenendo che simili inconvenienti capitano spesso a chi non è abituato alla vita di bordo. A Mario e a Flavio girano le scatole. Molto duri entrambi. Mario gli sbatte sotto il naso il suo manuale di navigazione (acquistato nel 1981) dove magari si impara poco per quanto riguarda i cessi, ma che non lascia lati oscuri sulla vela. Il boccolocrinito prima dice che il manuale in questione conta poco, poi torna a scusarsi. Flavio gli fa notare le volte in cui lo ha già fatto e (un po' meno seraficamente) lo invita a scusarsi di meno e a riflettere di più prima di parlare. L'individuo prende cappello (in senso figurato: a lui bastano i boccoli a coprire la testa) e se ne va.  Nessuno lo rimpiange.

Incominciamo a contare le carenze e le avarie: pilota automatico, radar, profondimetro, blocchi delle pentole, cesso, passerella che manca (Lorella ha ogni volta problemi ad andare a terra e a venire a bordo). Questa barca non ha fatto manutenzione invernale (e per inciso neppure carena). Si parla (discussione tutta al maschile, con l'astensione del sottoscritto, se non per precisazioni tecniche) di rientrare lentamente ad Antibes. Vantaggi: rimborso totale della spesa e ancora due o tre giorni di mare. Svantaggi: vacanza monca e, di fatto, rovinata (io incomincio a pensare a una possibile altra barca da offrire a Chiara e cerco di ricordarmi qualche nome di gente conosciuta quindici anni fa qui ad Ajaccio, quando davamo feste a bordo della "Mer de Dieu"). Sabina sta a sentire e non esprime giudizi. Antonella, da parte sua, non dice una parola, ma si capisce (almeno io lo capisco) che medita decisioni in proprio.

Giulio chiama Danielle e incomincia a spiegarle la situazione, accennando al fatto che potremmo interrompere la crociera. A questo punto, arrivano Lorella e Chiara (la santa alleanza a vantaggio della mia castità)  e si risentono perché non le abbiamo consultate (ci mancava solo la democrazia in barca!!). Lorella fa il suo esordio con le parole "io esigo" (esigi?, ma che siamo diventati matti, signora, o ci hai scambiati per i tuoi valletti?). Mario mostra un autentico (e decisamente infastidito) stupore. Giulio la guarda  come se fosse un incrocio fra un somaro parlante e un topo con le coliche. Per un attimo mi illudo che stia recitando per mia edificazione (me l'aveva detto che mi considerava responsabile in solido per i comportamenti delle due ragazze, dato che secondo lui non le avevo catechizzate a puntino). Ma poi capisco che si sta inalberando sul serio.

Chiara, con altro tono (non meno fermo, ma certo più pacato) dice sostanzialmente le stesse cose e cioè che prima di mandare in malora le sue ferie potremmo almeno sentire cosa ha voglia di fare lei. Mi sento di concordare in pieno e lancio a Giulio, sempre più torvo, un'occhiata per metà  di preghiera e per metà di monito. Per una volta mi dà retta, ma è chiaro che mi considera rincoglionito per Chiara (su simili rincoglionimenti prima o poi dovremmo discutere: se non altro, ammesso che io lo sia, non se ne può certo attribuire a Chiara la responsabilità, né tanto meno la regia. Per altri non rispondo. Ma ho le mie opinioni e questa crociera sta tutt'altro che mutandomele).

Tentativi (miei) di mettere una pezza alla tensione crescente. Inutili. Le donzelle si ritirano sottocoperta e dichiarano drasticamente che diserteranno la cena. Io per qualche istante assaporo la tentazione del chi se ne frega (che però è fascista: il motto di noi di sinistra è "I care", mi importa. Ed a me importa di tutti questi amici con i quali mi sono imbarcato sull’Opal). Alla fine, Flavio (su insistenza mia e di Sabina) le convince ad unirsi a noi. Salvano la faccia (si spera anche in senso estetico) dichiarando che occorre loro un'ora per fare la doccia, per lavarsi ed asciugarsi i capelli e per i restauri in genere prima di raggiungerci al ristorante.

Nell'attesa, aperitivo che io tiro per le lunghe (Virginie lo diceva sempre che ho una particolare abilità nel far durare una bibita due ore quando voglio perdere tempo). Ma non basta. Antonella, Mario e  Gil si avviano al ristorante, ovviamente al seguito di Giulio, quello che lo conosce benissimo, come  ogni posto del Mediterraneo dove si possano mettere le gambe sotto una tavola imbandita. Flavio e Sabina vanno alla  barca a recuperare le umiliate e offese. Io resto a mezza strada (della boa di segnalazione ho tutto quanto occorre: stazza e colore rosso dato che mi sono praticamente ustionato al sole e, per inciso, perché ho una maglietta in tinta).

Dopo un po', se Dio vuole, tutti intorno al tavolo.  Compresa Lorella.  che prima dice di voler andare a spasso, ma poi ci onora della sua presenza, rinuncia alle delizie del turismo e si siede con noi. Peraltro solo per amore della compagnia, dato che annuncia di non aver fame (ha mangiato prima un'insalata) e che conferma l'affermazione spazzolandosi appena tre piatti di zuppa di pesce. Però, sul piano sociale si impegna come di più non si può chiedere: per dimostrare di essere integrata nella compagnia come meglio non si potrebbe, si siede tra me e Chiara (non bastava che ci dividesse per quanto riguarda la cabina).

Chiara ribadisce la sua posizione (non credo di essere di parte se la ritengo logica e legittima. E non è solo perché mi ha detto che quello da mandare per dieci anni in psicoanalisi di cui parlava con Lorella ieri non sono io. Oltre tutto, argomento a parte, mi scoccia che non parli di me, che non pensi a me e che, soprattutto, non sia innamorata di me. Certo, peggio per lei, ma anche io non sto messo troppo bene). La sua chaperon concorda con lei nel voler continuare la vacanza, anche se fortunatamente almeno adesso "esige" solo altri crostini. Fa bene, perché la zuppa di pesce è decisamente buona.

Ma solo quella. Il clima  è da controaliseo a Capo Horn (freddino). Giulio non rivolge la parola a nessuna delle due. Mentre torniamo in barca mi dice che quasi sicuramente sbarcherà. Io me la prendo con Antonella e faccio l'elenco degli atteggiamenti che ha tenuto da quando è montata in barca. Lui dice che è una decisione propria. Ci credo poco (anche se trovo normale che si preoccupi soprattutto di come stia Antonella). Ma ha ragione lui (e non solo sul fatto che fare le cose in coppia impone premure più specifiche). Tra l’altro mi ricorda che  per lui le vacanze sono trecentosessantacinque giorni all'anno. Non deve tutelarle a tutti i costi. Non è andata: punto e a capo. E forse per noi altri andrà meglio.

Mi fanno un male bestiale le caviglie. Vado a dormire in pozzetto con i cuscini della dinette e i piedi in alto. Come non detto. Salgono  Mario, Chiara e Lorella. Chiacchiere. Non si dorme (ma nulla da eccepire: il pozzetto è di tutti). Vado a terra con un libro. Sono esasperato nero. Per la prima volta, appena un po', anche con Chiara, anche se aveva ragione lei. Butta male su questa barca. Quando vedo il pozzetto libero, torno a sdraiarmi. Ci risiamo. Mario e Giulio a chiacchierare. Non fa niente. Stavolta dormo. E russo pure.

 

 

31 luglio,  cimitero d'Antibes,

un'ora dopo l'alba.

 

Amica mia,  cominci a capire che forse sopravvivere non è sempre la cosa migliore? Non tutti i tramonti mostrano lo scintillio dell'onda assolata. Non tutti meriggi sono quieti e dolci. Anche sull'Opal, più che a un progetto di futuro che mi coinvolgesse avevo la mente solo ad un presente che costruisse un ricordo lieto di me in Chiara, in Giulio e in tutti gli altri. Non mi riesce più di guardare avanti, di  pensare a giorni futuri con un amico, di pensare ad una donna come a un progetto. Eppure, questa è la migliore che conosco. E magari sarebbe anche una storia giusta. Ha intelligenza. Ha cuore. Soprattutto non ha le ingenuità adolescenti che ti costringono a mettere una maschera per non mostrarti come sei davvero. Ma bisognerebbe vivere. Bisognerebbe amarla più di quanto non ami il mio passato, il mio restare solo a ricordare. Bisognerebbe vivere. Ed io temo di non avere ho più cuore bastante a vivere per un'altra persona, ammesso che lei volesse. Temo nuovo dolore nell'accingermi a chiedere  alla vita un'opportunità ancora, a chiedere un presente che aggiunga qualcosa alla mia storia.

 

 

23 luglio.

 

Mi sveglia il solito coglione che ci ha pescato l'ancora (questo per lo meno non si tuffa come l'austriaco scemo di Ventotene). Io e Gil mettiamo in mare il tender e andiamo a sbrogliarla (ma certo con le parolacce di Piero  in napoletano e i miei insulti che Rossana traduceva in tedesco a Ventotene ci divertimmo di più). Oltre tutto, ridiamo fondo senza mollare a poppa. Un po' precario. Un marinaio anziano di un ferro da stiro attraccato a fianco a noi ci offre un traversino doppio di prua (bella forza: è lungo dieci metri in più). Però riscatta il casino che un giovinastro del suo equipaggio (il motorista) ha fatto per due ore con il carburatore del suo tender (per modo di dire: è una specie di motoscafo d’altura).

Con Mario ci mettiamo a parlare di due anni fa a Ventotene, di quei tre giorni bloccati in porto. Anche allora stavi sempre per conto tuo, fratellino, e sempre appiccicato al telefono. Davvero non c’è niente che vuoi dirmi? No. Di sé non vuol parlare. Ma dell’equipaggio si. Secondo lui siamo male assortiti, ma non per i motivi che vengono in mente a me. In sintesi, il problema sarei io. Giulio e Flavio sarebbero scocciati di tutte le volte che Antonella e soprattutto Sabina pendono dalle mie labbra (dice lui). Lorella si sentirebbe a disagio perché io faccio la corte a Chiara (e a lei fagliela tu, così non si sente esclusa). Gil  non approverebbe che io lo tratti come un dipendente (ma quando mai?). E Chiara? “Lascia stare, svegliati: quella è venuta per stare col fratello e per conoscere Sabina. Se non c’erano loro ti dava buca un’altra volta”. E tu? Perché sei qui? No, di sé non vuol parlare.

A colazione tutti in pozzetto. Si decide, orientativamente,  di continuare. Ma poi, quando Gil telefona a Danielle, lei gli dice di far rientrare la barca. Mario incomincia a riflettere a voce alta su quanto tempo possiamo far durare il rientro. Ma io non mi do per vinto (questa è la crociera di Chiara e Chiara avrà la sua crociera. A costo di comprare oggi stesso una barca ad Ajaccio, già armata e pronta a prendere il mare). Dico a Giulio di chiamare Roger e di passarmelo ("ciao, sono monsignore, vedi si ti è possibile farci navigare").  Sabina: “Perché ti chiamano monsignore?”. Io: “Ma è ovvio: in Francia è il titolo che si dà ai principi”. Mario e Giulio, all’unisono: “perché lavora per i preti”. E no. Diciamo che lavoro per la Chiesa o almeno per il Papa. Ammesso che il mio possa chiamarsi lavoro. (Si,  Virginie. Non ho cambiato  opinione. Ma  scrivere poesie non fa mangiare. E poi, se non altro, Chiara me l’ha regalata proprio il mio lavoro in Vaticano. Collaborò per tre o quattro anni con il mio giornale.  Era brava, credimi: sono andato giorni fa in archivio a rileggermi alcune sue inchieste sulla "questione nomadi" e devo dire che erano fatte decisamente bene. Ma poi ebbe problemi e smise. Anche questo fu un peccato, ma per la verità non suo: è il nostro giornale a non dare spazio alle donne. Era  il mestiere per lei, molto più di come non lo sia per me. Tra l'altro ci crede ancora che questo sia un mestiere bello. Ma è ancora giovane, quasi giovane come ero io quando ti dicevo che al mio lavoro non avrei rinunciato per nessun motivo e che di scrivere facendomi mantenere da te non se ne parlava proprio. Qualche anno dopo provai a farla assumere in una piccola agenzia che sembrava dovesse aprirsi con direttore un mio amico, uno che oltretutto l'apprezzava molto. Sembrava fatta: le feci persino prendere un'aspettativa dall’impiego al ministero, ma poi saltò tutto. E io non mi sono mai perdonato - e non ho perdonato a quel collega - di non essere riuscito).

Dopo un po' richiama Danielle: se vogliamo si continua. È andata.

Giulio, Antonella e Mario vanno in città. Credo che sia per la questione dei documenti persi, ma non è solo per questo. Quando tornano, Giulio e Antonella comunicano a tutti che lasciano la barca.  Hanno già i biglietti dell'aereo per Nizza. Ormai me lo aspettavo, ma è lo stesso un colpo duro. Resto con loro finché non arriva il taxi per condurli all'aeroporto. Non provo neppure a convincerli a ripensarci. Conversazione al bar. Tra le tante motivazioni del non voler continuare (oltre al cesso), mi dicono entrambi che non piace loro come mi tratta Chiara. Ed anche stavolta non riesco a credere che Giulio parli sul serio. Ma è così. La recita è stata presa come realtà. Mi vede, mi vedono come un innamorato respinto. E respinto da una meno bella (opinione loro) e  meno affascinante (sempre opinione loro) delle altre donne con le quali mi hanno visto. Giulio mi parla di Margherita (e mentre Antonella non sente persino della sua  Roberta). Spiego come stanno le cose. Giulio sembra non credermi. Antonella, invece, si mette a parlarmi di Clara (aspetto soldi compreso). Non mi piacciono né il tono né il momento (anche se me la sono cercata). Sento un sapore strano, sgradevole, di intrigo e di invadenza (sono ingiusto, lo so: Antonella non sta facendo altro che cercare di favorire i miei progetti. E li ha capiti bene). Le dico che a Clara un posto in barca era stato offerto – e proprio da lei - prima ancora che a Lorella e che è non voluta venire. Perché avrei dovuto chiederglielo anch’io? Antonella si fa scappare un "perché sapeva che c'era Chiara". Io le chiedo che cosa c'entri e ripeto che con Chiara il rapporto è chiaro. E sottolineo che non consentirò critiche su di lei. Antonella cambia subito  registro ("se dici che è così, va bene").

Ma Giulio insiste e mi dice che sto invischiandomi in una storia sbagliata (che mi ritenga un coglione è sottinteso). Ed io, per la prima volta, comincio a chiedermi se per uno strano caso questo mio amico lontano da ogni introspezione esasperata e da ogni chiaroscuro psicologico, solare come un mezzogiorno senza ombre, non stia indovinando: per la prima volta da tanti anni comincio a chiedermi davvero se - oltre ad amarla come nessun’altra - sono davvero innamorato di Chiara nell’accezione usuale del termine e soprattutto se sia uno sbaglio esserlo.

Torniamo alla barca e Giulio e Antonella scaricano i bagagli. Flavio e Sabina sono andati a fare spese. Gil è andato alle docce pubbliche. Quando arriva il taxi è Antonella a dover chiamare Chiara e Lorella perché escano a  salutare. Solo Mario (che Dio benedica mio fratello) scende dalla barca per salutarli sul molo. (Ma poi le assolvo, le ragazze: il galateo del porto si impara solo dopo un po'). L'ultima frase di Antonella per me è l'augurio che mi sia utile la cabina armatoriale liberatasi.

Gil torna in tempo, saluta Giulio  e Antonella e dopo che sono partiti  mi chiede  che intenzioni ho e cosa deve comunicare a Danielle. Gli dico di attendere che siamo tutti a bordo (stavolta non mi fregano: evviva la democrazia!).

Passa il capitano del ferro da stiro accanto al quale siamo attraccati. È un ligure, ma non gliene faccio una colpa (e poi è di costa. Serena è dell'interno, quasi piemontese). Scambiamo due parole. Lo invito a bordo. Mario tira fuori vino freddo e bicchieri (che Dio benedica mio fratello e tutti quelli che sanno stare in barca! In premio, la cabina armatoriale la do a lui. Tanto, per quello che mi serve... oltretutto potrebbe sempre decidersi  a invitarci Lorella e a lasciarmi libero il tavolo da gioco. Ma forse la dovrei dare a Gil... No, basta, deciso: l’avrà Mario. Dopo tutto due anni fa l'ho mandato a prua per stare comodo io).

Un'ora come Dio comanda (non tutti i liguri sono infausti alla mia vita). Un po' di rilassamento in stile porto. Doveroso omaggio alla vela. Doverose critiche ai padroni dei ferri da stiro e agli equipaggi di terra. Rapido scambio di informazioni su barche di comune conoscenza. Così si fa. Bello.

Scendo a terra. Omaggio a Napoleone. Poi vado a cercare un ulteriore regalo per Chiara (le ho portato solo tre magliette). Compro sciarpe non tessute in un negozietto delizioso: non solo sono belle, almeno credo,  ma sono un modo per dire che non sto ordendo trame in nessun modo, che mostro le cose - e la mia anima - come sono. (Però è un po' arzigogolato e forse non lo capirà. O forse si, se il mare, come spero, comincia a scorrerle lungo le vie del cuore).

Tutti a bordo. Si decide di continuare. Io penso solo al fatto che due sono sbarcati. Mi sento responsabile. Per non aver controllato la barca, per la scelta dell'equipaggio, per non aver saputo renderli amici gli uni agli altri (non è che mi creda il Padreterno: è solo che ero l'unico che tutti, tolta Sabina, già conoscevano). Soprattutto per non essere stato io più amico a loro, a Giulio (cavolo, Renato, ti ci voleva tanto a lavarle tu due zucchine?) e ad Antonella (cavolo, Renato, è una che con te è sempre stata amica e premurosa. E non stai qui per insegnare vela a chi non interessa).

Si riparte. Con un bagno solo. Senza alcuni strumenti di navigazione. E soprattutto senza due persone di equipaggio. Ma sono l'unico a cui sembra importare. Gli altri, stranamente (?!?) appaiono persino sollevati.

Il motorista del ferro da stiro ci scorta fino al largo con il tender (riparato). Simpatico, ma che casino. Mi prendo il piccolo piacere di incaricarlo di presentare i miei saluti al suo capitano (stile da nave di Sua Maestà Britannica, ma per questa sorta di lambrettista con lo scafo è un po' sprecato). Si naviga. Su uno sloop trasformato in un traghetto per portare le bambine a fare il bagnetto. Butta male su questa barca.

Appena passato  Capo di Muro si apre al traverso il piccolo golfo di Valinco, il più bello dell'Isola. Guardo in lontananza il massiccio del Cortona. E quasi - ma è solo il ricordo di una stagione diversa - mi sembra di sentire il profumo intenso degli eucalipti. Canto una mia canzone a Sabina che mostra di apprezzarla (che Dio ti benedica, ragazza mia, anche se è solo compiacenza per un vecchio abituato a mitizzare gli anni del suo essere ragazzo). E scopro perché mi piace tanto. Non è curiosità: è memoria. Ha gesti uguali a quelli delle mie donne bambine, dei miei amori lontani, delle poesie, delle finestre contemplate per ore. E scopro che mi commuove guardare una ragazza con occhi da ragazzo, anche se è invecchiato il cuore.

Serata in rada, in una piccola baia davanti a Porto Pollo. Flavio a pescare (bottino due polipi).    Ed io parlo con Sabina. Sarebbe una figlia accettabile. Mi ascolta, se non altro con un interesse apparente. Apprezza le favole e le mie canzoni. E fa il te proprio quando sento di volerne una tazza. Propongo l'adozione. È  andata. Poi torna a parlarmi della sua storia con Flavio. Ed io torno a pensare a quel suo marito che non ho mai visto e che compiango. E stimo.

Quando ne parlo con Chiara, lei mi dice che stare in situazioni del genere non è accettare, ma solo aspettare nella speranza che cambino (ed io, lei, saprò aspettarla ancora?). In ogni caso  però sono convinto che mi sarei accontentato (ma con Serena no. Non mi bastò riaverla quando tornò. Da lei che fu padrona del mio cuore non accettai che il sole scaldasse meno, che meno carezzasse il vento. Non accettati che amore diventasse sordido, colpevole). Ma oggi accetterei che Chiara mi tenesse accanto senza amarmi dell'amore che cantano i poeti (e qualche volta anch'io, in giorni tramontati). Glielo dissi in tempi non sospetti: è più saggio  amare chi si sposa che sposare chi si ama. Ma forse questa saggezza è solo l'avarizia dei vecchi con la vita. E io sono vecchio. (Amica mia, ero già vecchio allora? O mi ha invecchiato Serena? O il tuo lasciarmi solo? O la morte di Aurelia, di quella bambina che amavo più dei figli che mi ha negato la mia storia? E questi dieci anni di resistenza erano necessari? Le avrò le mie risposte al nostro appuntamento tra quaranta giorni? E questo strano modo di amare con riserva, di non stimarmi più un affare per ogni donna che incontro - o che riscopro - è quanto ti attendevi mi accadesse? E questo mio parlarti per parlarmi dentro è solo letteratura? è morboso ? o è ancora amore? Sono destinato a restare per sempre quello del tempo delle crisi, del tempo di combattere e di resistere, o forse anche per me ritornerà il tempo di vivere?)

Si forse  ero già vecchio allora. E oggi? Oggi sicuramente il dieci per cento di un ideale potrebbe bastare a scaldarmi il cuore (ma tu non hai percentuali, amica mia: sono io che non so farti innamorare,  che non so essere utile al tuo cuore, utile al tuo futuro. Sono io che non riesco a entrare nei tuoi sogni, nei tuoi progetti, nelle tue speranze. Sono io che non riesco a esserti, di volta in volta, come vorrei, porto nella burrasca e vento nelle vele). Butta male su questa barca e nella mia vita.

 

 

Notte tra il 23 e il 24 luglio.

 

A mezzanotte brindisi per Chiara. Flavio (sollecitato da me) è andato a terra in tender a comprare lo champagne e lo offre per il compleanno della sorella. Io me la godo (anche se ha comprato una bottiglia e non due come gli avevo detto. Non brinderemo, io e lei da soli, all'alba del suo compleanno, versando spuma d'oro di champagne sulla spuma d'argento del mare, peccato). Tra l'altro, mi sento un congiurato al quale stia riuscendo la cospirazione (che viscido con il mio suggerire "se poi reputi opportuno pagare tu, lo trovo più che giusto": voglio vedere come farà domani ad impedirmi di offrirla io la festa di compleanno alla dueña del barco e, per qualche giorno almeno, de mi vida).

Allegria. Foto. Io propongo che Lorella monti sul tavolo in quadrato (su quello da carteggio no, che c’è un limite anche al festeggiare) e si esibisca in un tango (dopo tutto c'è andata fino a Buenos Aires, posso testimoniare). Lei sostiene che non può farlo perché non ci sono hombres. Magari intendeva davvero dire solo ballerini, ma i maschietti presenti non la prendono bene. Ovviamente, risate. Rido anch'io, per quanto con Lorella sia ancora risentito per come ha trattato Giulio e nonostante che sia concentrato nello scrutare in Chiara tracce di contentezza.

E lei, all'improvviso, sente la magia - almeno mi sembra - di questo compleanno in barca, di questa vacanza voluta per lei, pensata per lei. Erano giorni che non reagiva alla terapia barca. Ma qualcosa incomincia a muoversi. Forse stavolta ce la faccio a restituirle un po' di serenità (sempre se non gliela affogo di chiacchiere). Dopo tutto Virginie lo diceva sempre che sulle belle donne in crisi ho un effetto sedativo e vagamente terapeutico. Ma forse la verità è che il mare incomincia a lavorare ai fianchi lei e tutti noi, quelli che fuggono appena possono in un ristorante, o su un motoscafo, o anche solo su un tender che li porti a riva, e quelli che in mare restano, ostinati a ricercarne i ritmi, l’anima, le rotte. E forse Chiara è di quest’altra specie.

Dopo i brindisi, i regali (da  Flavio orecchini e braccialetto, apprezzatissimi e subito indossati, da Sabina maglioncino, da me già detto. Dagli altri niente. Vada per Gil ed Lorella, ma mio fratello perde qualche punto. Tra questo e le scenate per il portafoglio è grasso che cola se gli darò la sufficienza stilando le pagelle della crociera). Io, intanto,  preparo il tappo e la bottiglia (strumento principe per affidare dei messaggi al mare!) come reliquie di questo giorno. Non mi dispiace la sua convinzione che vengano da Flavio, ma credo senza vanità di potermi attribuire la regia del tutto.

E Chiara va in coperta a parlare con il mare, con il cielo stellato, con se stessa. E forse ad ascoltare una voce che le parla di me, se sa ascoltare il mare. Mi faccio forza. Questo momento è suo. Resto lontano.

Annuvola sull’orizzonte e già sono molte le stelle che quelle nuvole nascondono, che si cancellano prima di tramontare in mare. Quando lei scende sotto coperta e va a dormire, in mare vado io. Nuoto sul dorso, piano, con lo sguardo alle stelle. Il pensiero vaga, spazia, indugia sulle memorie più lontane. Ma poi torna a queste ore di presente. Rifletto ancora su Giulio e  Antonella sbarcati. E quelle nubi che oscurano le stelle dove finisce il mare mi riportano a un’altra stagione con Giulio, a un  pomeriggio passato insieme al campo di volo in Umbria, con la sua ragazzina e con quell’altra che allegramente ci facevano sfidare il ridicolo.  Anche quello fu un giorno luminoso, ma con in lontananza un temporale che mi appariva quasi un’allegoria di pericolo, squarciato di saette come tagli sulle mie speranze della giornata. Ed anche allora a frenare l’allegria fu il pensiero che non bastasse più il giorno per giorno. Ed anche allora – e glielo dissi a Giulio – era Chiara a squarciarmi la coscienza. Era Chiara assente ad impormi una nuova comprensione, inutilmente negata, di un affetto antico che muta di tono e che rifiuta il suo mutare.

Ma poi fu il sole, il lungo gioco degli aerei a simulare una battaglia incruenta, di abilità e di leggerezza, come un disegno nel cielo.  Con fantasticheria e memoria, timore e attesa, pudore e speranza intrecciati tutti a comporre un nome, una figura che si insinua, insistente e cara, che si fa parte del pensiero, che si appropria dello spazio tra i minuti. (Oh Virginie, ma anche allora quel volo verso il sole alla fine fu l’amarezza di un Icaro cosciente che occorre non allontanarsi troppo dalla terra, di un Icaro invecchiato che si nega il canto di un’altra illusione, di una giovinezza che sente riaffiorare). E Giulio lo sapeva, a lui lo dissi il perché delle lunghe prove per tornare alla pista, quel mio rimettermi a studiare su come sopravvivere quando ti pianta il motore. Quello di un aereo e quello dentro di te.

A Giulio lo dissi il pensiero irridente che nessun istruttore, nessun manuale, nessuna esperienza  possono insegnarti a vivere, se il tuo cuore perde i ritmi consueti, se accelera le pulsazioni all’approssimarsi di un ricordo, se cessa il suo battito per un lungo istante, quando un pensiero, una dolcezza, una speranza si mostrano con l’evidenza irridente di un errore. (Oh Virginie, perché me l’hai negato il tuo riposo? Perché chiamare tentazione l’assenso a lasciarlo schiantare un  cuore troppo stanco, a non difendere una vita che torna a farsi sofferenza?).

Dai Giulio, non erano quelle ragazze la terra a cui tornare, la fine del vagare tra me stesso e l’idea di un me diverso. Allora lo comprendesti che la mia terra – e  lo scrollarmi dalla mente una visione di sofferenza che non può mutare -, poteva davvero essere quella Chiara che non conoscevi. Perché stavolta l’hai vista una nemica? Perché quell’astio per due piatti non lavati? Perché sbarcare? Perché lasciarmi questo vuoto sulla barca, questo dubbio su un’amicizia tanto importante, questo peso? (Oh Virginie, davvero eri convinta che la febbre si sarebbe ritratta, lasciando l’anima tranquilla, come una sera di risacca dopo che la tempesta si è placata? E la tempesta che mostra le scorie sulla riva davvero ripulisce il mare? Davvero invita a salpare un’altra volta? O invece giungere a quella riva è solo camminare sui brandelli strappati da un cuore ricucito in fretta?).

E penso a Mario, se almeno lui saprà ricucirselo il cuore, lui che sutura le ferite agli altri, lui che sugli altri ha freddezza vivificatrice del chirurgo.  Penso a quell’ansia che mostra e mi chiedo se davvero è solo perché  incomincia a stufarsi di stare fermi o di andare a motore (oltre tutto gli dice male e non pesca neppure una sardina). Penso che non ci siamo ritrovati. Che questa volta il mare non ci unisce. Come due anni fa, quando venire con amici miei per lui fu stare solo. Da quand’è che non abbiamo più care le stesse persone? Da quand’è che ci siamo separati, noi che pure ancora ci capiamo al primo sguardo, noi che pure siamo l’uno all’altro gran parte di ciò che ci rimane?

Penso a Sabina e a Flavio che, almeno loro, non hanno ancora dato prove di insofferenza o di fastidio. Ma penso pure che c’è una qualche ombra che li incalza e che intuisco, ma non so spiegare.

Penso che Lorella era probabilmente venuta con aspettative diverse (sono stato davvero chiaro?) e che sicuramente non si sta divertendo (per inciso, Mario e Gil potrebbero familiarizzare un po' di più con la ragazza. Una donna in barca deve essere corteggiata. Flavio è impegnato. Io, purtroppo, no, ma è come se lo fossi. Tocca a loro). 

Poi penso a Chiara. E a me. Ma non mi riesce di pensarci come a un noi. Ho come l'impressione che tra breve non ci sarà più spazio per me nella sua vita. Ho poco tempo per regalarle il mare (e per insinuarle nel regalo un mio ricordo che le leghi il cuore e che si leghi al mare). E il mare è tanto, è infido, è strano. Ma è una notte tenera, tiepida di dolcezza. E forse Chiara dorme un sonno quieto, alto, divino. Forse sogna il sogno veritiero di un futuro lieto. Forse incomincerà ad essere felice.

Ed io? Io forse prima o poi metterò la prora a un mio per sempre, volterò la poppa al passato e avrò, soltanto e finalmente, il mare ed il riposo. Ma temo (oh Virginie, davvero non lo amo più questo mio stare solo a ricordare?) che nella sua vita non potrò dare fondo all'ancora. E allora, almeno, che le  sia parte del vento. E lei mi sia solo rimpianto e non rimorso. ("Signore, vuole che le racconti la mia vita?":  se continua così, mi ritrovo anch'io in una taverna dei mari del Sud a offrire agli stranieri di passaggio la mia storia amara in cambio di un rum). Torno in barca e vado a dormire con un peso sottile, ma insistente, nell'anima.

Domani, anzi oggi, a Bonifacio, la festa per Chiara la organizzo io. Così, se non si diverte, se la potrà prendere solo con me.

Ma si divertirà.

 

 

24 luglio.

 

Si è divertita. Cena ottima. Cantante al piano bar bravissima. Forse ho raggiunto lo scopo di questo viaggio. Ma bisognerebbe fermarlo adesso. Eppure anche questa giornata era incominciata senza il sole (il mio, non quello sorto puntuale a illuminare il  mare). Chiara  per quasi tutta la mattinata in cuccetta (del giorno del suo compleanno ne ha passato mezzo dormendo: che sia un simbolo nefasto? No, non trascorrerà un anno ancora senza tenere gli occhi aperti sulla vita. E sul mio cuore) (Però! sono giorni che non manco una battuta. Tutto sommato, sono in forma).

Al mattino sono il solo a tuffarmi. Gli altri dormono tutti. Soprattutto dorme Chiara quando Giulio telefona per farle gli auguri (che Dio benedica chi resta un gentiluomo a dispetto di ogni circostanza). È in porto a Nizza, su uno dei ferri da stiro di Roger (sarà contenta Antonella) e non mi sembra più arrabbiato ("te l'ho detto: io sono in vacanza tutto l'anno. Tanto ci sono quelli come te a lavorare per pagarmi la pensione"). Va al diavolo, amico mio. Mi passa Antonella ("ti è servita la cabina? Non ti preoccupare, quando torni organizziamo una cenetta con Clara"). Va al diavolo anche tu. E soprattutto al diavolo io che ci sto ancora male perché siete sbarcati. Buon bagno e buon appetito (se andate a fare il bagno prima di andare al ristorante). Sono in vacanza anch'io. E su una barca a vela. E il vento arriverà. E Chiara avrà il suo compleanno più bello. Ed io non ho paura di innamorarmi ancora. Punto. (Ma grazie davvero, amici miei, del sopportarmi quando faccio il matto. E con Clara me la vedo io quando ritorno).

Intanto si sono svegliati tutti. Tavolo di quadrato apparecchiato per la colazione (non ho visto da chi, ma posso immaginarlo se Flavio dice alle ragazze che è stato inutile portarsele: “non cucinate, non lavate,  non andate alle manovre. A che cavolo servite?”. E parli proprio tu, che una risposta forse potresti dartela?!? Che dovrei dire io?). E poi hai torto: qualcosa sanno farlo, per esempio scambiarsi confidenze. Sabina parla alle altre due dei rapporti con la sua famiglia. Io sono in fase di rilassamento, con una  tazza di caffè e con un libro, per precisione “La Certosa di Parma”  (in barca bisogna rileggere, non impegnarsi la mente in cose nuove, a meno che non siano nuovi amori). Non è che stia origliando, è che  la barca è piccola e il chiacchierio distrae. E poi essere curioso è il mio mestiere.

Comunque è interessante. Nessuna delle tre scade in luoghi comuni. Sabina è lucida nel soppesare i rapporti veri, dietro la vernice comune degli affetti e dei contrasti. Chiara è profonda e tenera nello scrutare oltre  i fatti nudi, nel parlarle con i toni pacati dell’interesse autentico, nel sostenerla con una sensibilità vera, che non ha nulla di pietoso in senso superficiale, che non è di maniera. Ma da lei me lo aspettavo (dopo tutto seppe parlare a me, quando ero solo macerie sofferenti). Quella che mi colpisce è Lorella (“c’è un momento in cui tua madre si trasforma in tua figlia”). Diavolo, come è vero! (fatti un atto di contrizione, Renato: forse la ragazza meriterebbe di essere valutata meglio).

Ma poi spero che Sabina non intuisca fino in fondo cosa può nascondere quella frase (oh ragazza mia, ci può essere un tempo in cui ciò che ti ha dato vita te la risucchia, ciò che ti è stato sostegno si trasforma in peso. E non accade solo con le madri. Non dare retta a chi crede di spiegare tutto con quattro nozioni di psicologia d’accatto rabberciate: non è il senso di colpa che ci schiaccia. Quello è facile scrollarselo di dosso, dopo tutto esiste un egoismo sano che ci difende dal non volerci bene. Ciò che è invincibile, quando è riuscito a farsi riconoscere, è il senso del dovere, questo padrone esigente che non soddisfi mai, che mai ti assolve).

Ma non posso dirgliele queste cose, perché nessuna vita insegna a un’altra ad essere felice  (oh Virginie, è un freddo appagamento quello che viene dalla coscienza del dovere compiuto, quando non ti sostengono più fulgore e giovinezza. Oh certo, ho resistito. E ho fatto la mia parte. Certo, in molti aspetti posso giudicarmi riuscito, giusto, buono persino. Ma dove è più la gioia piena, la fidente attesa di ogni nuovo giorno?   E tu, mia giovinezza e mio fulgore, perché non basti più al canto del mio cuore? Perché sul nostro mare io guardo a un’altra e tu non la cancelli?). E neanche questo - almeno non tutto - posso dire. Anche se almeno una capirebbe. Meglio non intervenire nella conversazione (e poi, Renato, per una volta puoi pure star zitto). 

Quando con Gil decidiamo di muoverci, esce sul ponte anche Mario. Per una volta, vento di lasco e anche di gran lasco. Spy non ne abbiamo. Fuori l'asimmetrico. Bruttino. E poi il vento cala. Inutile. Gil dà motore. Io e Mario, per la prima volta d’accordo, decidiamo (non c'è bisogno di dircelo) che Gil è pagato per lavorare per noi. Se lo timoni lui il traghetto. Mario fila una traina e si immerge nei manuali di vela. Io mi trasferisco a Parma, con la Sanseverina e il Mosca, con Fabrizio e Clelia. Diciamoci la verità: Stendhal in mare aperto non è male.

Ma i segni del destino giungono anche quando uno non li cerca. Questo non so interpretarlo: proprio mentre leggo la frase (della Sanseverina) "ho trentasette anni. Sono una donna vecchia. Forse presto morirò", mi vedo davanti Chiara. Ed oggi compie trentasette anni. Da infarto. Certo, se è un segno la riguarda solo per l'età. Ma non riesco a non pensare che il resto riguardi me: sono vecchio? sto per morire? O sono il Mosca, vecchio innamorato disincantato che alla fine si vede la devozione ricompensata? Mostro la frase a Sabina che mi guarda come se fossi uno stregone maligno o, almeno, uno strano mago. Perdo tempo, esorcizzo i fantasmi. Creo una curiosità generale. Infine faccio leggere la frase a Chiara. Ride. Grazie a Dio ride.

Nubi di calore scaricano un temporale improvviso. Vado sul ponte. Gli altri restano in quadrato. A manovrare bastiamo Gil ed io. Strano, anche Mario non sale. Eppure sto issando le vele, soprattutto per lavarle, ma anche perché un po’ di vento si è levato e ci offre un bel traverso. Vengono a banchi, con squarci ripetuti di sereno e di sole, ma con l’orizzonte  cupo.

 Ma stavolta la cupezza non è il mio d’orizzonte. Stavolta il mare mi consola. Eccolo il dono, eccola quella dimensione che per me è la gioia. Ecco un’altra volta sciogliersi il peso dell’anima. Ecco le vele gonfie solo di vento e di bellezza, mentre l’angoscia si sperde nella scia. L’Opal risponde, ora che finalmente può essere quello per cui è nata, ora che il vento la rende la dimensione giusta del suo andare. Ora sarebbe bello correre con le nubi, ora che le vele scagliano gocce di potenza, miste di pioggia e di mare, come le stille di sudore dal manto di  un cavallo chiamato finalmente a galoppare.

Gil mi guarda come attendendo che gli chieda di aiutarmi a manovrare. No sta seduto. Basto da solo a questo vento. E forse è un’altra volta la mia barca.

Ma già siamo in vista di Bonifacio, con il suo porto difeso, con le sue fortificazioni ancora intatte. A vela ancora. Un’altra volta a vela in questo fiordo. Si basto io a lasciare la bolina. Viro, lasco la randa,  apro un po’ il fiocco e l’Opal poggia e poi si lancia ancora. Bella manovra. Belle le vele aperte tra le due scogliere.

Ma poi Gil ordina di ammainare. Traffico in porto. Un primo attracco, sotto la pioggia battente, da lasciare subito perché il posto è riservato. Infine ci si ferma. Problemi per fare elettricità. In capitaneria con Gil. Due volte. Inutilmente. Beh, ci pensi lo skipper. E poi ho da fare. Ed ho due ore appena per organizzare la festa per Chiara.  Alla "Caravelle" è cambiata gestione. Non fa niente. Fidiamoci. La torta sarà crema e frutti di bosco. E ci saranno (piccoli) i fuochi d'artificio. Abboccamento con il complesso del piano bar: sono due ragazzi italiani. Messa a punto delle dediche. Non c'è solo Chiara. Per Lorella sarà un tango (hombre o non hombre), per Sabina una canzone del '71, nata con lei. E per Chiara? Oddio, non sarà il mio passato, ma tante volte ho pensato in queste ore "è notte alta e sono sveglio". Scelta anche questa.

Torno in barca. Appuntamento a tutti al ristorante. Ci scappa anche il tempo per salire al forte, per ripercorrere gli otto camminamenti, per rivedere le immense cisterne ed i granai, per uno sguardo dall'alto su questo porto dove mi conduce un'altra barca dopo quindici anni. Mentre scendo vedo  in una vetrina un ciottolo strappato al mare. Sembra un violino scuro, con quattro corde chiare a traversarlo. Chiare come il suo nome, chiare come la voglia di farle un altro dono.

Quando torno a bordo, ci sono solo Gil e Lorella. Chiedo di Chiara. Lorella mi dice che gli altri si sono già avviati. Io sorrido e dico che senza di me non si comincia, che il compleanno di Chiara sono io.  Va bene, forse con Lorella non mi sono spiegato in nulla. Forse anche questa battuta l’ho recitata male. Ma perché quella punta di veleno? Perché raccontarmi dei progetti che Chiara le ha confidati, di quei progetti dove io so di non avere posto? Perché proprio stasera? Ma non fa niente. Dico loro di andare avanti, che devo cambiarmi. Solo un minuto. Chiudo io la barca e vi raggiungo.

E invece, alla fine li precedo, loro e gli altri. Meglio così, meglio il tempo di un ultimo controllo. Meglio metterle il ciottolo sul piatto, con due righe per dirle che è una serenata che il mare mi ha incaricato di portarle. “Ah meno male, credevo che fosse qualcun'altra delle tue sassate”, dice quando lo legge. Ma quando mai? Da me solo carezze. “Lasciamo stare”. Si, lasciamo stare.

Chiara a capotavola. Flavio alla sua destra. Io solo alla sinistra (ma anche senza il posto d'onore le faccio un complimento nei fatti e ordino il suo stesso menù, squisito). Chiara in forma smagliante (era ora!) guida la conversazione. Allegria vera, finalmente. Dagli altri tavoli occhiate insistenti verso la mia zona (sono seduto tra Chiara e Sabina).

Flavio incomincia a spazzolare  tre chili di frutti di mare. Sabina perde presto i colpi e non gli sta dietro. Non sia mai che io lasci  un amico (tanto più se è il fratello adorato di chi adoro) solo in un compito oneroso: lo aiuto con premura e valentia (però non sembra apprezzare e cerca di tenere per sé tutta la polpa di granchio. Che famiglia: mi mistificano tutti,   ingrati!). 

Coro di camerieri con la torta (oddio, sembra un villaggio vacanze o una puntata di "Love boat"). Fine della cena, ma la serata continua. Tutti ad ascoltare musica al piano bar del locale. Mario passa le ordinazioni al capocameriere (palesemente ed ostentatamente gay). L'unico che sembra aver voglia di ballare è Gil. Ma quando il complesso dedica una canzone a Chiara e lui prova ad invitarla, lo blocco con un perentorio (forse troppo perentorio ?!?) "questo è il mio".

Ed è fra le mie braccia. Per un istante conta solo questo (anche per lei, mi pare, ma posso anche sbagliarmi). Ma poi mi coglie la maledetta malattia di sempre: autoironia ed onestà beffarda d'intelletto (baciala, scemo, invece di scherzare sul tuo amarla). E la magia declina. Un attimo ed è la mezzanotte e il compleanno di Chiara è trascorso. Ballo - male - il tango con Lorella. Faccio un po' di corte paterna a Sabina. Appena finita la canzone dedicata a lei ce ne andiamo. Uscita da sovrani. Il capocameriere mi porge l'ultimo dono da offrire a Chiara, un fiore.

Torniamo in barca. Tutti a bordo e in cuccetta. Ma Chiara resta, per parlarmi ancora. Di questo compleanno. Di questa vacanza che le sembra finalmente avviata in senso giusto. E di noi due? “Noi due cosa? Di che hai paura stavolta?”. Perché paura? Ma poi capisco. Già, quando tutto è normale non la cerco e quando il peso è troppo glielo impongo. “Che c’è stavolta? Un’altra guerra? Un’altra conversazione con un prete croato sotto i colpi di mortaio?”. Ma perché non m’arrabbio? Perché non lo chiamo insultarmi questo schernire quella lettera un po’ folle di quella notte a Cazin, enclave di Bihac? E poi perché folle? È così strano scrivere a una donna come si scrive un testamento mentre nel freddo bosniaco attendi, conti, stimi la distanza dei colpi e il calibro degli obici? “No, non è questo. Lo sai che non è questo. È che l’amore per te è un interruttore che premi quando hai tempo, quando non c’è un servizio, un’esigenza, un andare che ti chiama, un qualcosa che senti più importante”. Davvero è questo? Davvero lo senti così il mio amarti? “Non negarlo. Non negarlo a me. Io non sono Serena. Io non sono quella che ti manca. Io  sono quella che pensi debba sempre esserci e ci sia”. Oh no, questo poi no. Questo non è mai stato il mio volerti bene, non è mai stato volerti da infermiera. “Lascia stare. È stata una giornata bella. Ne avremo altre. Tutti insieme. Non rovinarla questa vacanza”. E se lo prende, quel bacio che ho smarrito in mezzo a un ballo. Ma solo quello. E sembra tanto un bacio di congedo.

Scende. Dopo pochi minuti smette ogni rumore. Vado a terra. Guardo a lungo l’Opal. Sei anche tu una pietra, amica mia. Ed anche a te manca la sinfonia del vento. Ed anche te, forse, trasciniamo in mare senza amore, senza affidarci al mare e al vento. Poi, per un'ora ancora, lungo il molo e lungo le stradine finalmente silenziose. Mi scrollo un sogno dalle spalle. Ho quattrocent'anni. Ed ho memorie come stimmate. Ed ho l'anima stanca, dolente, estenuata. Ma ho una vacanza da rendere memorabile a chi mi è caro. Ma sono su una barca. E ho il mare.

 

 

25 luglio, mattina.

 

Mi sveglio per primo. Mentre faccio il caffè si alza Gil. Devo avere la faccia dura, perché incomincia a scusarsi per ieri sera. All'inizio non capisco di che parli, poi mi rendo conto che sta riferendosi al ballo con Chiara che voleva "usurparmi". Mi metto a ridere e gli spiego che sostanzialmente è un tutto un gioco (?!?). Ma poi ci mettiamo a discutere seriamente. Gli dico che questa barca deve andare a vela. Lui tira fuori tutte le solite scuse degli skipper da charter (ultima volta che ne prendo uno: d’ora in poi, se mi serve aiuto,  un marinaio che obbedisca e una hostess che lavi i piatti e le zucchine). Insisto sul fatto che siamo qui per navigare. Gil dice che dipende dalle condizioni atmosferiche e che non intende fare le Bocche con il mistral annunciato dai bollettini.

Io gli dico che voglio uscire e controllare (sono due giorni che andiamo avanti con bollettini che parlano di un vento a forza cinque, sei o addirittura sette che nessuno ha sentito: saremo gli unici marinai della storia a poter raccontare di un terribile mistral che soffia a nodi zero).

Prendiamo carta e regolo: passato capo Pertusato, rotta su Maddalena, poi virata a ridosso di Caprera prima di risalire verso Lavezzi. Penso che Flavio ne sarà contento (non voglio dire "contento lui, contenti tutti", ma in questo momento non è che mi interessino proprio tutti). Gil insiste con il mistral. Va bene, vorrà dire che allora andiamo in Sardegna: se il vento va male per la Maddalena, va sicuramente bene per Capo Testa e per Santa Teresa di Gallura. Gil mi dice di pensare ai tempi del ritorno. Lo salva da una rispostaccia lo squillo del suo telefonino. È Roger. Scambiamo due frasi. Mi dice che lui e Giulio hanno concordato due giorni di rimborso con Danielle (che Dio benedica gli amici come Giulio, anche se non gli piace Chiara o, meglio, non gli piace l'idea di me con Chiara. Per quanto riguarda Lorella, non discuterò, se non per dovere di ospite invitante).

 Accenno ad Roger il fatto che stiamo navigando poco. Riparla con Gil. Poco dopo telefona anche Danielle. Poi ancora Roger. Subito dopo, Gil mi dice che vanno bene le mie decisioni e che lui le eseguirà (diciamo la verità: qualche volta è comodo essere il "monsignore" che occorre tenersi buono!).

Poco dopo si sveglia anche Sabina. Mi ringrazia per la serata di ieri (meno male, qualcuno che sa dire grazie c'è su questa barca). Vado a terra. È domenica e voglio andare a Messa. Oltre tutto, prima di mezzogiorno non si parte. Entro a Sant'Erasmo. Non è cambiata per niente. Stessa disposizione dei banchi. Stessi vasi di fiori. Stessa statua di Santa Giovanna d'Arco con il medesimo cipiglio più ebete che guerriero e mistico (ricordi, Virginie, mia piccola arrabbiata sciovinista, come ti inalberavi quando sfottevo i santi francesi?). Parlo con il prete affinché celebri la Messa in suffragio di zia Marta. La liturgia del  giorno presenta il passo del primo Libro dei Re nel quale Salomone chiede in dono non potere o ricchezze, ma la sapienza, il discernimento. Prego anch'io che quel dono mi sia dato.

Prego per zia Marta. Per tutti i miei morti. E per i vivi che amo. Prego per mio fratello.  Prego per Lorella e per sua madre. Prego, soprattutto, per Sabina che teme il suo domani. Le sia di gioia e smentisca questo mio pessimismo cupo di chi troppe volte ha visto il destino tendere agguati a giovani felicità. Al gesto della pace (qui ci si abbraccia, non si tende appena un po' la mano in modo avaro) prego che il calore di quest'attimo non mi abbandoni troppo presto. E offro questa Messa per l'intenzione di Chiara. Senza interesse mio proprio, in ferma coscienza: soprattutto che sia felice, con me se lo vorrà, ma comunque per se stessa e  con se stessa. Con un mondo e con una vita che possono (Dio mio, per lei possono e devono) essere di gioia.

Torno in barca. Chiara è uno splendore. Tenerissima con Flavio e con Sabina. Amichevole con Lorella, con Mario e con Gil. A me non mi fila proprio. E va bene: compagni di barca. Il messaggio è chiaro. Il compleanno è finito. Ma un gentiluomo non lascia il tavolo quando ha cattive carte. La partita continua. E tra l'altro, adesso che  ho finalmente chiarito le cose con Gil, ce l'ho davvero una barca.

E se ho una barca ho la chiave per aprirle le porte di ore liete.

 

 

25 luglio, giorno.

 

Lasciamo il porto. Gil mi offre il timone (ora magari sta esagerando in ossequio). Capo Pertusato. L'orlo delle falesie. L’ultima roccia alpina precipitata in mare. Davanti la Sardegna, con le sue rocce dolci d’Appennino Scrutiamo il mare. Niente creste. L'onda sorride con migliaia di bocche assolate. Forse il vento rinforza. Speriamo non troppo. Se il mistral si leva (per una volta davvero) e ci spinge a Santa Teresa di Gallura, giuro che sbarco (tanto a questo punto la vacanza di Chiara continua in ogni caso fino alla fine. E forse avrò la piccola vanità di essere rimpianto). Ma il vento è generoso: metto la prua a Sud-Est, verso la Maddalena.

Ma Lorella "esige" che il bagnetto non attenda. Ho un momento di rabbia gelida. Ma non posso esprimerla: Chiara sembra  dello stesso avviso o almeno indifferente (non capisco: non mi sembra una da spiaggia e poi  il bagno non è che lo stia facendo troppo in questi giorni). Gil mi guarda. Io non voglio nascondermi dietro Flavio (cioè non voglio che Chiara avalli le mie scelte per affetto fraterno. Se non chiedo troppo, amerei per una volta vederla concordare con me solo perché sono io). Cerco lo sguardo di Mario e (un po' vigliaccamente) spero che sia lui a chiedere di continuare la navigazione. Ma Mario dice di andare al posto più vicino. Ed io provo a risentirmi con lui anche se  non sono tanto scemo da non sapere che devo risentirmi con me stesso (se questa è la crociera di Chiara è perché l'ho voluto io.  Se questo è l'equipaggio è perché l'ho radunato io). E tratto male questo mio fratello che mi ha deluso quando ero deluso da me stesso. Datti una calmata, Renato, lui non ha colpe (ma per la verità neppure meriti che riscattino i miei errori). Si va subito a Lavezzi. L'unico dispiaciuto, oltre a me, sembra Flavio. E neppure tanto.

Fondo alla baia del fanale. Chiara se ne va con Lorella e con Flavio. Mario li porta a terra in tender. Va bene. Compagni di barca. E ognuno si sceglie quelli che trova  più simpatici. Gil mi chiede quanto tempo voglio fermarmi. Gli dico che non lo so e di decidere lui o, eventualmente, di convocare il popolo alle urne (che cavolo: abbiamo o non abbiamo già stabilito che questa è una barca democratica?!). Sabina mi propone una nuotata insieme. Si cara, stavolta il bagnetto lo faccio anch'io. Però da solo.  Avverti Mario che starò via molto.

Tre ore in mare. Nuoto fino a Cala Greco, fino a sfinirmi. Poi vado a terra, alla piramide che fa da monumento ai marinai travolti dal naufragio. A piedi nudi, come ogni volta che sono andato a terra sentendomi dentro l’incuria e la forza del possente mare. Come alle Strofadi, che nessuno tocca e che volli regalare a una barca di altri amici, perché sentissero nel vento il suono delle cento campane del monastero ortodosso più a Occidente. Come a Strombolicchio, dove lo scherzo di un abbraccio si fece amplesso, dove Giannina rise al sole e al vento,  dove  morbida a entrambi fu la roccia  ed un piacere che bastò a se stesso gridò nel vento e si esaltò del sole.

Ma è roccia dura questa volta e  i piedi nudi oggi fanno male. Me li guardo. Mi guardo questo corpo appesantito e stanco. Penso a queste condizioni fisiche ormai pessime. Penso all'ultima volta su quest'isola. Alla "Mer de Dieu" alla fonda. A Virginie che prendeva il sole sul ponte mentre io giocavo a fare i safari fotografici sottomarini. Trenta chili e tre miliardi di lacrime fa. E mi cresce entro una sorta di frustrazione - è la prima volta che mi capita da tanto tempo -  per la giovinezza svanita, per il tempo smarrito della stagione mia più piena. Butta male.

 

 

31 luglio, cimitero di Antibes,

    un'ora dopo l'alba.

 

Amica mia, è così: pensavo a te. Pensavo a noi. Ma più ancora pensavo a Chiara e a tutti gli altri. E mi chiedevo, mi chiedo, perché più non riesco a dire “noi". Né con una donna, né con un gruppo di persone care. Perché è sempre più spesso, ormai, "io e lei", "io e loro"? C'è un tempo in cui s'impara a rinunciare ai sogni della giovinezza. Ma nessuno ti insegna a rinunciare ai ricordi e, soprattutto, nessuno sa cancellarti la pena del non sognare più. E allora, perché resistere? Cosa sono stati questi dieci anni che mi hai imposto? Forse pensavi che potessi ritrovarmi. Ma non si prende il mare senza gioia. Ed è difficile ritrovare l'ormeggio una volta salpati. Altre barche, altre vicende, altre persone colgono quella cima che tu hai mollato a terra. Anche con Chiara, probabilmente, sarà così. Nella sua vita ci sono stato a tratti. Certo, con amore. Ma senza quella presenza costante e attenta e piena che sa diventare progetto, sostegno, condivisione. Fino a questi giorni di luglio è stata lei la più generosa. Mi ha dato più di quanto abbia saputo offrirle io. Questa vacanza è stata il tentativo di saldare. O almeno così è nata. Poi il gioco mi ha avvinghiato ed ho riavuto per qualche giorno giovane il cuore.

Ma temo che sia tardi. Forse davvero si avvicina la fine della mia presenza nella sua vita. E in tante altre. Ma spero, sento, so che stenderà le ali di se stessa come vele al vento della vita, forti, capaci di tenerlo il vento. Metterà prua al futuro. E manterrà la rotta. Ed io? Sento che se non sarò con lei resterò  solo. Sento e ne soffro (che resistere non è scrollarsi sofferenza) che potrebbe scegliere di non navigare  con me, di non farmi salire  a bordo del suo cuore. Sia. Io imbarcherò per porti più lontani e per più solitari approdi. E se per lei sarò solo un ricordo, che  almeno sia un ricordo dolce. Lei mi lasciò le lacrime asciugate. Per la dolcezza che versò su quel salato gusto amaro di quei giorni, sia benedetta. Per l'amore e l'amicizia che le porto non più tempo bastante, ma solo gratitudine infinita. Senza di lei io sarò solo, se pure sarò ancora. Ma le lascio il mare. Ed è il mio grazie. E questo dono  è il mio.

 

 

25 luglio, sera.

 

Sono l'ultimo a tornare a bordo. Sabina mi accoglie con una tazza di te (che figlia che sarebbe!). Flavio guarda quattro barche della scuola di Caprera e riconosce la sua (e mi sembra di leggergli un rimpianto in viso). Ed ormai è  tempo di muovere, di tornare. Lavezzi è stata il punto più lontano. Gil mi chiede in che baia voglio andare a dormire e mi fa un paio di ipotesi. Gli dico che potremmo dare fondo a Campomoro.

Prua ad Ovest, poi a Nord-Ovest, lungo la rotta già percorsa. Al traverso del fiordo di Bonifacio dico a Gil di accostare. Schiamazzi generali ("ma che torniamo in porto?" "ma non avevamo detto che si andava in una rada?"). Mi prendo il gusto perverso e sovrano di ignorarli. Ma Gil ha capito. Tappa alla grotta dello Sdragonato, dietro il "cappello di Napoleone", la roccia a forma di bicorno. Flavio va dentro in tender con Chiara e con Sabina (stiano in famiglia, io sono solo un amico e nemmeno tanto intimo come Lorella, pare). Non trovano le cozze sulla parete della grotta. Eppure me le ricordavo bene. Ma è passato tanto tempo (pensa: neppure la conoscevo Chiara. Che vita inutile che conducevo). (Piantala Renato. Non fare il cretino con te stesso, che finisci per farlo con lei e poi non te lo perdoni).

Quando tornano è il tramonto. Foto d'obbligo. Io timono la barca come un cocchiere di carrozzella: mostro il panorama (però, che bello). Ma sono triste ed incomincio ad avere la tentazione di compatirmi. (Ne avrei motivo: rischio di rompere un'amicizia. Sono andato a vela in tutto sette o otto ore in sei giorni. Ho detto cinquantuno volte "prego" senza aver sentito dire "grazie". Ho una ritenzione di liquidi spaventosa, due caviglie che sembrano due parabordi.  E la dueña del barco e de mi vida preferisce nuotare, prendere il sole e, soprattutto, dormire con Lorella. E che cazzo! tanto per essere forbiti).

Mario si esibisce in cucina e promette la sua celebre carbonara (è un pazzo: non abbiamo né pecorino né pepe, ma l'importante è l'intenzione). Lorella annuncia che lei ne prenderà solo una forchettata. Mario aggiunge tre etti al quantitativo stimato (intelligente e operativo il ragazzo, non per niente ha vissuto qualche lustro con me).

Io vado a poppa a farmi massaggiare i piedi dal mare. Ma poi riprendo subito la ruota. Vadano altri a divertirsi in quadrato. Io navigo, anzi traghetto. Resto sul ponte. Solo. A consolarmi con la sera. Ma a dritta già si tende in mare la rupe di Capo di Roccapina, la roccia del leone. E sembra ricordarmi il suo destino (e forse indicarmi che potrebbe diventare il mio): l'amore non corrisposto costretto a restare di vedetta per l'eternità, roccia battuta dai marosi del dolore, scavata dai venti del rimpianto. Ma a che serve pensarci?

Dal quadrato salgono risate. Bravi, così. Ma poi non sono tanto nobile da accontentarmi della gioia altrui. E mi va il sangue agli occhi come a Caronte, anime prave che non siete altro (Sabina no. Forse neppure Flavio, ma lui va sul conto per responsabilità genetiche). 

Gil sale a portarmi un biscotto ed una birra. Se ci decidiamo a non discutere su chi comanda, diventeremo amici. Però lui è peggio di me: si è già sposato due volte e sta per farlo una terza. Ma, da vero marinaio, le donne le frequenta a terra, non se le porta in barca a farsi rodere il fegato. Piantala, Renato, che se per un caso qualunque si passa dal gioco al far sul serio, te la sposi in due settimane (tempo necessario per le pubblicazioni: dopo tutto lavori per il Papa).

Scende la notte sul golfo di Valinco (Gil lo chiama di Propriano). Si dà fondo alla baia di Filitosa. Ma non avremo tempo di andare a terra a vedere i monoliti preistorici.

Si mangia (bravo Mario, buoni comunque gli spaghetti). Chiacchiere su storie di barche e di donne (attento, Renato, un paio di battute non sono da te). Lorella e Chiara scherzano sulla possibilità di fare le "ragazze di porto in porto". Certo, lo "scafostop" è più comune ad un'età diversa... (Attento, Renato, se c'è una cosa cafona è fare paragoni tra persone. E poi... ti sei guardato come sei ridotto?). Gil brinda al matrimonio mio e di Chiara (lei nessuno l'ha interpellata in merito, ma per una serata ci si può anche ricordare che sulle barche contano i maschietti. E che la barca, femmina, dipende dal mare, dal vento, dall'albero e dal timone, maschi tutti e quattro). (Piantala, Renato, tra un po' ti passano i nervi e ti ritrovi con macerie fumanti da rimuovere).

Me ne vado a prua a scrivere il diario di bordo (tanto per far capire a Gil chi è ora a comandare questa barca). Chiara esce in pozzetto. Guarda il cielo. Ed io vado come una mosca al miele, come una freccia al suo bersaglio. Però le chiedo se preferisce stare sola. Lei mi dice di si. Ed io mi sento l'anima schiantata (orgoglio? amore?). Ma mi ricordo di me stesso e le risparmio la voce e lo sguardo dell'innamorato respinto e disperato. Ho il tono calmo, discorsivo, persino un po' pedante quando le dico che chi vuol stare solo va a prua, che il pozzetto è sempre aperto a tutti. Io invece vado a poppa. Piedi in acqua (magari  ci fosse il modo di dare sollievo anche al gonfiore che sento in cuore. Ma non esagerare, Renato, forse è davvero solo orgoglio. Magari!). Quando rientro sotto coperta sono ancora tutti alzati. Torno in pozzetto. Tanto c’è sempre qualche impiombatura da rifare o almeno qualche cima da addugliare.

Dopo un po’ sento che sono già tutti in cuccetta. Forse ho bisogno di dormire anch’io. Ma poi esce Chiara. Evviva: stavolta è lei che sente il bisogno urgente di me (per farsi spiegare come funziona la cucina). Le faccio una camomilla che mi chiede (ma forse ne avrei bisogno io).  Quando chiude la porta della sua cabina, vado a dormire  e Gil, meravigliatissimo dal vedermi in cuccetta, mi chiede se va tutto bene. Leggo un po' dei casi di Fabrizio Del Dongo. Mi sono passati i nervi. Ma sono triste. Forse anche deluso, ma soprattutto triste.

 

 

26 luglio.

 

Finalmente si naviga. Vento teso e stavolta è davvero Nord-Ovest, un maestrale che somiglia al quel suo sosia che sa infuriarsi, che chiamano Mistral.  Ma oggi non è il vento della furia che gonfia in fretta l’onda e che la frange. Il mare  monta appena, ma resta calmo e  non si fa turbare. Ed è un bel timonare. Le ragazze imparano i piaceri della bolina, la barca sbandata, il vento sul viso, i piedi in acqua sottovento. Mario dà finalmente un senso alla sua vacanza e prende la ruota: timona ligio alle regole di base (non orza mai, poggia sull'orzata propria della barca. Ma voglio vedere dopo la virata quando avremo onda tra la prua e il  mascone). Però è bravo, due anni fa andava peggio. Purtroppo, quando cambiamo mure, la barca stramba invece di virare (povero Mario: pensa chiaramente che sia colpa sua perché è venuto al vento troppo in fretta. Prima o poi glielo dovrò dire che siamo stati troppo lenti noi a mollare fiocco).

Va bene: miglioriamo le prestazioni. Dopo tutto è da quando siamo partiti che dichiaro di voler fare solo il tattico. Disposizioni a Gil: mure del fiocco più arretrate, randa scarrellata. Lui esegue, ma si capisce che lo trova quasi inutile (da bravo professionista, però, non discute con i dilettanti: voglio giocare? e lui mi fa giocare). Per un momento penso di dar del dilettante a lui e di dirgli di piazzare due bozzelli sui golfare dell'asimmetrico per murare il fiocco il più indietro possibile (anche se è un po' corto oltre che piatto) e  di ritirare il tender (bene o male ci leva mezzo nodo appeso in quel modo a poppa). Ma poi mi sembra eccessivo.

Chiara e Sabina a turno al timone. Sabina è un sole. Ma Chiara... Chiara respira il vento e fa più bello il mare. Uso un trucco (bieco) sulle loro virate: fiocco a collo e io a mezza nave per spostarlo a tempo giusto (oh Chiara, se non è amore questo non so che cosa è amore! Ci volevi tu al timone perché andasse a prua un aristocratico della poppa come me).

Lorella prende il sole. Dopo un po' anche Chiara va a sdraiarsi. Quando è ora di virare, prendo il timone io e, di fatto, cambio rotta e mi metto al traverso. (Magari andiamo alle Baleari, ma non sia mai che la dueña del barco e de mi vida debba spostarsi perché l'ombra della randa le impedisce di abbronzarsi).

Gil, che è sceso da basso al tavolo da carteggio a registrare le tratte, sale e mi guarda come se fossi matto. Io gli indico Chiara, la vela e il sole. Scuote la testa. Però ride e fa un inchino di consenso (ormai sono quasi sicuro: diventeremo amici).

Poi Chiara capisce cosa sta succedendo, mi guarda anche lei come se fossi matto e va a sdraiarsi dall'altra parte della barca (mio Dio, come si muove. Erano dieci anni che non vedevo una donna così armoniosa, dei gesti così puri, una femminilità così elegante). Al diavolo, Renato: compagni di viaggio.  (Ma intanto di notte non ci dormo e di giorno non mi riesce di toglierle gli occhi di dosso).

Mi è passata la voglia di godermi la bolina.

Timone a Mario. Scendo in quadrato. Gil mi fa notare che se vogliamo farci un bagno all'arrivo (come stabilito da programma da me avallato, sottolinea) non possiamo andare così piano. Altra piccola discussione (in privato) per stabilire che i programmi li faccio io e li cambio quando voglio (basta che non lo dica agli altri, dato che come sempre tutti sono convinti di sapere tutto e che in barca occorra la democrazia). Se impieghiamo troppo tempo andando a vela, il bagnetto può pure saltare. Tutto sommato è anche la vacanza di chi vuole andare a vela. E poi, domani è luna piena. Si potrebbe incominciare a pensare ai bagni di mezzanotte. 

Comunque si va a vela. Punto.

Dai ragazzi, facciamo sul serio. Un'altra barca, stesse mure e stessa rotta mostra di offrire ingaggio. Dai ragazzi. Mario al timone (non insistere: non hai vela, più di tanto non stringi). Lui insiste e chiede fiocco cazzato a ferro. Flavio si crede a Caprera (gli ordini del timoniere si eseguono senza discutere. Bravo ragazzo, ma io sono più vecchio e meno ligio, tanto più se timona mio fratello. Si cerchi altre braccia ai verricelli. Io faccio il tattico, mica il prodiere,  e tutto al più prendo il timone). Flavio, però,  a furia di credersi a Caprera si scorda su che barca siamo e, in particolare, si scorda il tavolo fisso in pozzetto: gli dà una schienata e, di passaggio, mi schiaccia un dito. Non fa niente. Dai, che rimontiamo. Tra un po' mando le ragazze a chiedere acqua (certo che sono proprio un cafone, certe volte: glielo annuncio con le parole "tra un po' andate a battere". Mario mi guarda male e poi, paziente, spiega).

Flavio al timone ("forza, datevi da fare, la prossima volta vi cambio con un  winch elettrico!"). Se la cava, ma fa troppe correzioni inutili per il tipo di risposta della barca. (Rinunciaci. Tieni 45 gradi di bolina, tanto meglio con queste vele non fai). Rimontiamo l'altra barca con soddisfazione generale. A Chiara ridono gli occhi (e io non ho cuore per far notare che siamo quattro metri più lunghi. Loro però sono invelati meglio).

Torno giù e dico a Gil che voglio fare qualche giochetto. Lui  ripete che è tardi e che poi bisognerebbe mettere motore. No. A vela, a vela. Ma domani, Gil volente o nolente, li faccio giocare.

Gil ci ripensa in parte (meglio non contraddire monsignore), sale e propone una gara di timoneria: mezz'ora per  ciascuno e tratte controllate con il satellitare. Per oggi contentiamoci. Va bene: bisogna esibirsi. Stile. Soprattutto stile ("Signor D'Orlando, per favore dieci centimetri cazzata la scotta del fiocco", "Signor Molia, per favore dal lato sopravvento". E che Dio salvi la Regina, anche se ho bandiera crucca).

Ovviamente vinco io (però baro: mi scelgo il tratto meno ridossato e quando viro mando alle manovre i più veloci, Gil alla randa e Flavio al fiocco). Ma non sono qui per strafare. Mi accontento di quindici minuti. Anche perché Gil (maiale) ha approfittato del mio turno di timoneria per portare nel pozzetto delle vele, con la scusa di far loro sentire come batte l'onda a prua, prima Chiara (buon per lui che ci rimane tre secondi appena) e poi Lorella (ci resti pure quanto vuole). (Però rimane il fatto che Chiara lì volevo portarcela io e che questa prima o poi Gil me la paga). Mollo il timone a Sabina, con Flavio che le fa una testa come un pallone a base di "orza" e "poggia" continui. Quando tocca a Chiara timonare, penso di stringerle il fermo della ruota, così fa meno errori (tanto il vento è costante e non abbiamo mare). Gil mi lancia un'occhiata da incenerire (capirai! neppure avessimo onde di tre metri e salti di vento a trenta nodi). Comunque ha ragione: il timone sotto vela non si blocca (ma che mi importa, se più non so timonare il mio cuore e la mia vita?). Chiara, in ogni caso, se la cava benissimo lo stesso (ho controllato: cinque nodi e mezzo con undici di vento). Alla faccia di Gil. Brava Chiara (e brava Opal, nonostante tutte le magagne registrate. Lo vedi che ho ragione, che se ti fanno fare quello per cui sei nata, dai il meglio di te stessa?). “Dipende chi la timona”, dice Chiara. Ma piantala,  che anche tu daresti il meglio di te stessa se facessi quello per cui sei nata. “Cioè?”. Cioè fare felice me.

Gil (forse vuole farmi abbassare le penne) va anche lui al timone. Buono, molto buono. Certo migliore di me. (Ma io ho più stile. E che Dio salvi la Regina mentre io bevo birra al sole e al vento). Comunque, la gara vera la fanno Flavio e Mario (più o meno pari, Mario un po' meglio, ma Flavio aveva un tratto più ridossato). Finisce quando ci sventa Capo Muro.

Ma restiamo a vela. Dai, ragazzi, andiamo a vela ancora un po'.  Mario raggiante ("Dio che brutta vita, come mi manca l'ospedale"). Flavio raggiante anche lui (bella forza: alla sua età, con la sua forma fisica e con una ragazza così. Vorrei vederlo al posto mio. Ma no: sono contento anch'io. E poi alla donna più affascinante della barca lui non può aspirare. Quanto agli altri due uomini, se solo gliene sospetto l'intenzione li butto in mare. Tanto per portare la barca non mi servono).

Irradia contentezza anche Lorella che, da parte sua, sembra più che soddisfatta di stare sdraiata al sole (forse domani riuscirà ad appassionarsi alla vela oltre che ai pozzetti). Anche Gil si gode la vela, rilassato (se non teme il mio cruccio vuol dire che non devo preoccuparmi. Se pure sta tramando, la tela che tesse non mi riguarda. Auguri).

Sabina è un sole con negli occhi il mare. E Chiara al mare insegna melodie (oh Virginie, come posso vestire dei tuoi versi un'altra donna? Ma questo canta il vento alle sartie, questo ripete l'onda sullo scafo, questo mi sale in petto). Ed io? Io guardo lei che non mi guarda. E mi fa male il cuore. Ma è un male dolce da provare ancora.

Eppure non devo avere il viso soffuso di dolcezza. Almeno non sembra ritenerlo tale Gil che mi guarda incerto (ora però sta esagerando nel compiacere Roger) e sembra chiedersi se ce l'ho con lui. Per rabbonirlo, gli spiego l'uso del sestante, che non conosce (tanto, di fatto, nessuno lo usa più). Lui prende nota e dice che stasera farà le prove. Io sfido l'ora (più alto è il sole, più facile è sbagliarsi) e faccio il punto con il sestante. Due volte, per sicurezza. Risultato quasi uguale (la barca un po' beccheggia). Annoto i dati e vado a controllare sulla carta. Neanche tanto male: mi risulta che siamo tra la Capraia e la Gorgona. Ma forse sono loro che hanno dato retta a Dante (XXXIII dell'Inferno) e si sono mosse (però per fare "siepe in Arno in su la foce" avrebbero dovuto spostarsi verso Est, non verso Ovest scavalcando la Corsica). In ogni caso, sono un poeta anch'io e ho il diritto di prendermi qualche licenza con il mare (anche se non mi riesce ancora di convincere chi dico io a farlo rimare con il verbo amare). Va bene: lasciamo stare. Con il sestante riprovo domattina (con chi dico io proverò per tutta la vita che mi resta).

E già siamo in vista di Ajaccio. Diamo motore per arrivare alle Îles Sanguinaires prima che tramonti il sole. Fondo alla Grand Sanguinair, sotto la Torre del Faro. Penso di andarci domattina. Sembra che a Chiara piacerebbe visitarla. Su  altri desideri non mi illudo, ma pure lo sguardo di stasera è lo stesso di quella prima volta che fu lei a chiedermi di restare, di non lasciarla sola in quella nuova casa. Forse si attende altre magie: un solo quadro alle pareti, ma quello che sognava, una bottiglia in ghiaccio e due bicchieri sul pavimento vuoto, un  tappeto srotolato, una vasca colma di profumi. (Sai Virginie, forse l’ho mutato allora, in quella prima sera che lei viveva in una casa sua,  il nome che avevo sempre dato ai miei sentimenti per Chiara. Forse ho imparato allora a riconoscere di nuovo il mio cuore. Ho imparato a guardarla con gli occhi non di un uomo sconfitto, ma di un uomo che sente di potersi  migliorare standole vicino. Ma non riesco a farglielo comprendere davvero né a darle convinzione del reciproco).

Ma  magie da fare non ne ho più. E questa crociera forse posso riuscire ancora a renderla la sua, ma ormai lo so che non sarà la nostra. (Eppure  forse quella sera lo avevo imparato il volerle stare accanto, volevo cancellarlo quel troppo poco che faccio per aiutarla ad incontrare quella se stessa che a me appare così bella. Oh Virginie, cos’è questo negarmi il sempre e il quotidiano? Sei tu l’unico esempio? Sei tu l’impronta?  Anche con lei sono stati sempre solo dei momenti, dei brevi giorni sette o otto volte l'anno. Ma forse ormai anche quelli con lei sono i giorni che di un anno fanno i ricordi, che al vivere danno capisaldi). Ma a che serve pensarci? Perché pensare a questa torre come ad un ultimo giro di roulette? Perché guardare il mare che scurisce come si guarda  l’ombra del destino? E poi l'ancora non rassicura. Non è un ridosso da dormirci. Motore: andiamo in costa, sotto la Torre della Parata.

A sera lunga conversazione con Chiara in pozzetto (stavolta non mi caccia). Erano anni che non dicevo ad una persona parole tanto dolci, tanto profonde, tanto vere. Ma pure tanto poco appassionate di passione ingenua e speranzosa. Ma che diritto ho di offrirle un vecchio arnese quale sono? È giusto così. È giusto raccontarle solo se stessa, stanotte, quella vera, quella che da troppo tempo tiene chiusa in una prigione sciocca di non fiducia in sé. Quella che davvero sceglierei per madre a un figlio da educare ad essere migliore e più felice di me. Quella che deve ridere di dentro e piangere di fuori, se occorre, e non il contrario. Quella che può mostrarsi nuda al sole, che non ha bisogno, anche se non lo sa,  di proteggersi dalla vita. È giusto così. È giusto offrirle solo quello di me che può aiutarla. Ma pure pesa, questo impormi di non sperare di averla accanto, questo augurarmi che possa essere felice senza averne io né il merito, né l'usufrutto. Certo: è giusto essere sincero fino in fondo, con lei e con me stesso. La verità è giusto dirla tutta (e magari in questo caso farlo è persino nobile). È giusto. Ma tarda il sonno su un'altra notte della mia fatica.

 

 

31 luglio, cimitero di Antibes,

un'ora dopo l'alba.

 

Amica mia, è così. Era così in queste notti sul nostro mare. Credimi, tu che non hai conosciuto la vecchiezza e la rinuncia:  non c'è nulla di più freddo, di più sconfitto,  di una carne che abbia smesso di desiderare un'altra carne con l'irruenza di un desiderio bastante a se stesso. È difficile quando già si ama - e quando si è vecchi - scoprirsi crescere dentro i segni dell'innamoramento, del desiderio che non accetta freni. Ci si sente ridicoli, quando sarebbe così semplice sentirsi solo romantici. Eppure, per me non è più solo amicizia, anche se  per lei forse non sarà mai l'amore. Un tempo, qualche secolo fa, si sarebbe potuto parlare di amicizia amorosa. Ma oggi... oggi non so trovarmi le parole dentro per dirle la sua anima e la mia. Eppure, oggi, nessuna mi è cara come lei. È a volte dura, poco duttile, severa e rigida in molti dei suoi atteggiamenti, tanto lontana dal mio levantinismo cattolico e dal mio sentire greco. Eppure io la so dolce, tenera, con la sapienza del cuore e dell'intelletto. Fu lei che mi portò fuori dalla disperazione. Ed è lei che oggi voglio pensarmi - io che le devo tanto - debitrice di un sorriso. Ma non parlo per me, non è la mia vita che cerco di difendere. È la sua. E ciò che le dissi quella notte  è giusto. È vero. Continuerò a darle testimonianza di se stessa finché non troverò che mi ha ascoltato. È tempo che viva, che smetta questa avarizia di sé  che la mortifica. E che mi opprime il cuore.

 

 

27 luglio.

 

Di notevole (sul piano del gusto, un po' meno su quello della quantità) la cernia presa e cucinata da Flavio con le patate. Nonostante la scarsità della pietanza, giornata piena lo stesso. Sveglia all'alba, ovviamente solo io e Gil. Chiacchierata  in pozzetto (caffè e biscotti). Passa il "carretto del fornaio" (fornarina meglio di quella di Raffaello). Commenti tutti al maschile con Gil. Peccato che non si resti almeno una giornata. Ma questo è il vero destino dei naviganti, amico mio, luoghi comuni a parte: non certo avere una donna in ogni porto, ma rischiare in ogni porto una rinuncia (però quando devi rinunciare per forza mentre la donna che vuoi ce l'hai in barca è un tantino più scocciante). Sale Mario. Resoconto sulla fornaia (magari appena appena esagerato). Suo disappunto. Ma ben gli sta, chi dorme non piglia pesci (lui non li piglia neppure da sveglio). (Flavio si, ma è perché ci va più vicino e con armi pesanti. Polizia violenta? O è una violenza necessaria a difendere il nostro convivere, soprattutto quello intorno alla tavola imbandita a cernie?).

Si parte. Capo di Feno al traverso. Passaggi tra le rocce, sotto costa. Gil decide che timona lui e mi manda a prua. Esagerato: abbiamo sotto due metri d'acqua più del necessario. Poi, sotto un sole allegro, il verde sfuma nell'azzurro cupo e siamo già  nel Golfo di Sagone.

In porto a Cargèse per fare nafta ed acqua. Tentativo (pietoso) di una manovra con le gomene (ben gli sta a Gil, così impara a lasciarla comandare a  me, che se non altro so urlare in italiano). Ed a Cargèse, questa città così poco corsa, questo villaggio del Peloponneso sperdutosi su una costa diversa dal sentire ellenico, lontana, così lontana  che forse mai vide approdare Ulisse, io scendo a terra per restare solo.

Ma poi, mentre telefono (e bevo pastis) vedo passare Chiara. Per una volta è sola anche lei (era ora), dato che  Lorella è andata a fare un bagno sulla spiaggetta dietro il molo insieme a Gil (bravo Gil, anche se forse una lavatina al ponte non ci stava male). Le corro dietro (letteralmente e oltretutto in salita). Case vestite di gelsomino, di ficus, di edera. Case di pietra, chiare di sole. Alberi di mirto (sacro a Venere: che mi sia propizia). E noi per mano (Dio mio:  solo questo  voglio, è così che prego il mio futuro). Saliamo alle due chiese, la cattolica e la greco-ortodossa. Una di fronte all'altra e, forse, finalmente affratellate (ed io, con questa amica che sento sempre meno sorella e sempre più importante?). Scherziamo (io non troppo) sull'ipotesi che il nostro matrimonio vada a monte per l'impuntatura di ciascuno dei due sul celebrarlo in una chiesa diversa. Poi, però, concordiamo di sposarci in Italia, a Firenze, a San Miniato (lei ci scherza, ma scherza con il fuoco. E prima o poi ci riesco ad incendiarla). Parliamo e camminiamo ancora.  Dall'alto il porticciolo, la nostra barca. Lontano  l'onda s'incendia della carezza arrogante del sole a mezzogiorno. E forse finalmente butta bene.

Ma è tempo di tornare. Telefoniamo a sua madre. Per precisione chiamo io ("meno male che qualcuno si fa sentire", mi dice). Che donna! (se mia madre avesse sentito una voce diversa da quella mia o di Mario avrebbe avuto un colpo). Le dico che la figlia non mi vuole sposare ("bene, risparmiamo i soldi del pranzo di nozze"). Che donna! (ma non parlava così quando l'aveva in casa: se mi ricordo bene ero un'ipotesi di  genero più che accettabile. E mi ricordo bene). Quando parla con Chiara, le dice che sono state accolte le domande di Flavio sia per il trasferimento a Roma sia per la missione in Kosovo (che Dio ti benedica e ti protegga, ragazzo mio, perché andare a servire la pace è l’unico modo decente di portare armi). Chiara mi dice di non parlarne perché a Flavio vuole comunicarlo in privato dato che lui forse non ha ancora discusso la questione con Sabina. Per la verità questa mi ha detto di aver già chiesto anche lei il trasferimento a Roma (e mi sembrerebbe strano - per non dire di peggio - che cose del genere una coppia non le decidesse di comune accordo). Ed anche sul Kosovo mi ha interrogato a lungo. Comunque non sono affari miei (anche se sento una piccola vena di ansia per Sabina)

Decidiamo di fare uno scherzo a Mario. Chiara va sola alla barca e gli dice che io sto ubriacandomi alla taverna del porto (come nelle migliori tradizioni letterarie) dopo che lei mi ha comunicato che non intende sposarmi. Con mio fratello deve fornire un'interpretazione impeccabile: Mario, quando arriva, ha una faccia che è un poema (eppure dovrebbe saperlo che non gli sarà dato vedermi disperdere nel vino la coscienza).

Di nuovo in mare. Sabina mi dice di essere contenta che siano state accettate le domande di Flavio (come volevasi dimostrare). Il che porta il discorso su Roma e su come ci si vive (Mario: “Dio come mi mancano le file in macchina”). Una cosa tira l’altra e qualcuno fa un accenno a tutti i cantieri aperti per il Giubileo. Io tiro un moccolo al sindaco (“ringrazi Dio che non potevamo votare per i fascisti”). Chiara dice che al primo turno dell’elezione per il sindaco lei invece aveva votato proprio per la destra (ma al ballottaggio anche lei aveva scelto lo sventratore giubilare). Io la guardo stupito e lei aggiunge che a tale scelta l’aveva  convinta un ragionamento fatto da tal Alba Parietti, resa famosa dall’aver trasformato un atteggiamento da bar del porto - stare seduta su uno sgabello a mostrare le cosce - in un programma televisivo (peraltro non si può mai dire: magari il ragionamento filava indipendentemente dalle cosce. In ogni caso anche Gesù, se è lecito mischiare il sacro con il profano,   dice più o meno  che la verità viene rivelata agli analfabeti della politica e celata a noi intellettuali. E poi sembra che la Parietti in questione con intellettuali di sinistra abbia frequentazioni approfondite).

Sosta per un bagno in una rada. Ma prima di tuffarsi, giochi sul ponte. Gil intreccia un bansigo con una cima. Io frugo a prua e ne trovo uno già pronto (cavolo, doveva esserci: è una dotazione obbligatoria). Ma quello di Gil attira di più (vuoi mettere l'artigianato marinaro!). Ragazzi alle crocette. Per prima Sabina. Poi Chiara. Ma si sistema male il bansigo. Quando me ne accorgo le dico di fermarsi sulle crocette (l'intenzione è di dirle come metterlo a posto e poi di farla continuare fino in testa d'albero).  Ma Gil (che l'aveva assicurata lui) la fa scendere e subito dopo  fa una partaccia a me: come a dire che le sto talmente addosso io che non deve preoccuparsene lui. (Forse c'è del vero, ma io non mi riconosco: mi prendo una partaccia per uno sbaglio non mio e me la tengo. Magari mi sarà contato in Purgatorio).

Flavio va su con il bansigo di dotazione (oltretutto è arancione come la maglietta che indossa). Giochi tra le sartie. Gil si esibisce (certo che è bravo!). Io incomincio a pensare di andar su e strafare (lasco tutto il boma, vado in testa d'albero, scendo lungo l'amantiglio, mollo il bansigo e la drizza di sicurezza e dal boma fuori bordo mi tuffo). Ma Chiara, intanto, è scesa in cabina e non ne vale più la pena (ci sono interpreti che si scelgono il pubblico e  poi... ci sono sempre i miei trenta chili di troppo). Comunque belle le due ragazze a riva, issate come bandiere della patria dei nostri cuori (peccato che non ci siano altre barche, come quella volta a Capri con Giannina mezza nuda in testa d'albero).

Chiara (quella che prima aveva detto di aver votato una volta per la destra) risale con una maglietta nera. Ma allora provoca! Lorella si intromette (ma che cosa insolita questo suo atteggiamento tra me e Chiara! chi sa da cosa mai può essere originato?) e fa tutta una tirata (spalleggiata dalla dueña del barco, ma in questo momento un po' meno de mi vida) su uomini di destra e uomini di sinistra, senza trovarci differenze di fondo. Lasciamo stare...

Ripartiamo e andiamo a dare fondo sotto Capo Rosso. Tutti i telefoni muti. Peccato: volevo chiamare Laura per gli auguri. Ma forse è destino che in questi miei giorni conti un compleanno solo. E ripenso a due anni fa, a quei giorni a Dublino, spesi a regalare a un'altra amica un compleanno di sua figlia, a ripagare amicizia con amicizia, affetto con affetto. A quei giorni trascorsi a scrivere  a Serena un congedo duro, rifiutandomi a quell’ultima ferocia, rifiutandole quegli altri mesi che chiedeva. Penso a quei giorni inchiodato alla terra, a quei giorni senza mare che il mare usò per chiamarmi ancora, per offrirmi la navigazione più bella. L’incontro con Nicole. L’imbarco in Cile per quella rotta leggendaria da Ovest ad Est, dall’onda lunga del Pacifico a quella dell’Atlantico. Il Capo Horn, un sogno di ragazzo che potevo ancora sognare con calore. Giorni di mare belli come una favola bella. Notti al timone sotto quelle stelle diverse del Sud, più fitte e più vicine. E Nicole. Un’altra amante, un’altra amica, un’altra gioia. Già, da quand’è che non mi basta?

Chiedo a Flavio se vuole fare un bagno di mezzanotte. Mario, serafico, nota che un tempo simili proposte si facevano alle ragazze... (va bene che ho il ruolo ormai ufficiale dell'innamorato rifiutato, ma questa se la poteva risparmiare). Poi discorsi (un po' grevi?) su donne e barche. Qualche frase mia (un po' greve!) di troppo. Poi mi avvito in una discussione (davvero troppo seria: attento Renato: stai diventando pesante) sull'essere di sinistra nei rapporti con le donne. Mi salva e soprattutto salva gli altri Flavio ("Si andava con una compagna e poi si faceva un gruppo di studio su come era compagnona la compagna, compagni, e compagnia dicendo"). Che Dio lo benedica. Ma devo dare l'impressione di essere ancora inalberato per la discussione (oh Chiara, non guardarmi con quegli occhi infastiditi).

Comunque è mezzanotte e io vado a tuffarmi. Nessuno mi segue. Anzi. Scene sceme di mio fratello (spalleggiato da Gil), neppure andassi a suicidarmi in preda a crisi da sessantottismo deluso (acqua fredda appena mangiato e simili amenità). O mi prende per rincretinito o  è preso lui da una sorta di regresso mentale. Mi fa un baffo, per non dire altro, un bagno in una notte d'estate in una baia corsa. Io ho nuotato con i pinguini in Terra del Fuoco! (e poi sono il solo su questa barca ad adottare la tecnica della foca: robusto strato di grasso animale sotto l'epidermide). Bel bagno, scemi che non vi tuffate. Ma il cielo sta annuvolandosi. Risalgo in barca. Resto sul ponte ad asciugarmi al vento caldo di terra (ma ce le gonfierà mai le vele il mistral?). Gli altri già a dormire. Io penso (davvero) a cosa ero, a che testimonianza ho dato e do (oh Chiara, io sarò stato pure greve, ma come fai a dirmi che sono uguale a un fascitello?). Poi penso alla barca. Ci risiamo. Ancoraggio non eccessivamente buono e le nuvole annunciano che il vento sta girando. Mi sembra che l'ancora abbia arato un po', ma forse mi sbaglio. Resto in pozzetto per controllare il traversamento di un due alberi alla fonda accanto a noi (dove in serata avevano mangiato aragoste ed ora le digeriscono tutti dormendo).

Chiara (ormai ci crede di essere l'unico scopo e l'unico pensiero della mia vita) sporge la testa in pozzetto e mi fa una parte sul tipo "vai a letto, non stare lì, è umido, non posso dormire".  Scemo io che le rispondo pure (un bel tacer non fu mai scritto) per rassicurarla (non sto esiliandomi a digerire la tristezza,  amore mio, ma non c'è bisogno di dirtelo: se ti viene qualche rimorso nei miei confronti gli sviluppi potrebbero diventare interessanti...). Quando il vento cala, il due alberi traversa. Abbiamo la sua poppa sempre più vicina. Sembra che a bordo dormano tutti. Non riesco a stimare la sua ancora. Sveglio Gil che resta con me ad osservare finché la poppa del due alberi ci passa di oltre tre metri. Mi scuso con Gil per averlo svegliato, ma lui è tutto soddisfatto perché ho rispettato la sua responsabilità.

Birretta. Ora posso ripensare  questa giornata. E mi accorgo che sono un po' arrabbiato. Soprattutto con me stesso, ma - per la verità - un po' con tutta la barca. Stavo così bene con Chiara a Cargèse. E anche oggi pomeriggio (bansigo a parte) sembrava così allegra. Che cavolo di bisogno aveva mio fratello  di dare la stura a storie su quattro smandrappate? Ma non è colpa sua. Lo scemo sono io che invece di ringraziare Dio di aver di nuovo un sole a riscaldarmi vado ad impelagarmi in ricordi che sono al più candele (anche se qualche volta avere una candela aiuta a trascorrere l’oscurità di una notte. Non rinnegare nulla, Renato: erano, sono  tutte candele profumate. Non è da te questo giudizio ingiusto. Non è da te essere ingeneroso).

E poi che mi salta in testa di mettermi a fare comizi? Lei non ne ha bisogno (ma forse si, dato che come opinionista si sceglie la Parietti). Mi sa che ho perso punti (al diavolo, meglio non pensarci troppo. Tanto non è che la innamoro facendomi stimare un po' di più). Chi sa se butta bene o butta male? Basta. Me ne vado a dormire. Oltre tutto non ci sono le stelle.

 

 

31 luglio, cimitero di Antibes,

    un'ora dopo l'alba.

 

Amica mia, forse sono io a non saperle più scrutare oltre le nubi, le stelle. Neppure quella che adesso penso essenziale alla mia vita. Ma forse per me non è più essenziale vivere. Ho resistito. Ma quanto di me ho lasciato indietro, se perdo il senso delle proporzioni al punto da parlare come un tribuno isterico in una conversazione di barca! Te li ricordi i tre aggettivi che facevano il mio essere? Ero socialista, ero cattolico, ero curioso. Ero socialista e quindi credevo nella storia e nell'impegno personale nella società. Ero cattolico e quindi credevo nella comunione con tutte le donne e con tutti gli uomini, per un'eredità  comune, per una comune figliolanza dall'unico Dio. Ero curioso e quindi mi coinvolgevo del tutto con le persone che incontravo, al punto da essere più che disponibile, da essere presente. Ero una persona che amava gli altri, ero una persona buona.  Non è che oggi sia cattivo, ma forse la spinta vitale si è esaurita. Ne troverò per lei? Saprò essere utile alla sua vita? E basterà il bene che le voglio a rinnovarmi? E lei, per me, cos'è? cosa sarà? Che posso offrirle ancora, dopo il mare? Che ho in serbo ancora per portarla a rendere felice la mia vita?

 

 

28 luglio, mattina.

 

Comincia come la giornata più bella della vacanza e per me finisce con la notte più triste e più amara. Bagno, stupendo, all'alba (oh Chiara, quante albe,  tiepide e fresche insieme, hai sottratto ai tuoi ricordi in questi giorni e rese a me più vuote. Non era meglio accompagnare le mie ore? Non era meglio vivere col sole? Non era meglio fidarti del mio cuore, affidarti all'amore che ti porto?). Facciamo rotta per le Calanche, per le grotte marine di Piana. Giro in tender con Flavio e con Sabina. Le falesie di fiamma e d'azzurro. Il verde intenso riflesso dal granito lucido di vento. Gli archi arditi scavati dalle onde, scolpiti dal mare nella roccia.

Bello. Talmente bello che non riesco ad accettare che Chiara (ancora addormentata) non lo veda. Perdo tempo, la chiamo varie volte. Ma quando finalmente si alza abbiamo già ripreso la rotta. Faccio virare e tornare indietro. Flavio e Mario non sembrano soddisfatti. Gil non ci prova neppure a contraddirmi. Lorella (dormiva anche lei) esce e mi rovina tutto. Non solo non ringrazia per il fatto che stiamo tornando indietro (a motore e giocandoci un paio d'ore di vela), ma dice che a lei le Calanche non interessano. Flavio, visibilmente, si arrabbia e mi guarda come si guarda un mentecatto. Mario è scocciato. Gil sogghigna. Sabina (che Dio la benedica), mi sorride: lei capisce. Non sono scemo: lo so che Flavio è arrabbiato soprattutto con me, ma gli chiedo lo stesso di portare la sorella nelle grotte. Rifiuta. Insisto (oh Sabina, grazie di quel tuo sguardo di sostegno). Ma lui rifiuta ancora. Duro. Definitivo ("Non me lo chiedere più"). Quando Chiara esce finalmente dalla cabina penso per un attimo a fregarmene del biasimo collettivo e a portarcela io (magari per forza: tutto sommato siamo in Corsica e se la rapisco poi mi deve sposare). Ma Flavio stavolta è nel giusto: siamo in tanti a bordo e non tutti sono tenuti a adeguarsi ai tempi di sua sorella o di Lorella. Certo, ha ragione lui, ma io penso solo che Chiara non legherà uno spettacolo tanto bello al ricordo di questi giorni. E che forse questi giorni saranno tutto quanto le resterà di  me.

Viriamo di nuovo. Rotta che passa a pochi metri dalla roccia della sposa. E a me quasi viene un infarto nel ricordare d'improvviso la profezia di Virginie ("Se non la vedi ora la rassomiglianza, la vedrai con un'altra donna e sarà quella che hai scelto"). Dov’è davvero la mia sposa? Chi ho scelto mai nella mia vita? E chi mi ha scelto, se non quella che non riconobbi allora?  (Scaccia i fantasmi, Renato, scaccia i fantasmi o tornerà a sanguinarti il cuore).

Diamo fondo in una piccola, deliziosa baia sotto la torre dei Crova. Ancoraggio duplice (e l'unica a tenere è l'ancora di rispetto a poppa). Bella figura con le altre barche! Tutte allineate e noi di traverso. E tanto perché ogni spettacolo ha bisogno di un pubblico competente, incontro Claudio Majer. Un'ora sulla sua barca. Birretta. Pettegolezzi su Giannina e su Francesca (dai, Claudio, anch'io dieci anni fa avevo un altro fisico). Promessa di passare un pomeriggio insieme a Fiumicino (così mi insegna bene gli attracchi).

Poi vado a fare il bagno in mezzo ai pesci (occhiate e saraghi, ma in una grotta vedo una cernia lunga un braccio, anche se Flavio, andato a controllare,  dice che è più piccola). Torno sull'Opal. Flavio e Sabina vanno  a terra. Chiara dice che fa un bagno ed entra in acqua. Dopo un po' non la vedo e incomincio a preoccuparmi. Dieci minuti d'ansia. In mare non si vede. A terra non si vede. Quando sto per prendere il tender e per mettermi a cercarla, spunta da dietro una roccia sulla spiaggia. Sollievo (e mi consola notare che anche Gil era preoccupato: così nessuno, neppure io stesso, potrà dire che sia solo io ad essere eccessivo nel mio interesse).

A picco su di noi, due grandi uccelli fermi sulla roccia. Per un attimo li scambio per rapaci, ma poi il grido delle cornacchie accompagna il loro andare in volo. Che sia un presagio, come nelle migliori tradizioni del mito? (Dio mio, l'aquila che ero non è più il fiero solitario degli abissi. Non reggo più nella pupilla fissa il sole, non domino più il vento. Ma grido stridulo il dolore degli artigli confitti nel gelo, delle ali stesse spezzate. Oh perché torna il presentimento della luce? Perché anelo ancora agli spazi sconfinati? E tu, perché mi rendi la memoria e il desiderio di aurore e tramonti, dei giorni miei più pieni? Perché, se poi non mi accompagni in volo?). Mario in giro con il tender. Vado a terra con un secchio legato al salvagente a prendere le scarpe e la macchina fotografica di Flavio e di Sabina. Inutile: Mario arriva in tender e provvede lui. Insegno prima a Sabina (Flavio mi sa che già conosceva il sistema, ma in ogni caso ci si diverte anche lui) e poi a Chiara a pasturare i pesci (ma la sentirò mai la parola "grazie"? E se la sento, mi basterà o cercherò parole diverse, un diverso sentire, una diversa vita?).

Sarà il bagnetto, ma sono tutti stanchi. Grandi dormite in pieno sole. Meno male che c'è Sabina. Carta, regolo, compasso e matita. Qualcuno mi apprezza su questa barca. Rotta per tracciata (per quelle del cuore, meglio tralasciare). Ma pure lei le indaga, quelle vie (“Chiara mi ha detto di voi due e di quella Serena? Ma le vuoi ancora bene come dice lei?”). Ah no: questo Chiara di sicuro non te lo ha detto: ti avrà detto che  da dieci anni confronto il quotidiano e l’ossessione. (“Lo vedi che ami lei, invece? Intuisci persino le parole che usa: o la ami o sei un mago). No, è lei che cita me per parlare di me, bambina mia. Comunque si, un tempo lo ero un mago. “E ora?”. Chissà. “Mi racconti come è andata?”. È una storia lunga, certe volte mi sembra una favola triste. “Dai, raccontamela. Non hai detto che sono la tua bambina? Raccontami questa favola. Dai: c’era una volta …”

Si, c’era una volta un mago ancora giovane, che incontrò una fata, o magari solo una che aveva imparato un sacco di trucchi, come quei finti maghi vestiti da pinguini. Ma forse non è una storia di maghi, ma una favola di quelle con i bambini che non  crescono. Sai, c’è un limite al tempo in cui si rimpiangono i compagni di gioco. Poi si cresce e se ne trovano altri. È inutile stare a piagnucolare se certi giochi con certe persone non li puoi più fare. Io però – almeno da giovane – ero uno che voleva continuare a giocare per sempre. Dieci anni fa questa signora, fata o bambina che fosse, ha fatto con me un bellissimo gioco, pieno di allegria, di fantasia e persino di progetti, compreso quello di allargare il numero di giocatori, di sviluppare il gioco fino a farlo durare tutta la vita. Poi però decise di obbedire a tutte – ma proprio a tutte – le regole che le aveva dettato la sua mamma. Tra queste regole c’era quella di non giocare con me. Sai, le mamme devono vigilare sui compagni di gioco dei figli (sulle cattive compagnie c’è tutta una letteratura. Ricordami una volta che ti devo parlare di un certo Lucignolo. Dicono che sia stato lui a portare un suo amico nei guai, un certo Pinocchio. Io so solo che c’erano andati insieme, ma che il suo amico poi se l’è cavata, mentre il povero Lucignolo no. Ma anche questa è un’altra storia).

Insomma, questa bambina che si chiamava Serena si mise d’impegno a far contenta la sua mamma, una cosa molto bella, come puoi capire. Da me si fece promettere che non l’avrei più cercata per giocare. Mai più. Io promisi (da giovani si promette spesso senza pensare a quanto sia difficile mantenere le promesse). Ma io non faccio cose facili. Io se prometto mantengo. Ed anche allora mantenni fede alle promesse e cercai di adattarmi a non giocare più.  Però stetti molto male. Era come se il gioco non volesse uscirmi dal cuore e dal cervello (ancora non sapevo che per rinunciare a certi giochi bisogna aggiungere qualcosa, non levarla). Lei invece fu bravissima. Si organizzò bene ogni  giornata. Sveglia, colazione con la mamma, impegni di studio, pranzo con la mamma (c’era anche un papà, ma non era rilevante), impegni di studio, merenda con la mamma, giochi (diversi) con qualche amico e amica approvati dalla mamma, cena con la mamma, qualcosa da fare dopo cena, infine a dormire, qualche volta (quando la mamma le voleva dimostrare più del solito quanto le voleva bene) addirittura nel lettone. Passo un anno e la mamma, per premiarla di non avermi più cercato per giocare, incominciò a dare tante feste per divertirla. Le mamme la sanno lunga. E anche quella, che voleva davvero bene alla sua figliola, fece la cosa giusta. Infatti quella che dopo tutto una fata non era  (che però conosceva qualche trucco) ad una festa in un castello – capita sempre così – incontrò un principe azzurro. Ormai era grande (anche secondo la sua mamma) e finì come doveva finire: se lo sposò il suo principe azzurro. E vissero tutti (figliola, principe, mamma e papà, che però non era rilevante) felici e contenti nello stesso castello. Le favole finiscono tutte allo stesso modo. Ma se non accetti che finiscano, sono guai. Pensaci, bambina mia.

E Sabina stavolta capisce: “Hai paura per me?”.  Si, ho paura per te. “Perché? Non credi che Flavio mi voglia bene?”. Non è questo e non è rilevante quanto credo io. Dimmi la verità: perché hai lasciato tuo marito? “Perché quando ho incontrato di nuovo Flavio ho capito che lo avevo sposato senza amarlo sul serio”.  E lui? “Lui mi ama ancora. Vorrebbe che tornassi con lui”.  Già, si vuole sempre, si spera sempre che l’amore ritorni, anche se gli hai promesso la tua assenza e se hai mantenuto la promessa a prezzo troppo alto,  scegliendo la morte e attraversando la pazzia. “E Chiara?”. Era lì e mi ha aiutato. “Dice che hai fatto tutto nella tua testa, che quando Serena è tornata hai improvvisamente scoperto che non la volevi più”. Ah, parla di questo con te? “No, me lo ha raccontato Flavio. Ne ha parlato con lui”. Quando? Allora o ora? Sabina non lo sa. Mai io si. Se è vero è stato allora, quando forse ancora le importava. “Ma tu ora vuoi bene a Chiara, vero?”. Si, voglio bene a Chiara. “Lo hai capito quando hai rivisto Serena?”. No, di volerle bene l’ho saputo sempre. Almeno quasi sempre.  “E con Serena come è finita?”.  Ma questa risposta me la risparmio. Escono i fratellini, tutti e due. Poi tutti gli altri.

 

 

28 luglio, giorno.

 

Si riparte e si dà vela. Andature buone. Le ragazze timonano. Mario fa lezione (professore rumoroso e allieve di scarsa diligenza) su come si comporta la barca di bolina. Lui: "Chiara, tre cose non devi mai perdere di vista mentre timoni". Io: "quattro". Lui: "tre: la rotta, le vele e il mostravento". Io: "quattro". Lui (scemo di un fratello): "e la quarta quale sarebbe?". La quarta sono io, coglione che pensi a bolinare e non che tuo fratello cerca la rotta per il mare aperto del futuro. E lei che ride, invece di adorarmi...

Va bene: giochiamo, se allegria dev'essere soltanto. Gil si decide a darmi retta (vento costante, niente mare, con la sbandata più ferma di così la barca non può stare) e manda tutti sul boma a sdraiarsi sulla randa. Chiara scende con gli occhi che ridono. Le chiedo se vuole andare anche sul fiocco (ancora più divertente). Mi risponde che glielo deve dire Gil. Ha capito tutto! (Lascia perdere, Renato, è il destino dei grandi e dei generosi essere incompresi. E poi... compagni di barca, no?!).

Sabina si stende al sole del pomeriggio che declina e ci delizia la vista. (Lei a me: "vado a godermi il sole". Io a lei: "beato il sole"). E qui succede il dramma (ma forse è l'epilogo dei giorni precedenti): io provo a "vendermi" un po' con Chiara. In sintesi, le faccio un complimento per paragone. Magari è un po' arzigogolato. Magari i paragoni tra persone non si fanno. Ma sempre un complimento era. Mi risponde con una scenata a base di "villano, sono due giorni che mi dici cafonate, gli uomini che frequento non mi trattano così".  (Diavolo, Renato, eppure te lo eri detto di stare attento e di piantarla). Per un attimo provo a sentirmi offeso io (ma frequenti gli uomini che vuole, chi se ne frega. D’altronde anche in quella clinica non è che ci venne da sola). E pure allora riuscì a farmi incavolare.  (Si, Virginie, a visitarmi in clinica ci venne con un paio di miei colleghi ed uno di questi si mise a fare un po' lo stronzo, finché  mio fratello non lo mise a posto. Almeno stando a quello che racconta lui: io non me li ricordo bene quei momenti. Ricordo solo che proprio quel giorno stavo scrivendo endecasillabi sul cavallo parlante di Achille e che quel collega ci mise le mani sopra e cominciò a rompere i coglioni su chi era Achille e su chi era il cavallo. Buoni, peraltro, quei versi, tra i migliori che ho scritto su Serena).   Ma si, chi se ne frega, frequenti chi le pare. Ma poi sento solo il dolore (oh se me frega!).

È peggio di una pugnalata. D'improvviso, per la prima volta da quando la conosco, mi chiedo se davvero è ancora quell'anima ferita e fragile che guardò e carezzò la mia disperazione, che seppe farsi luminosa e buona. Poi mi chiedo se non è invece mia la colpa,  se sono  davvero in grado di accostarmi a quella vena d'oro che ha dentro e che da tanto tempo cerco faticosamente di scavare. Sarà una banalità, ma è vero che la barca è un discrimine e un posto pericoloso: può incrinare i rapporti più belli. (Al diavolo, Renato, non barare: quindici anni fa non ti sarebbe successo. Quindici anni fa eri migliore. E non puoi più offrirle il te stesso migliore). Penso. Mi valuto. E tutto sommato mi considero ancora il migliore che conosco. Ma non  mi assolvo: non mi consento errori che ignorerei in altri (superbia? orgoglio? Non so, ma so chi sono e so che cosa devo alla mia storia. E a questa donna. E al mio cuore). Butta come  peggio non potrebbe su questa barca e nelle mie speranze.

 

 

28 luglio, sera.

 

Resto del pomeriggio gelido. Lasciamo Calvi al traverso di dritta e proseguiamo per l'Île-Rousse.  In porto non c'è posto. In rada ci sono troppe onde (e cento franchi per ballare legati a un corpo morto praticamente in mare aperto sono davvero troppi). Dico a Gil di ridossare dall'altra parte della baia, almeno è gratis. Si cena in quadrato. Chiara mi ignora. Ed io mi sento come quello di troppo. Mario (che Dio lo benedica) ritorna su un discorso già abusato e fa notare che sono stato l'unico a non lavare mai i piatti. Rispondo che lo trovo ovvio (ma non mi riesce di dirlo con il tono giusto). Lorella (e ti pareva?!) incomincia a contestare la mia affermazione. Ed io sento che in questo istante potrei essere davvero, palesemente, in piena coscienza e con piena soddisfazione, villano con una donna. Mi salva (e salva Lorella) Flavio: "Lui fa il tattico anche sottocoperta", dice placido (ridi di te, Renato, o non saprai più ridere di nulla!). Va bene: laverò i piatti. Dopotutto anche Apollo fu tratto in servitù (studiate, gente che non sa il mare, la storia delle stelle e degli dei, prima di dare vela. O almeno ringraziate gli dei stessi di avermi a bordo, invece di non starmi a sentire quando vi racconto di Orione e del suo cane Sirio, la stella che oggi placa le tempeste).

Chiara continua ad ignorarmi (magari con appena un po' di ostentazione). E sia: fuori i reietti. Vado in pozzetto. Siamo in una baia ben ridossata. Per una volta con un ancoraggio decente. Praticamente senza un filo di brezza e senza corrente apprezzabile. Ma mi preparo come per una guardia montante di seconda quarta notturna in novembre sulla rotta tra Terranova ed Halifax (-4 gradi, rischio iceberg). Lei non mi dice una parola. Neppure un banale buona notte. E per la prima volta fa tramontare un giorno senza lasciarmi un gruzzoletto di felicità. Mi sistemo in pozzetto. Cupo. Fortunatamente, mio fratello sale e non dice stronzate: "teatrale" è il termine che usa. E stavolta ci coglie. Non è da me comportarmi  come un guitto rifiutato dalla scena. Già in troppi, in questo tempo senza onore, fanno dei drammi farsa. Stavolta non sarà così. Stavolta finirà diversamente. E se finisce e basta, che almeno non sia nel ridicolo. Ma che pena, che pena.

Fra trentasei ore saremo ad Antibes. Ancora un giorno, una notte, un altro giorno. Posso sopportare. E forse non voglio più guardarmi solo con i miei occhi, ma anche con quelli degli altri.  Guardo le stelle, queste fredde mie compagne in mare. Con l'anima triste. Con il pensiero allo sbarco. E con l'atroce sensazione che sbarcare potrebbe essere persino la cosa migliore. Che rinunciare a questa rinnovata gioventù del cuore potrebbe essere la scelta giusta. Esce anche Gil, con una birra e con una parola che già contiene una speranza: mañana, domani (ormai è certo: diventeremo, forse già siamo amici). Ancora una sigaretta. Gil mi chiede se voglio la cabina tutta per me e che lui vada in dinette. È un modo giusto, rispettoso, di dirmi anche lui di scendere a dormire. Gli dico di non preoccuparsi. Resto fuori solo un momento ancora. Un'altra sigaretta. L'ultimo sorso della birra. Scendo. Vado in cuccetta. Gil già dorme. Sono stanco. Forse non tarderà il sonno. Forse posso dormire. Forse domani esiste. Ma che pena, che pena.

Butta da bestie. E Sirio è solo un cane.

 

 

29 luglio.

 

Quando mi sveglio il sole è già alto. Ma gli altri dormono ancora tutti. Ho caldo. Esco e mi tuffo. Appena in acqua, però, vedo troppe meduse. Risalgo. Gil si sveglia anche lui. Il programma era di restare qualche ora, ma qui di fare il bagno non se ne parla. Salpiamo l'ancora e andiamo ad Île-Rousse, l'ultimo porto prima di traversare il Golfo di Provenza. Ed io penso, con angoscia, al volto che vedrò tra qualche istante. E quando esce è ancora silenzio. Poi, molto poi, un sorriso. Una boccaccia. Un altro sorriso. Ed il sollievo è tale da far male in petto (diavolo, Chiara: ho più di quarant'anni, faccio il giornalista, notoria professione a rischio infarto, e per inciso ho un'anamnesi familiare infausta in merito. Un po' di rispetto per le mie coronarie: la prossima volta, se sarò tanto scemo da causarla, sorridi prima).

Giornata in porto. Cammino per le vie tracciate da Pasquale Paoli, questo titano che insegnò la libertà al suo popolo, che fu maestro di Napoleone e che lo vide oscurare la sua stella (oddio: e se mi succede lo stesso? Se tutta la mia storia serve solo a preparare un'altrui gloria? Se io la restituisco a se stessa e poi un altro la innamora?).  Ma no. Sono Napoleone anch'io. Strategia, tattica, lampo del genio (ma poi penso che  sto per volgere una prua verso la Provenza  e che quando lo fece Napoleone strappò al destino solo cento giorni di proroga. E di grandezza). Ma no. Questa non è l'Elba (ma anch'io mi sono esiliato dalla vita). Ma no. Basta con il profetarmi la sventura. C'è il sole. Questo è il sole di Austerlitz. Non ci sarà la pioggia di Waterloo. Non ci sarà Sant'Elena.

Acquisto fiori. Ma si: anche per Lorella (e mi ricordo persino che ama le gerbere). Nel bouquet per Sabina anche un po' di margherite, ché gentilezza chiama gentilezza. Per Chiara le rose rosse della passione e quelle gialle del tormento. Compro gelato. Torno alla barca. Flavio e Sabina, in banchina, puliscono in un secchio tre chili di cozze che hanno comprato. Prevista un'impepata alle sette di stasera, in navigazione. Bravi ragazzi: nutrite i corpi, che io devo nutrire questa storia.

Chiara si spalma d'olio e si consegna al sole (ed io le assaggio una spalla e ho voglia di mangiarla come una frittella, anche senza farina e zucchero a velo).

Alle quattro l'ultimo malinteso: Chiara ed Lorella, che avevano rinunciato al pranzo (ma al gelato no) in attesa del bagno conclusivo in Corsica, apprendono che faremo rotta direttamente per Antibes, senza ulteriori tappe in altre baie. Protestano per l'ennesimo programma cambiato e se ne vanno in spiaggia. Io posticipo d'autorità la partenza di un'ora (di più non posso, altrimenti è escluso l'incontro con i delfini e, forse, con le balene). Gil acconsente (ci mancherebbe altro) e si mette a lavare il ponte con Mario. Quando è tempo di partire, vado a recuperare le bagnanti con una bibita e due bicchieri (neppure fossi la proloco di Île-Rousse). Flavio scuote la testa. Mario fa commenti chiaramente offensivi (e che li faccia senza dire una parola non cambia nulla: io la so leggere da sempre la sua faccia). Gil si diverte (o sfotte?). Però Sabina mi sorride e quel sorriso  approva.

In ogni caso, la trovata da bagnino ("le signore gradiscono una bibita fresca?") sembra funzionare. Chiara squilla una risata e  mostra un viso senza più tracce di malumore. Ed anche Lorella, per una volta, sembra apprezzare, sarà che preferisce i camerieri ai marinai (non essere maligno, Renato:  anche i bagnini degli stabilimenti balneari hanno una qualche ragione di esistenza). Per ora le ragazze non hanno sete. Seppellisco la bottiglia nella battigia per mantenerla fresca (ebbene si: milioni di anni fa, per qualche breve giorno, anch'io fui in spiaggia sotto un ombrellone). Chiara entra in acqua, ma il fondo è basso, non si può nuotare (oh Chiara, quando lo cercherai in me e con me il tuo mare aperto?) e tra l'altro rischia di farsi male sui ciottoli del fondo (diglielo una volta sola, Renato, non è tua figlia). Esce, la dueña del barco e de mi vida, e beve un sorso appena. Io affido il resto al mare e torniamo in barca.  

Salpiamo alle 18. Te e biscotti per tutti in pozzetto (Oh Sabina, tu. si che sei una figlia premurosa ed offri la prima tazza, giovane Ebe, a questa stanca parodia di Giove). Io e Gil studiamo il vento e la rotta. Ma mentre ci apprestiamo a dare vela, il vento ci abbandona. Si va a motore. È finita la vacanza. Questo è trasferimento, ritorno. Ed è anche, insieme, rimpianto e sollievo.

 

 

31 luglio, cimitero di Antibes,

un'ora dopo l'alba.

 

Amica mia, sono stati lunghi quei due giorni. È stata dura quell'ultima notte in Corsica. Si, mi ha soccorso l'autoironia. Si, ho resistito anche alla sottile voluttà dell'autocommiserazione. Ma è chiaro che  non governo più le rotte del destino. Diceva Napoleone che tra il sublime e il ridicolo non c'è che un passo. Può evitare di farlo l'intelletto, ma se qualcosa - o gli altri, o la stanchezza, o il cuore stesso -  ti nasconde quel breve tratto indefinito? Dove finisce il senso del ridicolo e comincia quello del sublime, del mistero, dell'eterno, quel senso che io credo sia in ciascuno di noi, in tono maggiore o minore?  Saprò capirlo per lei? saprò difenderla - e  difendermi - dal velo che pongono le condizioni fisiche, il carattere dell'esistenza che dobbiamo condurre, dalle ombre che ben raramente permettono di riconoscerlo, quel divino che è in noi, che in lei è tanto evidente? Oh si: io sapevo farlo, io la tenevo in mano senza scottarmi quella scintilla divina che è il seme del nostro destino. Oh si: la mia anima aveva febbre e bellezza, come una sentinella sublime sull'orlo di tutti gli Olimpi. Ma ora?

Certo: ho resistito. Ma come resiste una barca trattenuta in porto. Senza più correre gli uragani e le brezze di mari insospettati, senza più sciogliere le vele ai venti della vita. Ho resistito, ma come si resiste a una sconfitta, con l'ancora che ara a poco a poco e la risacca che mi spinge in secca, mentre lo scafo si corrode, decade, declina, lascia fissare dalle sconnessure l'acqua putrida della non speranza. Ed ora che la sento di nuovo una speranza, che mi rinasce dentro la bramosia del vento, la generosità del sole, saprò salpare ancora? Da dieci anni ho gelo nelle ossa, dolore nel petto, peso nell'anima. Saprò - per lei, se non con lei - essere ancora il signore del vento, l'amico del sole? Saprò trovare ancora - per lei, per me - la rotta per il mare aperto della vita?

 

 

Notte tra il 29 e il 30 luglio.

 

Chiara è al timone e un delfino viene a salutarla. Prendo la ruota mentre lei lo guarda accompagnarci.  Poi torna in pozzetto (mezzora per godermela da solo). Le offro il timone, ma lei guarda lontano (è giusto, amica dolce: ascolta il mare, guarda il silenzio, guardati in cuore, perché lo hai grande il cuore. E guardati nella mente, perché l'hai buona. Parlati le parole che ti meriti, di stima, di rispetto per te stessa. Abbi fiducia nel tuo intelletto e nel tuo cuore. E se vuoi farmi il dono di avere anche un po' di me nel tuo ricordo di quest'ora, leggimi il cuore dentro il tuo silenzio. No, non lo spezzerò stavolta. Non invaderò questo silenzio che assapori. Ma tu leggi nell'onda anche le parole che io non posso dirti. O non oso).

Alle sette (ora prevista per l'impepata) sembra che dormano quasi tutti. Restiamo io e Gil. Va bene: birretta e biscotti.  Tramonto lungo, quasi da inverno australe. Poi è sera.  E la costa corsa si confonde con la foschia dietro la poppa (oh Virginie, è un altro arrivederci o questa volta è quella dell'addio?).  Dai, prepariamoci. Sarà umido. Calzoni lunghi, camicia, maglione e cerata pronti. Scatola di dolci.

È sera. Ed io timono sulla rotta del  ritorno. Chi sa se Chiara dorme? ("rotta 305, signor Cordoba, scendo un attimo"). Spunta una luna pretenziosa, da cartolina, da canzone napoletana ("grazie, signor Cordoba, lo riprendo io"). Sale una brezza e dopo un po’ rinforza. Posso dare vela.

Quasi sei ore solo con il mare (oh Chiara, sarai soltanto nostalgia tra poche ore?).  Si pensa in mare, mentre si timona e mentre un'insolente luna ti copre la tua stella (oh Chiara, Dio sia ringraziato. È stata bella la tua crociera. E tu alla fine l'hai vissuto il mare. Li hai avuti lo stupore e l’allegria, le hai avute l’indolenza e la curiosità del navigare. Oh se solo imparassi a chiedere quanto ancora non sai... se mi chiedessi quanto vorrei darti... Ma ora hai il mare. Dio sia ringraziato).

A mezzanotte impepata di cozze (Gil ed io a turno). Poi pastasciutta (Gil ed io a turno e quando tocca a me sono rimasto solo). Ma poi quella maledetta porta si riapre. Nella cabina di Chiara è entrata acqua (quando Gil ha lavato il ponte l'oblò non era serrato bene). Tiro fuori i materassi. Potrei asciugarli davanti al forno. Ma ci vorrebbe un po'. E poi non serve. Le cuccette di Gil e mia resteranno vuote questa notte (quando uno è al timone, l'altro può andare in dinette). Lorella (al solito!) non è d'accordo e dice che non c'è bisogno di spostarsi. Basta. Faccia quello che vuole. E lei resta nella sua cabina (con l'unica coperta della barca). Ma Chiara sull'umido non ci deve dormire (a patto che non sia su un cuscino e un materasso inzuppati da lacrime di rimorso per come mi ha trattato). Punto. Eseguire.

E così,  alla fine del viaggio,  il destino rimette a posto le tessere e Chiara, finalmente, entra nel mio letto. L'unica nota stonata è che non ci sono io (ma diamo tempo al tempo, diamo tempo al mare: la prossima volta sincronizzerò meglio i tempi. E i corpi. E i cuori).

Il vento cala. Rollo il fiocco e dico a Gil che sono un po’ stanco. Mi sdraio in dinette. Dormo due ore. Quando mi sveglio, sull'altro divano c'è Gil che dorme. Mario e Flavio in pozzetto. Qualcuno ha lasciato il caffè fatto  (è sempre quando è tempo di sbarcare che incomincia a buttare bene sulle barche). Appena tiepido, ma è buono. Vado in coperta ("grazie, signor D'Orlando, lo riprendo io").

Si pensa in mare, mentre la tua stella ti si rivela al tramonto della luna. Altre quattro ore o poco più e poi sarà la Francia, la Costa Azzurra.  E i ricordi degli anni più felici. Ma sono esorcizzati (oh Virginie, forse sono vivo).

Si pensa in mare, mentre al chiarore dell'aurora le stelle impallidiscono (oh Chiara,  ci sono cuori che le sanno vedere oltre le nubi, oltre lo sfavillio del sole).

Si pensa in mare. Grazie ragazza mia, amica mia che amo. Grazie, amore mio. Un grazie solo in cambio di quei cinquantaquattro (mi pare) che mi devi. Ma il mio è immenso perché immenso è il peso che mi ha tolto dall'anima l'esserti accanto.

Si pensa in mare, mentre si spia l’orizzonte (invano questa volta: oh Dio mio, fa che non sia stato invano tutto)  per cercare il salto di un delfino o il soffio di una balena da regalare a chi ti fa cantare ancora una speranza dentro.

Si pensa in mare. E il sole quasi mi sorprende.

È l'alba.  È inutile chiamarla. Non si alzerà. Ma quest'alba non la perderà ugualmente. Quest'alba deve averla. Muto la rotta, mi piazzo il sole nascente al traverso di dritta, blocco il timone, scendo, la sveglio e glielo mostro dall'oblò. Dice "che bello". Di me non lo ha detto mai (ma non dispero: uno di questi anni, quando e se torno dall'Antartide, ce la obbligherò - per onestà intellettuale - a guardarmi l'anima e a riconoscerla).

Terra di prua. Siamo tornati. Sono tornato. Vivo.

 

 

30 luglio.

 

Alle nove diamo fondo all'ancora tra l'Île Saint'Honoré e l'Île Margherita, quella su cui la Maschera di Ferro fu condotta da Charles de Batz prima che questi andasse, lui umile cadetto di Guascogna, a guadagnarsi il bastone di Maresciallo di Francia morendo sotto le mura di Maastricht, quando in quel posto ci si scambiava cannonate e non firme sui trattati (è inutile fare quella faccia, giovani insolenti: non sto sfoggiando cultura, la storia di Charles de Batz la sanno tutti fin da quando Alexandre Dumas lo chiamò D'Artagnan).

In due minuti succede di tutto. Scendiamo a fare colazione sia io che Gil (gli altri ovviamente dormono tutti). L'ancora ara. Ci stiamo spostando. Cavolo: ci siamo scordati di ammainare la randa. Un gesto brusco e verso una tazza di caffè sui piedi a Gil. Non c'è tempo: dai, ammainiamo. Gil non blocca la maniglia del winch, quella parte e mi porta via un pezzo di mano mentre recupero scotta. Subito dopo, a me sfugge l'amantiglio e gli do il boma su una spalla.  Va bene: non è successo niente. Riusciamo persino a ridere (io un po' meno: potevo provocare una tragedia).

Chiara esce, vede me con una mano sanguinante e Gil che si massaggia il collo. Chiede se abbiamo fatto a botte (sarà abituata a frequentare uomini che si picchiano, certo migliori di un villano di sinistra come me). Non t'illudere: io mi batto con altre armi (e poi se non l'ho picchiato quando vi siete avviati verso il pozzetto delle vele non lo picchio più).

Via via si svegliano tutti. Diciamo loro che passeremo la mattinata qui. Sabina chiede che isola è quella  davanti a noi (Io: “l’'Île Saint'Honoré”. Flavio: “e l’altra è l’isola Mont Blanc, poi viene  l’isola Babà, la migliore”).

Mi tuffo, faccio il giro della barca e risalgo. Esce anche Flavio, si tuffa e va a nuoto a terra (ma non trova il castello della Maschera di Ferro). Sabina non lo segue, prepara il te e mi chiede che cos'è questa storia della Maschera di Ferro e perché dico a Mario di ringraziare Dio di non somigliarmi troppo. Le racconto del gemello di Luigi XIV costretto a nascondere il volto e di D'Artagnan (non ha letto Dumas).

Lorella e Chiara si consultano sulla fondamentale questione del bagnetto. Io e Gil, piano e da parte, facciamo una scommessa. Vince lui: non potendo trovare l'acqua fredda, la trovano sporca. L'orgoglio francese è umiliato (per la verità anche il mio: proprio mentre dico a Chiara di non preoccuparsi e di entrare in acqua tranquilla perché intorno alla barca non ci sono meduse, ne spunta una sotto la scaletta). Lorella era già entrata, ed esce subito. Chiara rinuncia e si distende al sole (stavolta non si spalma d'olio, ma io l'assaggio un po’ lo stesso, fino a che non mi caccia, stavolta però con un sorriso).

Tutti a bordo. Va bene, ragazzi: omaggio al povero gemello del Re Sole, andiamo a pranzo sotto il castello che gli fu prigione. Andiamo a dare fondo dall'altra parte dell’isola. Ma proprio sotto la pentola degli ultimi spaghetti finisce il gas della seconda bombola e altre non ne abbiamo. Flavio dice alle ragazze che è colpa di tutti i te che hanno fatto. È palesemente ingiusto: Lorella, ad esempio, in dodici giorni non ha imparato neppure ad accendere il gas. E in ogni caso stia attento: se fa soffrire Sabina, gliela faccio scontare. Di questioni di famiglia, ovviamente, non posso immischiarmi (almeno per ora). Ultimo pranzo a bordo rimediato. Mario ed io digiuniamo (io, per la verità, bevo vino e mangio pane e olive). Ma è sazia l'anima. Perché lo so che quest’aborto di crociera alla fine lo è stata la crociera di Chiara.

Salpiamo l'ancora. Si va a motore. Per un po' timona persino Lorella (chi sa se sono stato, se siamo stati abbastanza attenti? Forse con altra gente avrebbe avuto più voglia di imparare il mare. Ma forse le verrà voglia di imbarcarsi ancora. Il mare ha tempo. Diamo tempo al mare di farle vincere la sua gara personale con la vita).

È in vista Cap d'Antibes. Se Chiara mi sorride prima di sbarcare, ho vinto anch'io. Ma in ogni caso ha vinto la magia del mare. Anche sulla mia anima ferita, stanca, tormentata. Anche sulla sua anima che forse lei stessa non conosce così bella,  così giusta. E prendere terra sarà un'altra tappa. Di vita. Forse di gioia.

Antibes al traverso. Entriamo in porto.

Grazie agli dei del mare.

 

 

31 luglio, cimitero d'Antibes,

un'ora dopo l'alba.

 

Amica mia, è tutto qui. Il resto è sfumatura. Siamo sbarcati ieri pomeriggio. Gil ci ha presentato la sua prossima terza moglie. Roger è venuto a salutarci in porto. Danielle ci ha ridato un po' di soldi (credo di averle detto tutto quanto non ha funzionato sull'Opal senza arrabbiarmi, ma con chiarezza). Gil, Flavio, Mario, Sabina ed io che la tenevo in braccio abbiamo fatto un'ultima  fotografia sul ponte con le magliette della barca (soldi sprecati: le avevo fatte fare perché Chiara avesse la sua e lei non mi ha dato la soddisfazione di vedergliela indossare neppure una volta. Dice che la userà in futuro e che servirà per ricordarle questi giorni. Forse sarà così. Speriamo. Tante volte ho visto delusioni riscattate).

Si era parlato di fermarsi tutti per la notte ad Antibes, ma   Flavio ha deciso di partire subito. Sabina ha passato l’ultima mezzora con Chiara, a concordare appuntamenti per le prossime settimane. Poi ha abbracciato tutti e sono andati via (a me ha sussurrato un grazie, una data e un indirizzo). Anche Mario avrebbe voluto partire immediatamente. Lorella no. Flavio e Sabina le avevano offerto un posto in macchina e ospitalità per la notte a Milano (o a Bergamo, non ho capito bene, comunque a due passi da Verona), ma lei ha rifiutato (pare che io le avessi detto che la vacanza finiva il 31 e quindi aveva ovviamente il diritto di "esigere" un altro giorno). Chiara, da parte sua, si è limitata a sottolineare che era l'ennesimo programma che mutava. Io avrei accontentato la smania di mio fratello di essere di nuovo a Roma.  Si, non capisco ancora, ma lo avrei fatto contento, sebbene più di tutti avessi un motivo per restare, anche se qui sarei dovuto venire ieri sera in fretta. Meglio così, comunque, meglio quest'ora. Ho avuto una notte per riordinare i miei pensieri, per prepararmi a questo incontro.

Mario mi ha fatto edotto sulle sue convinzioni in merito all'esigere e al rompere i coglioni, ma non mi ha detto il perché di tanta furia. Poi si è adeguato (non ha né soldi, né carte di credito e per prendere un treno subito avrebbe dovuto farsi finanziare da me. Gli ho detto che se proprio li voleva glieli davo, ma che  avrei preferito guidare un po' per uno). Ci siamo trovati un albergo (no, in villa non ho voluto portarceli, almeno non tutti). Ho portato i bagagli di Chiara nella sua stanza, che ovviamente divide con Lorella. Per questa, invece, non c'erano facchini (non è un grande albergo e, qualche volta, gli uomini di sinistra non sono gentiluomini). Lorella ha ricordato a Mario che gli aveva chiesto un cachet. Per una volta una sua esigenza è stata utile. Mario aveva lasciato il baule con l'infermeria in macchina. Sono sceso a prenderlo e mi sono accorto che quando aveva parcheggiato  aveva lasciato la radio accesa (pensa se dovevo cercare una batteria di sabato di luglio ad Antibes!).

Mario voleva andarsene per conto suo  a mangiarsi un pezzo di pizza. Gli ho detto che se era quello che voleva per me stava bene, tanto per cena non avevamo preso accordi. Poi si è calmato ed è stato proprio lui a chiamare le ragazze per organizzare la serata. Siamo andati al porto vecchio. C'era una barca uguale alla "Mer de Dieu", ma meno bella, senza i bozzelli con i tuoi colori e senza la campana alla chiesuola della bussola. Abbiamo passeggiato un po'. Pensa: anche stavolta c'era un poliziotto che faceva sloggiare un barbone (ma questa volta non ho litigato).  Abbiamo cenato a Rue d'Aubillon (forse ho fumato troppo: non mi sono accorto che il vino sapeva di tappo, neppure quando mio fratello me lo ha fatto notare). Ancora una passeggiata e poi siamo tornati in albergo. Chiara ha chiuso un'altra volta una porta tra noi due. Mi sono addormentato subito lo stesso (stanchezza, forse. O forse altri pensieri a consolarmi e a riposarmi l'anima ed il cuore).

  Stamattina ho atteso il sole e poi sono uscito. Mario dormiva. L'appuntamento con Lorella e Chiara per partire l'avevamo fissato per le nove. Avevo tempo. Sono andato alla villa, ma era ancora chiusa e non ho potuto coglierti una delle tue rose. Allora sono andato dalla fioraia al forte, quella sempre aperta (c'è ancora lei), e ti ho comprato queste. 

È tutto, amica mia. Credimi: ho resistito. Ti ho mantenuto la promessa. E forse adesso posso persino trovarmi una ragione per averlo fatto.   Ma sono stati dieci anni di vecchiezza, di sofferenza, di stanchezza senza fine. In tutto: nel lavoro, speso di guerra in guerra, nei Balcani, in Africa, a raccontare i morti e la ferocia, a morire e lacerarmi anch’io con loro; negli affetti, persi di lutto in lutto; nell'amore, che tanto a lungo ho negato alla mia pena.

 Ho creduto, ho sperato di ritrovare le note pure del mio canto con altri strumenti, con l'amicizia, con la cordialità, con il farmi padre, fratello, amico. Ma ora sento la voce arrogante e cara di un padrone che non accetta mistificazioni. Ora lo sento ritornare: sento che possono tornare il vigore, la vita.  Che può tornare una stagione dell'amore. O forse è solo che ora lo so riconoscere di nuovo il mio cuore e quel padrone. E penso a quella scintilla divina che torna a infondermi febbre e bellezza. Lo so, fui io a dirtelo per primo: a rivelare quel mistero sono le passioni o le sventure. Ma a volte è anche soltanto il silenzio. Le mie passioni sono state immense. Le mie sventure molte e laceranti. Lo so:   forse è nel silenzio il mio ultimo ristoro, la mia unica difesa. Ma quel silenzio non sarà più l’avarizia che  ha consumato quella speranza che oggi chiamo Chiara. Sia che  mi offra di ricominciare, sia che abbia speso l’ultima occasione, non sarà più quell’avarizia. No, non negherò più all'amore di urlare dentro al mio silenzio.

Devo partire. E porto indietro chi mi ha spinto di nuovo nella vita. Vado di nuovo a nuotare in quel mare quotidiano che da tanto tempo per me non ha più attrattive. Vado a battermi. Per lei. Per me. Anche se non sarà un battermi per noi. Si, non vado cieco: ho la sconfitta in preventivo. Ma anche la speranza che un futuro possa esserci comunque. Non so se questa speranza di quest’ora durerà, saprà farsi convinzione. Si: ho la sconfitta, ogni sconfitta, in preventivo. Ma ti manterrò comunque la promessa. Verrò tra quaranta giorni al nostro appuntamento. E forse sarà chiarezza nel mio cuore. Verrò tra quaranta giorni a dirti se è ancora tempo di invidiare il tuo riposo. O se è il tempo di vivere.