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Dopo la caduta del muro di Berlino

Dopo la caduta del muro di Berlino - Pierluigi Natalia

25 anni (un bilancio)

 

10 novembre 204

 Venticinque anni fa, il 10 novembre 1989, il crollo del Muro di Berlino metteva simbolicamente fine ad un’epoca storica e apriva la possibilità di una storia diversa. È praticamente da allora che sul mio giornale, L'Osservatore Romano, mi occupo di politica internazionale. Scrivo “mio” non solo per un'abitudine tipica di ogni giornalista, ma per un orgoglio di appartenenza che le circostanze, i mutamenti non sempre approvati nell'intimo, lo stesso naturale invecchiamento di età, entusiasmi e anche capacità non valgono a cancellare. L'orgoglio di aver contribuito a costruire il significato nelle vicende internazionali di una testata come L'Osservatore Romano, con la sua sua unicità, anche e soprattutto sotto questo aspetto, nel panorama della stampa mondiale. Il mio giornale ha come compito irrinunciabile quello di farsi voce della voce del Papa. Vale in ogni campo, in ogni circostanza. Il mio contributo è stato offerto al cruciale campo dei rapporti tra i popoli, quelli cioè in cui la voce del Papa e della Chiesa è il grido degli ultimi.

Non sono stati facili questi venticinque anni, non solo per il mondo, ma anche per quelli, come me, chiamati a raccontarli stando ai fatti, senza farsene schiacciare, ma anche senza sottovalutarli, riferendo giorno per giorno la cronaca di una storia sempre difficile, quasi sempre cruenta, spesso segnata da atrocità. Lo ho fatto sotto tre Papi, amando profondamente il primo, Giovanni Paolo II, sforzandomi di comprendere il secondo, Benedetto XXI, e non solo di ubbidirlo, sentendo per il terzo, Papa Francesco, un entusiasmo e una riconoscenza che riporta questi miei anni che declinano, al sentire della giovinezza e della prima maturità, quel sentire maturato durante il pontificato di quello che continuo a ritenere il più Papa del Novecento, Paolo VI.

È bene dire subito che gran parte delle speranze suscitate dal crollo del muro di Berlino sono andate deluse. È vero che la guerra ha accompagnato tutta la vicenda del mondo anche dopo il 1945, ma proprio il 1989 segna il moltiplicarsi e il frammentarsi di conflitti nei quali - anche questo è bene dire subito - persino le stesse religioni sono state coinvolte ed utilizzate per cementare le fragili identità nazionali. E il futuro, a giudizio di molti, si annuncia ancora più fosco: c’è chi preconizza probabile o considera già in atto (per non parlare di chi persino lo auspica) l’esplodere sanguinoso e generalizzato di uno scontro tra civiltà, culture e anche mondi religiosi, tra l'Occidente laico-cristiano e il mondo arabo-islamico, tra l'Europa occidentale e quella orientale, tra l'Asia e l'Occidente e così via.

Il magistero di tre Papi, l'attività della Santa Sede e anche il contributo che può dare un giornale hanno raccontato questi anni senza perdere speranza e, soprattutto, l'hanno fatto sempre dalla parte del povero. Il clamore mediatico e lo scandalismo che ha tante volte costituito il pane quotidiano della gran parte della stampa, sul giornale del Vaticano non hanno mai trovato spazio. Il punto di vista elettivo è sempre stato un altro. Come accade ai marinai che guardano la terra dal mare e non il mare dalla terra, “L'Osservatore Romano” ha sempre avuto priorità diverse. Le prove sarebbero infinite. Paesi che non finiscono mai sulle prime pagine degli altri giornali (sempre che non vi scoppino catastrofi immani o che non vi siano coinvolti cittadini degli Stati dove quei giornali si stampano) su quelle de “L'Osservatore Romano” sono una costante.

E talora accade il contrario. Gli esempi sarebbero infiniti. Ne basti uno. Nei giorni tra l'incidente mortale alla principessa di Galles, Diana Spencere, e il suo funerale, tutte le televisioni del mondo non si occuparono d'altro. Furono versati i proverbiali fiumi d'inchiostro e furono diffuse via etere, ossessivamente, ore e ore di immagini e di parole. “L'Osservatore Romano” diede solo notizia dell'accaduto, con un trafiletto a pagina 2, quella tradizionalmente dedicata agli avvenimenti internazionali.

Negli stessi giorni, più spazio trovò sul giornale vaticano la quasi contemporanea morte di Teresa di Calcutta, un evento che sul resto della stampa si vide in secondo piano, schiacciato proprio dalla vicenda di Diana Spencer. Un telegiornale italiano diede la notizia come terza di esteri, dopo due servizi per complessivi otto miniti (un'eternità in televisone) sugli imminenti funerali della principessa. E non è tutto: dei due minuti e quaranta secondi dedicati alla morte di madre Teresa, quasi i due terzi, un minuto e mezzo, servirono a raccontare che Diana Spencer l'aveva incontrata qualche tempo prima.

Ai funerali di madre Teresa in molti spiegarono – era scritto nelle note ufficiali passate alla stampa - che il feretro era posto sullo stesso affuso di cannone che aveva trasportato quello di Gandhi. Ma fu solo “L'Osservatore Romano”, con l'inviato Gianpaolo Mattei, a notare il paradosso di uno strumento pensato per fare la guerra impiegato per i funerali dei due più grandi costruttori di pace in India del Novecento.

Questione, appunto, di punto di vista elettivo.

Per tornare all'argomento proprio di questo intervento, va sottolineato come fin da quel 1989, L'Osservatore Romano abbia documentato e denunciato, esplicitamente e implicitamente, come alla fine di un sistema bipolare, fondato sul contrasto ideologico, non abbia fatto seguito l’avvio auspicabile di una stagione di dialogo e di collaborazione autentici. Sul piano interno, i Paesi usciti dal totalitarismo collettivista hanno visto insorgere al tempo stesso spaventose discriminazioni di tipo economico e feroci contrasti di tipo nazionalistico, etnico quando non tribale e persino religioso.

Gli schemi geopolitici relativamente semplici del periodo della cosiddetta guerra fredda erano venuti meno, svelando una rete assai più intricata di tensioni, di problemi etnici e religiosi, di gravi ineguaglianze sociali, di lotte tra poveri per aggiudicarsi risorse carenti: una rete che soffoca lo sviluppo e che alimenta i conflitti.

Con qualche eccezione - ad esempio il conflitto tra Etiopia ed Eritrea e l’annoso e sempre risorgente contrasto tra India e Pakistan per il Kashmir – l'ultimo quarto di secolo e non è più stato un'epoca di guerre tra Stati, ma delle guerre civili. Non è il caso di elencarle tutte - anche per il rischio di non aver ben consultato l'archivio dell'Osservatore e di fidarsi solo della memoria rischiando di dimenticarne qualcuna - ma in venticinque anni ce ne sono state una cinquantina, molte delle quali dimenticate, molte ormai endemiche dopo decenni di inarrestata violenza. Noi non le sbattiamo in prima pagina al seguito delle telecamere e ce ne dimentica appena queste se ne vanno, inseguendo un'altra crisi. La tragedia dei popoli, in Asia come in America, in Medio Oriente come nei Balcani, in Africa soprattutto, per noi, per me, non cessa mai di essere la vera notizia.

Così come pace e giustizia non cessano di essere i primi obiettivi da raggiungere, le priorità da difendere, tutelare, incrementare. Anche in questo gli esempi sarebbero infiniti. Per citare solo uno degli ultimi, durante la crisi siriana che tra agosto e settembre 2013 ha minacciato di degenerare ulteriormente con interventi stranieri dagli esiti difficilmente valutabili, ma certo inquietanti, L'Osservatore Romano ha usato la parola pace per ogni ogni titolo dedicato alla vicenda. Dalle pagine del giornale è emersa con chiarezza la determinazione del Papa e della diplomazia della Santa Sede a battersi per la pace, e con la determinazione anche l'efficacia. Per esempio, il giornale ha riportato per intero in prima pagina la lettera al presidente russo Vladimir Putin, nella sua qualità di presidente del G20, alla vigilia del vertice a San Pietroburgo del 5 e 6 settembre, dal quale si era atteso, all'apparenza invano, segnale di svolta sull'incancrenirsi della situazione siriana. «Le guerre costituiscono il rifiuto pratico a impegnarsi per raggiungere quelle grandi mete economiche e sociali che la comunità internazionale si è data, quali sono, per esempio, i Millennium Development Goals (obiettivi di sviluppo del millennio). Purtroppo, i molti conflitti armati che ancora oggi affliggono il mondo ci presentano, ogni giorno, una drammatica immagine di miseria, fame, malattie e morte. Infatti, senza pace non c’è alcun tipo di sviluppo economico. La violenza non porta mai alla pace condizione necessaria per tale sviluppo», vi si legge.

Papa Francesco, con questa e altre iniziative, come la giornata di digiuno e preghiera dell'8 settembre 2013 – articolata con particolare sforzo nel coinvolgere i non cattolici - non ha fatto nulla di nuovo rispetto ad analoghe circostanze del passato, nonostante quanto scritto da tanta stampa superficiale (si pensi a Giovanni XXIII all'epoca della crisi dei missili a Cuba, a Paolo VI in tante occasioni, a Giovanni Paolo II e al suo “spirito di Assisi”). Non a caso, tra i primi a cogliere il significato degli interventi del pontefice ci fu il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, chesottolineò di aver accolto «con favore l’appello del Papa per una pace in Siria fondata sul dialogo e sui negoziati, e il suo appello per una giornata di preghiera e digiuno per la Siria. Questi gesti possono dare un contributo importante e utile alla pace».

Non ci sono state, al di là delle dichiarazioni di rito, significative risposte dall'Europa. Forse per pudore. Perché l'Europa sembra ormai avere poco da dire al resto del mondo. Sembra guardarsi l'ombelico - quell'ombelico che oggi non è rappresentato più dalla volontà di pace e di sviluppo seguita agli orrori della seconda guerra mondiale, ma piuttosto dai caveau delle banche – e rinunciare al ruolo di laboratorio dello Stato sociale, di primato del lavoro, di confronto multiculturale e multirazziale finalizzato a costruire un futuro comune.

Se non nuova, però, è di certo intensa e determinata sotto questo profilo l'azione del vescovo di Roma venuto “quasi dalla fine del mondo”. Non solo Papa Francesco ha parlato più volte della crisi siriana – quello fatto all'Angelus del 1° settembre 2013 è stato il più lungo intervento mai pronunciato da un pontefice in un tale contesto, più un'omelia che un appello – ma ha mobilitato l'intera diplomazia vaticana per mettere i suoi sforzi di pace al primo punto dell'agenda. E una settimana dopo, sempre all'Angelus, ha reiterato la denuncia della guerra, di tutte le guerre, additando le responsabilità dei produttori, dei venditori e dei trafficanti di armi, del denaro senza controllo e senza principi.

Sulla stessa linea si può leggere sia quanto detto dal Papa in materia di migrazioni, sia quanto affermato riguardo alla fame, uno scandalo non tollerabile che persiste in un mondo nel quale si spreca oltre un miliardo di tonnellate di cibo. Nel messaggio per la Giornata mondiale dell’Alimentazione del 16 ottobre 2013, che aveva come tema «Sistemi alimentari sostenibili per la sicurezza alimentare e la nutrizione», il Papa sottolineava, con cruda chiarezza, proprio le responsabilità del sistema predominante di rapporti internazionali e sollecita a combattere «la schiavitù del profitto a tutti i costi», per «ripensare e rinnovare i nostri sistemi alimentari», invocando un cambio di mentalità di fronte alla tragedia «nella quale vivono ancora milioni di affamati e malnutriti, tra i quali moltissimi bambini».

La Giornata è, significativamente, seguita da quella per la lotta alla povertà, stabilita dall'Onu per il 17 ottobre. In entrambe le occasioni “L'Osservatore Romano” ha sottolineato che «una lotta efficace in questo senso non può prescindere dalla soluzione appunto delle contraddizioni di sistema: da un lato spaventosa mancanza di cibo per centinaia di milioni di persone, dall'altro sprechi ed eccesso di alimentazione con gravi conseguenze sanitarie. Nonostante alcuni miglioramenti negli ultimi anni, infatti, ancora oggi circa 840 milioni di esseri umani soffrono la fame e la salute di altri due miliardi di persone è compromessa da carenze nutritive. Di contro, un miliardo e mezzo di persone sono in sovrappeso o obese, consumano più cibo del necessario e sono esposte a un maggior rischio di gravi patologie».

Evidentemente, la questione non può essere ridotta all'esclusivo campo dei comportamenti individuali, ma è appunto di sistema. Lo stesso direttore generale della Fao, il brasilano Graziano da Silva afferma che il mercato «non si traduce automaticamente in una maggiore disponibilità di cibo, in migliore nutrizione e in salute». Per non parlare delle conseguenze ambientali delle produzioni agricole finalizzate appunto ai consumi del nord ricco del mondo e, appunto, degli sprechi.

Il nostro, il mio lettore è sufficientemente documentato sul fatto che non è l’aumento di popolazione ad accrescere la penuria di alimenti, ma il sistema economico, finanziario e commerciale oggi dominante, caratterizzato da immensi sprechi che stridono con le immense povertà. In ogni occasione possibile, ad ogni appiglio di cronaca c'è la sottolineatura della necessità di una più attenta gestione e distribuzione della produzione agricola e alimentare per combattere povertà e fame. 

Tutti gli interventi citati dimostrano in Papa Francesco una determinazione certo ecclesiale, ma insieme tutta politica, nel senso alto del termine. Una determinazione della quale il suo giornale sa farsi strumento ben al di là della povertà dei mezzi materiali dei quali dispone. A un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino, il Papa denuncia con forza la deriva del liberismo trionfante, le devastazioni di una sedicente globalizzazione che di realmente globale ha solo il primato arrogante di una finanza anonima e incontrollata sull'economia reale, sul lavoro. Del resto, la dottrina sociale della Chiesa è una delle poche elaborazioni culturali fondate sull'attenzione ai diritti di tutti che cerchi ancora di levare la sua voce, fatta di capacità di interpretare i bisogni e di elaborare risposte alle necessità. E di questa dottrina in questo quarto di secolo L'Osservatore Romano si è fatto divulgatore in ogni singolo campo della convivenza umana.

Sulla testata del quotidiano vaticano, oltre all'Unicuique suum e al Non prevalebunt che tanto solleticano la curiosità di chi se lo ritrova fra le mani per la prima volta, c'è scritto GIORNALE QUOTIDIANO POLITICO RELIGIOSO, tutto in maiscole. Politico, appunto. Perché il servizio all’uomo, alla giustizia, alla pace, dovrebbe costituire il primo compito non solo della religione, ma della politica, nella sua accezione prima di governo della città, di gestione delle realtà locali, e poi nella sua accezione più vasta di contemperamento delle esigenze e di equilibrata gestione dei rapporti internazionali. Sappiamo tutti che non è così, che la prassi è diversa e che solo in parte, per quanto lodevole, tale prassi è applicazione dei grandi enunciati di principio.

La prima considerazione che ne deriva è amara e paradossale: sul piano del diritto internazionale non ci sono ancora chiari strumenti di intervento nei casi di guerre civili e, come abbiamo detto, sotto questa definizione rientrano la gran parte dei conflitti di oggi. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiaramente affermato che i diritti fondamentali dell’uomo vengono prima dei diritti degli Stati, che è un diritto-dovere della comunità internazionale la cosiddetta ingerenza umanitaria (permetta il lettore la piccola vanità di ricordare che l’espressione, della quale in diversi si sono arrogati la paternità, in realtà fu usata proprio da me su L’Osservatore Romano, quando tali padri erano ancora impegnati in altre attività).

Ritardi e promesse non mantenute da parte della comunità internazionale ci sono, come in molti aspetti della convivenza mondiale, anche nella protezione delle vittime civili dei conflitti. La responsabilità di proteggere, quale principale prerogativa della comunità internazione, fu definita solennemente nel 2005. Si trattò di un significativo passo avanti sul piano del diritto internazionale, che sotto questo aspetto ha avuto nell'ultimo ventennio sviluppi radicali, almeno sul piano concettuale. Nei suoi primi quarant'anni d'esistenza, che coincisero con il bipolarismo tra gli Stati Uniti e l'allora Unione Sovietica, l'Onu fu sostanzialmente paralizzata - oltre che dai veti reciproci che i permangono - dal concetto di non ingerenza negli affari interni dei singoli Stati.

Fu all'inizio degli anni Novanta, con il primo esplodere della crisi balcanica, che le istituzioni internazionali cominciarono a prestare ascolto alle voci della comunità mondiale che invocavano un "diritto all'ingerenza umanitaria", a recepire la convinzione che la sovranità statale non può costituire un limite all'intervento indispensabile nelle situazioni di crisi. Per parafrasare i termini giuridici, quelle voci chiedevano iniziative basate sul diritto privato prima che sul diritto pubblico, che facessero cioè riferimento prima alle persone che alle organizzazioni della convivenza umana.

L'Osservatore Romano combattè con convinzione questa battaglia, cosciente che in un mondo sempre più interdipendente e nel quale ha sempre meno senso parlare di crisi locali, questo significa non solo fermare la guerra il prima possibile, ma costruire e mantenere la pace, una pace "giusta e duratura", secondo l'espressione che Giovanni Paolo II usò in quella Sarajevo dove si è aperto e si è poi chiuso un secolo di guerra in Europa e che oggi è il laboratorio di una difficile e sofferta ricostruzione della convivenza.

      Negli anni, questa convinzione si è sviluppata, appunto, dal concetto di diritto all'intervento a quello di dovere di proteggere. In pratica, tuttavia, l'applicazione di questo principio continua a essere pressoché nulla. Ogni anno il segretario generale dell'Onu presenta un rapporto "Implementing the responsibility to protect". Quelli degli anni scorsi sono stati di fatto dei promemoria sulle cose da fare e soprattutto sulle cose non fatte. Non è stato ancora raggiunto l'obiettivo di identificare una strategia globale e multilaterale per proteggere le popolazioni da qualunque affronto alla dignità umana. E intanto milioni i civili costretti ogni anno ad abbandonare i propri luoghi di origine a causa delle guerre, anche senza voler contare quelli costretti all'esilio dalla povertà estrema, acuita negli ultimi tempi dalla crisi finanziaria globale che ha le conseguenze più pesanti proprio sull'economia reale dei Paesi poveri. La risposta non può e non deve essere di chiusura, non solo sul piano del diritto inalienabile di ogni singolo essere umano, ma anche in nome di un interesse globale alla sicurezza e allo sviluppo

E non solo in questo l'Onu si distingue per dichiare soprattutto auspici per il futuro, certo importantissimi nell’affermazione dei principi, ma non ancora realtà applicate ed operanti in ogni circostanza. L’Onu resta fondamentalmente un’organizzazione di Stati e c’è ancora molta strada da fare perché possa chiaramente riconoscersi e pensarsi come un’assise di popoli. Nei sessantasei anni trascorsi dalla proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, diversi strumenti giuridici internazionali ne hanno certo reso più vincolante il rispetto, ma oggi occorre chiedersi insieme se non occorra definire con maggiore chiarezza le categorie dei diritti da promuovere in quest’epoca di sfide radicali sul futuro dell’umanità.

L'Osservatore Romano, riportando un'infinità di interventi della Santa Sede e ospitando numerosi articoli di suoi giornalisti e collaboratori, ha ricordato sempre che per non fermarsi a semplici seppur nobili enunciati teorici, dobbiamo rispondere, ciascuno nei suoi campi e nelle sue competenze, a domande chiare ed essenziali. Dove si pone il confine tra diritti e doveri? Come assicurare efficacemente l’integrità della persona umana dal concepimento alla fine naturale della vita? E sono domande urgenti: dalle risposte dipendono in gran parte la pace e lo sviluppo nel mondo.

La storia, quella storia che qualcuno aveva paradossalmente, se non frettolosamente giudicato “finita” dopo i fatti epocali del 1989, è ancora quella del conflitto, è ancora quella della sovranità statale, è ancora quella della forza economica e finanziaria. La pace, il bene più prezioso, quello la cui assenza compromette la ricerca di tutti gli altri, giustizia, sviluppo, salute, resta ancora, nella visione internazionale del diritto, competenza dei Governi, delegata agli Stati, che certo hanno promosso anche tavoli di trattative, ma più spesso conflitti sanguinosi.

Spesso, per non dire quasi sempre, gli Stati, forti della loro sovranità, all'interrompersi del dialogo o peggio al venir meno dei propri interessi, hanno pensato che l'unica soluzione possibile fosse l'annientamento dell'avversario. Probabilmente nell’intera storia dell’uomo, ma più ancora e con più evidenza in questo ultimo secolo cruento, la pace è divenuta sempre più fragile, precaria, instabile, in balia dei potentati di turno ed ha perduto i contenuti di fondo che la rendevano credibile e autentica, quali la verità, la giusti­zia, la libertà, la solidarietà ("Pacem in terris", 1963).

E per non restare nel generico, non sono mancate su L'Osservatore Romano polemiche anche aspre, sintetizzabili in una domanda: i Governi dei Paesi ricchi si rendono davvero tutti conto che la contrapposizione ideologica è finita nel 1989, se non prima, o c'è chi vuole riproporne un'altra e più devastante con il Sud del mondo, «colpevole» di non adeguarsi al modello di sviluppo del Nord, di rifiutare che siano le dure e presunte «leggi» del mercato e del profitto a determinare il diritto alla vita o alla morte di miliardi di persone?

I giornalisti della redazione centrale dell'Osservatore Romano sono tutti italiani e appartengono, per ormai ovvie ragioni anagrafiche, alla generazione fortunata, risparmiata dalla guerra, degli europei occidentali che hanno beneficiato del periodo certo più civile della storia del continente. Da quasi settant’anni i cancri del nazionalismo esasperato, dei totalitarismi, del conflitto sono combattuti in questa parte d’Europa con la terapia della ricerca di unità. Nostante gli euroscetticismi risorgenti, l’Unione europea è oggi una realtà. Le spaventose devastazioni delle due guerre mondiali non sembrano oggi neppure pensabili nelle nostre città cariche insieme di storia e di giovane speranza.

Ma essere risparmiati non significa essere estranei. Ed una pericolosa tentazione quella di ritenersi o magari di decidersi tali, di chiamarsi fuori: si diceva un tempo che per quanto una persona si disinteressi della politica, questa si interessa comunque di lei. Ciò è valido anche - e forse oggi soprattutto - per la grande politica internazionale, quella che in sintesi vede contrapporsi la tragedia dei poveri all’egoismo dei ricchi.

Tutta l'Africa subsahariana, con l’esclusione del Sudafrica, rappresenta meno del due per cento del volume degli scambi commerciali internazionali. Tutta l'Africa subsahariana potrebbe sprofondare nei due oceani che la lambiscono senza ripercussioni di rilievo nella finanza internazionale. Lo stesso vale per immense popolazioni asiatiche o latinoamericane. I poveri continuano a morire, di guerra, di fame, di sottosviluppo.

Questo, soprattutto, racconta ogni giorno L'Osservatore Romano con cruda chiarezza: i poveri, muoiono di più e muoiono prima. Questi condannati a una morte brutta e precoce sono oltre un miliardo di uomini e donne che vivono con un dollaro al giorno. Sono persone private mediamente di venticinque anni o trent’anni di vita rispetto a quella che noi possiamo ragionevolmente attenderci. Non oltre i 55 anni di vita, infatti, secondo le stime più alte, è la durata media della vita per gli africani subsahariani, per molti asiatici, per i nomadi, e - cerchiamo sempre di ricordarcelo - per i senza fissa dimora di casa nostra.

In Africa, l’ultimo trentennio ha visto diminuire del 15% persino il numero dei bambini iscritti a scuola, con un futuro che si sta costruendo peggiore del presente, con buona pace dei Millennium Developed Goals, gli obiettivi di sviluppo del millennio proclamati dall'Ono e da raggiungere entro il prossimo anno. E tanto per guardare anche in casa nostra, ricordiamoci che in Italia otto o nove milioni di persone in quasi tre milioni di famiglie vivono al di sotto della soglia della povertà e che la crisi economica creata dai padroni del denaro e pagata dai lavoratori sta aggravando la situazione. Oltre un milione di loro ha più di settant’anni. Centinaia di migliaia di persone, in Italia, oltre ai bambini, non sono in grado di lavarsi o di nutrirsi da sole. E molti sono senza aiuto. Una parte sopravvive per l'intervento degli immigrati, questi stessi che molti dei nostri concittadini considerano “causa di tutti i mali”, e che sono investiti da ondate ricorrenti di razzismo e di xenofobia cavalcate via via da forze politiche becere o ipocritamente perbeniste.

Questo indaga e racconta, questo denuncia e combatte ogni giorno un giornalista dell'Osservatore Romano. Questo spiega le sue scelte professionali, dalla parte dell’uomo sempre, dalla parte del debole con più peculiare attenzione. Non è di tolleranza che stiamo parlando, ma di giustizia: perché i principi, i diritti, non si tollerano, si affermano. Eppure la parola tolleranza, nel suo significato etimologico, aiuta a comprendere meglio quanto si chiede a ciascuno di noi. Tollere, in latino, ha il duplice significato di prendere su di sé e di sopportare. Sappiamo tutti che il Signore è Colui che “tolle” i peccati del mondo (e non toglie, come noi un po’ imprecisamente traduciamo nella liturgia).

La precisazione non è solo un vezzo linguistico: costruire la pace, costruire la giustizia, chiede a ciascuno di noi prendere su di sé il carico doveroso del rispetto dell’altro e di sopportarne il peso, anche qualora possa sembrare che non ci riguardi. L'Ue, soprattutto, impegnata in uno sforzo epocale di allargamento e di unità, è o non è cosciente della necessità di ripensare i rapporti che è chiamata a stabilire al suo interno e con i popoli ai suoi confini — in particolare dei Paesi slavi, dell'Africa e del Medio Oriente — e di porre l'attenzione sul futuro ruolo delle Nazioni Unite? Ma soprattutto, l’Europa è o non è cosciente di cosa realmente sostanzia la sua storia e il suo futuro? Giovanni Paolo II, alla vigilia del vertice dell’Ue a Copenhagen del dicembre 2002, quello che stabilì l’ingresso dei dieci nuovi Paesi, sosteneva che con l’allargamento l’Ue «… potrà arricchirsi dell’apporto delle tradizioni culturali e religiose di Nazioni che lungo i secoli ci hanno lasciato un prezioso patrimonio comune di civiltà».

È da questo patrimonio comune di cultura, in cui tanta parte hanno le radici e le vicende cristiane che nasce l’Europa moderna, decisa a voltare pagina dopo secoli e secoli di errori e di divisioni. In quella stessa occasione, indicando un cammino nel quale sta, per così dire, la missione dell’Europa nel terzo millennio, il Papa pregava Iddio di «illuminare tutti gli europei ad essere uniti, per continuare ad offrire fiducia e speranza anche agli altri popoli».

Con questo riferimento ai popoli che dell’Unione non fanno parte, quel Papa coglieva un aspetto essenziale: gran parte delle tragedie del mondo sono ancora oggi determinate da un'eredità di conflitti e di divisioni che ha segnato lungo i secoli la storia tutta, ma quella dell'Europa in particolare, basti pensare al triste lascito del colonialismo che ancora schiaccia l’Africa e altre aree del mondo. Quella svolta alla storia, incominciata con i Trattati di Roma del 1957 che tennero a battesimo il primo nucleo di un’Europa nuova e diversa, può mutare il corso degli eventi anche nel resto del mondo.

La tutela dei diritti dell'uomo, che proprio in Europa ha avuto la sua principale teorizzazione e affermazione nella seconda metà del Novecento, resta la bussola per indicare al Millennio appena aperto la direzione da seguire per costruire una storia diversa.

Da qui nasce anche la polemica de L'Osservatore Romano con quanti hanno impedito che nella Costituzione europea ci fosse un riferimento alle radici cristiane dell’Europa, con una scelta che appare pretestuosa oltre che infondata. Ignorare quelle radici significa infatti non cogliere un punto cruciale: si incomincia a realizzare la fusione – o meglio la riconciliazione - tra due identità (i due “polmoni” rappresentati da Benedetto e Francesco da un lato e da Cirillo e Metodio dall’altro dei quali tante volte ha parlato Giovanni Paolo II) che l’Europa hanno costruito.

Questo non significa né confessionalismo né esclusione. Anzi, sarebbe proprio un tale riconoscimento a configurare la scelta di una storia che continua lungo linee guida di dialogo, senza cesure, senza cancellazioni, nella doverosa ricerca di ciò che unisce, senza “autocensure” delle proprie origini, magari in nome di una presunta laicità.

Anche in questo, L'Osservatore Romano e i suoi giornalisti sono stati guidati dal magistero pontificio. Proprio Giovanni Paolo II – basti leggere l’ultimo discorso che riuscì a tenere di persona al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa sede, il 15 gennaio del 2004 – ha sviluppato più di ogni altro leader mondiale nell'inizio di questo millennio una riflessione sul rapporto tra religione e Stato che coglie e riconosce il senso di una laicità autentica che non è laicismo becero, con una visione ben più dinamica e aperta di quella dei teorici della contrapposizione. «In una società pluralistica – disse quel Papa ai rappresentanti delle Nazioni – la laicità è un luogo di comunicazione tra le diverse tradizioni spirituali e la Nazione». E questo è ancora più valido in una prospettiva continentale e mondiale.

Nei venticinque anni che teniamo in considerazione, L'Osservatore Romano non ha sofferto né di presbiopia, né di miopia. Prima con la direzione di Mario Agnes, quando aveva anche pagine dedicate a notizie specificamente italiane e romane (e forse non era del tutto sbagliato per un giornale che si occupa principalmente del vescovo di Roma e del primate d'Italia) e poi con quella di Gian Maria Vian, che ha voluto un taglio ancora più evidentemente internazionale, L'Osservatore Romano non ha mai distolto lo sguardo dall'attualità.

Ma pure non ha mai trascurato di sottolineare come siano ancora aperte le ferite dei genocidi omologanti del passato, quando si negò il diritto alla differenza culturale, in nome di un'identità ideologica o nazionale. Non meno gravi però sono oggi le esplosioni dei localismi, con le disastrose guerre etniche. So di cosa sto parlando, se non altro perché – mi si passi anche questo vanto perché è nutrito di sofferenza – sono stato la “firma” principale sul mio giornale dei genocidi jugoslavi e rwandesi, due tragedie di questo quarto di secolo che L'Osservatore Romano seppe non solo documentare, ma in qualche modo persino additare in anticipo come pericolo. Soprattutto nella vicenda balcanica, basta leggere la collezione del 1990 e 1991 per rendersene conto.

Né oggi il giornale trascura il rischio mondiale rappresentato dallo scontro in atto tra confessioni – e Paesi – contrapposte dell'islam, tra sciiti e sunniti e non solo, che minacciano di riproporre nel XXI secolo la tragedia di mezzo millennio fa nell'Europa cristiana. L’orizzonte è certo fosco e sarebbe ingenuo ignorare che i motivi di preoccupazione ci sono. Sono quelli di una mondializzazione crescente alla quale reagiscono i fondamentalismi etnici o religiosi. Ma sono anche quelli dell’utilizzo disinvolto della guerra come strumento per risolvere i problemi.

La principale domanda che si pone un giornale appunto politico, così altamente politico, è dunque quella su come sia possibile coniugare le molte culture con una convivenza pacifica mondiale. La risposta non è facile: la divisione territoriale del passato non è più ipotizzabile ed il principio della sovranità degli Stati nella pratica si mostra ormai in ritardo rispetto alla capacità di valicare i confini nazionali propria oggi sia delle comunicazioni, sia della mobilità sociale, sia dei commerci, sia e non da ultimo del crimine organizzato.

Ma c’è di più: lo sviluppo di alcuni popoli pesa inesorabilmente sugli altri e l’ingiustizia dei rapporti finisce per diventare una minaccia per tutti. Quanto detto porta inevitabilmente L'Osservatore Romano a tenere vigile l'attenzione e aperto il confronto sull'organizzazione internazionale e sull'obiettivo ormai imprescindibile di porre in esercizio un'effettiva autorità mondiale al servizio di ciascun popolo, capace cioè di coinvolgere le responsabilità dei vari Stati e di assicurare il rispetto dei diritti umani fondamentali.

Chi scrive sulle quelle pagine sa - o almeno dovrebbe sapere - che se le multinazionali possono agire indisturbate e condizionare gli Stati, è perché manca un ordinamento giuridico internazionale capace di armonizzare gli interessi di parte con la solidarietà verso i più deboli, impedendo le forme di sfruttamento. La questione, peraltro, trascende il pur importante aspetto della ripartizione delle ricchezze ed investe in senso lato il diritto alla vita. Non è accettabile assistere impassibili ai genocidi e alla violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.

Al tempo stesso, è evidente la necessità di dare risposte alla sfida, nuova se non altro nei metodi, che oggi pone il terrorismo internazionale. Anche in questo - con qualche eccezione, tipo quella di definire per un anno “disumani” gli attentati negli Stati Uniti dell'11 settembre 2001 e solo quelli – al quotidiano vaticano hanno sempre ragionato da giornalisti, cioè stando ai fatti. Anche perché sanno benissimo che insistere sull’equazione “intervento militare uguale lotta al terrorismo” – aspetti manipolatori e strumentali a parte - significa perpetuare un atteggiamento tante volte dimostrato perdente dall’esperienza storica. Al terrorismo, infatti non esistono soluzioni affidate alla forza, ma solo soluzioni prodotte da una politica che si sforzi di rimuoverne le cause. Spetta alla politica ribaltare l’obsoleto monito degli antichi romani del “si vis pacem para bellum” in un “si vis pacem para pacem” indispensabile a un’epoca che ha moltiplicato le possibilità di distruzione e nella quale contro il dichiarato avversario di oggi, cioè il terrorismo, la forza militare non costruisce più una reale deterrenza.

Al terrorismo non si risponde riducendo gli spazi di democrazia, ma ampliando e garantendo i diritti. Lo sottolineò significativamente Giovanni Paolo II nel suo messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 2004, celebrata il primo gennaio. La parte centrale del messaggio fu tutta incentrata sullo svolgimento del tema dell’educazione alla legalità, intesa come necessità, «di guidare gli individui e i popoli a rispettare l’ordine internazionale. La pace ed il diritto internazionale sono intimamente legati fra loro: il diritto favorisce la pace». Quel Papa sottolineava la necessità che il diritto internazionale non sia mai slegato da presupposti etici e morali: suo scopo essenziale è di sostituire «alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto», prevedendo appropriate sanzioni per i trasgressori, nonché adeguate riparazioni per le vittime.

Il messaggio rilevava come uno dei frutti più rilevanti del diritto internazionale sia stata, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, l’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, chiamata a «vegliare sulla pace e sulla sicurezza globali, a incoraggiare gli sforzi degli Stati per mantenere e garantire questi fondamentali beni dell’umanità», avendo quale cardine «il divieto del ricorso alla forza». Il Santo Padre rammenta agli smemorati che sono solo due le eccezioni a tale divieto: il diritto naturale alla legittima difesa - da esercitarsi con i criteri della necessità e della proporzionalità, nell’ambito delle Nazioni Unite – e il sistema di sicurezza collettiva, «che assegna al Consiglio di sicurezza la competenza e la responsabilità in materia di mantenimento della pace, con potere di decisione e ampia discrezionalità».

Giovanni Paolo II non nascondeva la necessità di una riforma dell’Onu che la metta in grado di funzionare efficacemente per il conseguimento dei propri fini statutari, una riforma ancora inattuata dieci anni dopo e resa ancora puù urgente se si considera la difficoltà del diritto internazionale a offrire soluzioni alla conflittualità derivante dai mutamenti nella fisionomia del mondo contemporaneo. «Un ordinamento giuridico costituito da norme elaborate nei secoli per disciplinare i rapporti tra Stati sovrani si trova in difficoltà a fronteggiare conflitti in cui agiscono anche enti non riconducibili ai tradizionali caratteri della statualità. Ciò vale, in particolare, nel caso dei gruppi terroristici», scriveva il Papa.

Nella lotta al terrorismo, peraltro, Giovanni Paolo II offriva due importanti indicazioni. La prima è di natura politica e pedagogica: «L'impegno contro il terrorismo deve esprimersi anche sul piano politico e pedagogico: da un lato, rimovendo le cause che stanno all'origine di situazioni di ingiustizia, dalle quali scaturiscono sovente le spinte agli atti più disperati e sanguinosi; dall'altro, insistendo su un'educazione ispirata al rispetto per la vita umana in ogni circostanza: l'unità del genere umano è infatti una realtà più forte delle divisioni contingenti che separano uomini e popoli».

La seconda indicazione riguardava il compito del diritto internazionale, «chiamato ad elaborare strumenti giuridici dotati di efficienti meccanismi di prevenzione, di monitoraggio e di repressione dei reati. In ogni caso, i Governi democratici ben sanno che l'uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai principi di uno Stato di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che ricercassero il successo senza tener conto dei fondamentali diritti dell'uomo: il fine non giustifica mai i mezzi». E oltretutto certi mezzi il fine non lo raggiungono di certo, anzi nel caso del terrorismo, lo nutrono e lo moltiplicano, come L'Osservatore Romano non ha mancato di sottolineare e documentare più volte.

Certo: si può scegliere lo scontro permanente e magari persino teorizzare il cosiddetto conflitto di civiltà. Ma occorre essere anche chiari: significa tagliare le radici stesse che hanno generato le nostre democrazie. A ricordarlo si alzano per fortuna ancora numerose le voci, prima fra tutte quella di Papa Francesco, di chi ha compreso come oggi queste stesse democrazie stiano rischiando, cedendo alla tentazione di fare appello al diritto della forza piuttosto che alla forza del diritto, di negare radicalmente e irrimediabilmente se stesse.

L'Osservatore Romano, come gran parte dei quotidiani, ha le agenzie di stampa tra le proprie fonti principali. E talvolta anche sulle sue pagine possono uscire non solo dei refusi, ma anche delle definizioni che altri usano “normalmente”. Tra queste, capita talvolta – magari riportando dichiarazioni di qualche soggetto della comunità internazionale di rubricare come “terrorismo” l'azione di gruppi diversi, per storia e per connotazioni, e come “regime” qualche Governo non proprio simpatico all'Occidente. Ma sono casi rarissimi.

Anche sotto questo aspetto, il giornale vaticano si distingue. Gli esempi, come al solito, sarebbero migliaia. Ma a spiegare il concetto basta il modo con il quale nel 2013 sono state trattate, in pratica quotidianamente, le sfide del fondamentalismo islamico, soprattutto in Africa. L'attenzione della stampa mondiale passa da una crisi all'altra, imponendo all'opinione pubblica, al manifestarsi di una nuova emergenza, si pensi a quella in Siria, una sorta di oblio sulle precedenti. L'Osservatore Romano fa eccezione anche in questo. Sa bene, infatti, come la guerra alimenti la guerra, nelle sue espressioni più tradizionali e in quelle, aumentate da un ventennio a questa parte, della guerriglia e degli attacchi terroristici. Vale praticamente in tutto il mondo, ma vale soprattutto in Africa.

Anche volendo tralasciare la vicenda libica, con l'ingresso di massicce forniture di armi che si sono diffuse in tutto il Sahel, solo negli ultimi diciotto mesi ci sono state almeno tre o situazioni – in Mali, nella Repubblica Centroafricana e in Nigeria - che spingono a riflettere su quanto denunciato da Papa Francesco all'Angelus dell'8 settembre sulle le responsabilità dei produttori, dei venditori e dei trafficanti di armi, del denaro senza controllo e senza principi. Anche senza voler aggiungere le mai risolte crisi nel Sudan, nella regione dei Grandi Laghi e nel Corno d'Africa, soprattutto in Somalia, che si dividono il “podio” delle citazioni africane sul quotidiano vaticano.

 

Costante attenzione L'Osservatore Romano ha riservato negli anni ai Paesi dell'ex Jugoslavia, da tempo usciti dal cono di luce della stampa internazionalale dopo le tragiche vicende degli anni Novanta. Il riferimento non è casuale. Proprio in quel contesto, infatti, maturarono molte delle posizioni in materia di guerra e di diritto internazionale finora citate. Il no alla guerra ribadito dai Papi e in seconda battuta da L'Osservatore Romano non è generico pacifismo. Ogni vero costruttore di pace sa che dire no alla guerra non significa negare la necessità di un uso della forza in funzione deterrente. È indispensabile qualche forma di «polizia» internazionale, capace di assicurare la giustizia e la pace. E questo riporta ad un'altra delle questione, quella del ruolo dell'Onu, che nell'ultimo quarto di secolo hanno visto il giornale particolarmente impegnato, a non solo nel riportatare tutti gli interventi della Santa Sede, ma con continui articoli. Quel compito di assicurare la pace e la giustizia implica infatti una serie di condizioni che l’Onu oggi purtroppo non possiede. Di qui tutti i problemi di una riforma dell'Onu stessa che deve scrollarsi di dosso le ipoteche ricevute in eredità nell’ultimo conflitto mondiale, acquisire potere di intervento, essere in qualche modo controllata non solo dai Governi, ma anche dai popoli, in forme tutte da inventare, ma che coinvolgano le realtà civili portatrici di esigenze generali.

Tutto questo investe anche il campo dell'organizzazione della vita politica e sociale. La democrazia, anche a livello mondiale, appare sempre più come l’unica salvaguardia possibile per prevenire il ripetersi delle atrocità del passato, che si ripresenterebbero in proporzioni gigantesche. Ma di solito democrazia e vocazione imperiale e totalizzante non vanno d'accordo.

La lettura quotidiana dell'Ossevatore Romano aiuta, tra l'altro, a capire, anche solo con la scelta delle notizie internazionali, come il potere oggi sia trasformato e il pericolo maggiore sia rappresentato da una presunta «cultura» che omologa tutti sulla lunghezza d’onda dei bisogni, con l’annullamento di ogni capacità critica e dell’etica. Occorre quindi una rieducazione profonda all’accettazione di ogni uomo e di ogni popolo e alla capacità di gestire pacificamente gli eventuali conflitti.

Anche in questo soccorre il Magistero: accanto all’esigenza di un'autorità mondiale, già ipotizzata dalla Populorum progressio di Paolo VI nel 1967, è emersa quella del rispetto delle etnie e delle culture, non certo intese come realtà rigide e indeformabili, ma in continua evoluzione, attraverso il contatto e il rapporto con altre culture e per il susseguirsi delle generazioni portatrici sempre di bisogni nuovi. È importante allora che ognuno possa consolidare la propria identità di base e contemporaneamente incontrarsi con altre espressioni culturali, senza prevaricazione. E sembra difficile usare come strumenti per sostanziare tale esigenza da un lato la forsennata e suicida volontà nichilista e dall’altro i cacciabombardieri. E anche se fosse solo come promemoria di questo, sarebbe utile leggere L'Osservatore Romano.