Lavoro
Dottrina
sociale
della Chiesa
e Costituzione
12 maggio 2025
Il lavoro e la sua collocazione nel complesso dei rapporti sociali sono tra i campi più importante con il quale un cattolico può e deve confrontarsi con il dettato evangelico “non potete servire Dio e Mammona” (Lc 16, 13). Su questo chi scrive potrebbe citare l’avallo di molte importanti citazioni da documenti di magistero. Ne sceglie invece una di Tommasa Alfieri, figura luminosa del laicato cattolico del Novecento e sotto molti aspetti anticipatrice del Concilio Vaticano II. Sono due righe in una stupenda riflessione su Maria pregata come Ancilla laboriosa: «Noi non siamo schiavi legati a muovere una macina pesante; siamo figli che trafficano i beni del Padre! Col Padre» (da “Uno sguardo che accarezza la memoria”, edizioni Amici della Familia Christi 2010, pag.468).
Parole che aiutano a ricordare il nostro essere figli di una storia da sempre particolarmente attenta al lavoro, ma dovremmo dire più precisamente ai lavoratori. Lo siamo perché cattolici e perché cittadini italiani. Da cattolici perché lo mostrano tutti gli interventi di magistero, pontificio e non solo, che si sono susseguiti dalla Rerum novarum scritta da Leone XIII nel 1891 fino alla Evangeli gaudium di Papa Francesco nel 2013, passando sia per la denuncia - lo sfruttamento dei lavoratori, la dura realtà dei campi e delle fabbriche, la piaga del lavoro minorile, ecc. - sia per l'affermazione del significato antropologico del lavoro, cioè di quella attività nella quale l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita, sia dei diritti del lavoratore, per primo quello al giusto salario che permette l’accesso adeguato agli altri beni destinati all’uso comune (Evangeli gaudium n.192).
Da cittadini italiani lo siamo perché questo insegnamento è il più recepito nella Costituzione nella quale "lavoro" è il secondo termine più usato dopo "legge". L’articolo 1, sulla «Repubblica fondata sul lavoro», tante volte citato pappagallescamente, dal quale derivano diritti e doveri per contribuire al progresso «materiale o spirituale della società» posti all'art. 3, disegna lo stretto legame tra il lavoro - visto come mezzo di libertà, d’identità, di crescita personale e comunitaria, d’inclusione e di coesione sociale, di responsabilità individuale verso la società - e la dignità della persona.
La Costituzione ha quasi ottant'anni. Se in alcuni periodi questi principi, sostanzialmente allineati agli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa, hanno improntato molte politiche del Paese e ne hanno favorita la crescita e in parte la giustizia sociale, è un fatto che da oltre un trentennio a questa parte la tendenza si è invertita. Quell'antropologia secondo il progetto di Dio, quella visione dei costituenti che in gran parte, ne fossero o meno coscienti, quel progetto recepiva, ha ceduto di fronte alla sfida pervasiva di Mammona. Da trent'anni si accelera il passaggio della ricchezza del mondo dal lavoro al parassitismo, dalla costruzione di migliori condizioni di vita sempre più diffuse, allo strapotere di una finanza famelica e predatrice. Per stare alla sola Italia, questo significa da tempo ignorare la Costituzione secondo la quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge” (Art.36).
Limitiamoci a cinque questioni. La prima e gravissima è la disoccupazione giovanile, che supera il 40 per cento, per un terzo formato dai cosiddetti “neet” (acronimo inglese per "not in education, employment or training”, giovani che non lavorano, non studiano, non si formano). Aggiungiamoci un disagio e una frustrazione crescenti che vanno anche oltre, generati dal lavoro precario e da quello irregolare, cioè non protetto, non sicuro e non adeguatamente retribuito. Questo sgretola il patto intergenerazionale padri/madri-figli/figlie senza il quale non esiste progresso e neppure giustizia; blocca il cosiddetto ascensore sociale, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi senza merito e i poveri sempre più poveri senza colpa; rovescia la cosiddetta piramide sociale, ponendola in un precario equilibrio in cui sono pochi vecchi a sostenere le vite quotidiane dei giovani.
E questo ci porta al secondo argomento, l’allargamento dell'area della povertà, provocata proprio dall'attacco sistematico al diritto al lavoro attraverso soprattutto il progressivo smantellamento - e non è un gioco di parole - dei diritti dei lavoratori, per sostituirlo con prestazioni d'opera incerte e non garantite. La stessa povertà assoluta, raddoppiata nell'ultimo decennio con una accelerazione degli ultimi due anni, rispecchia meglio di ogni altro dato questo rovesciamento dissennato e questo tragico abbandono del patto sociale: tra quanti hanno più di sessantacinque anni la povertà assoluta è ferma al 4%, mentre tra quanti hanno meno di 17 anni ormai sfiora il 20%.
La terza criticità è quella del lavoro femminile e delle sue implicazioni sulla vita familiare. Da diversi anni, ormai, le ragazze raggiungono livelli di scolarità superiore rispetto ai coetanei maschi. Ciò nonostante la loro partecipazione al mondo del lavoro rimane molto limitata. La disoccupazione femminile italiana maggiore è di quella pur alta maschile. I salari delle donne sono sensibilmente più bassi di quelli degli uomini a parità di mansione. Il numero di figli pro capite è tra i più bassi in Europa. Non sono solo statistiche, sono le prove lampanti di come la nostra società sia restia tanto a riconoscere e valorizzare le competenze delle donne, quanto soprattutto a creare una reale compatibilità tra lavoro e vita familiare.
Il quarto aspetto è la distanza, la sconnessione tra il sistema scolastico e il mondo del lavoro. Non solo la scuola - soprattutto per il progressivo avvilimento imposto ai suoi operatori - sta perdendo la sua capacità di costruire coltura. Non solo, secondo i rapporti internazionali, un terzo degli studenti italiani di scuola superiore sono incapaci di comprendere un testo scritto di media difficoltà, ma pur nel proliferare dei corsi scolastici e delle attività extrascolastiche, la scuola non supera l'incancrenito schematismo della separazione tra il momento formativo e quello lavorativo, il che si traduce in un divario sempre più ampio tra la domanda di competenze nel mondo del lavoro e i profili in uscita da scuole e università. Paradossalmente, in un Paese con disoccupazione tanto alta, un quinto delle offerte di lavoro non trovano candidati.
Servono scelte politiche, riforme vere che riempiano questo burrone, che spianino il percorso di crescita dei nostri giovani. Serve uno sforzo culturale, una visione di futuro che ripensi insieme scuola e lavoro, ponendoli al centro di ogni progetto di sviluppo umano e sociale. E questo non significa assoggettare la scuola alle imprese, soprattutto private, che di solito tendono a considerare il lavoro uno dei costi e, per inciso, il primo da tagliare quando scendono i profitti. Garantire il lavoro è il primo compito dello Stato, Quello che serve è un'azione pubblica forte e coesa, che in quel ripensamento efficace del rapporto tra scuola e lavoro sappia allenare le nuove generazioni a considerare la conoscenza, cioè il sapere, e l'abilità (il saper fare) non solo una ricchezza personale, ma i mezzi per impadronirsi di competenze nella risoluzione di problemi concreti, in ogni campo, dall’industria all’agricoltura, dal commercio all’artigianato, dal turismo al risanamento e alla custodia del territorio e del creato, dall'uso sapiente dei beni materiali all'acquisizione di quelli immateriali.
E questo porta al quinto punto, forse il più difficile e inquietante. Nelle società moderne il lavoro è soggetto a mutazioni vertiginose e tali da modificare stili di vita e modelli etici. Ciò pone grandi domande di fondo. Per esempio, cosa significa lavoro umano? Quali devono essere i nuovi diritti e doveri del lavoratore? Quale formazione continua (lifelong learnin dicono gli inglesi) va garantita ai lavoratori per prepararli al lavoro del futuro? Con quali competenze gestire il rapporto tra lavoratore e la macchina robot? Su quali conoscenze devono investire i giovani?
Come in tutti i cambiamenti epocali, anche al tempo della cosiddetta economia 4.0 è compito della cultura e delle forze sociali trovare forme di tutela efficaci per il «lavoro degno». L’innovazione tecnologica può aiutare a risolvere o mitigare i conflitti tra lavoro e ambiente nella cura della casa comune. Per gestire queste nuove forme di lavoro sarà necessario ai lavoratori avere un equilibrio umano e spirituale solido. Per fare solo un esempio, il far coincidere la propria casa con il luogo del lavoro potrebbe essere un fattore di crisi negli equilibri relazionali, affettivi e familiari. Così come una disordinata gestione del tempo potrebbe appiattire sul lavoro anche quei momenti di riposo mentale, di gratuità e di lucidità di cui la vita ha bisogno.
La Dottrina sociale della Chiesa non è un deposito magisteriale già fissato. Come tutta la sua identità, il compito di evangelizzazione legato alla promozione umana, la costruzione della pace, anche quella dottrina è un cantiere aperto nel quale si continua a lavorare. Per la Chiesa, per tutti noi, quindi, indagare il rapporto tra economia 4.0 e quello che si profila come il lavoro 4.0 va considerato un compito da compiere con grande attenzione. Perché c'è la minaccia disumanizzante di piegare l'uomo alle logiche economicistiche care alla finanza predatoria, di ridurre a merce qualsiasi bene, dalla fiducia alla stima, dall'amicizia all'amore, dalla spiritualità alla fede. E se ciò accadesse questo lavoro 4.0 sarebbe la negazione del lavoro come progetto di Dio per l'uomo E sarebbero in molti, in troppi, a servire Mammona, per convincimento egoista alcuni, per coattazione ricattatoria i più.
Siamo figli di una storia da sempre particolarmente attenta al lavoro, ma dovremmo dire più precisamente una storia attenta ai lavoratori. Lo siamo perché cattolici e perché cittadini italiani. Da cattolici perché lo mostrano tutti gli interventi di magistero, pontificio e non solo, che si sono susseguiti dalla Rerum novarum scritta da Leone XIII nel 1891 fino alla Evangeli gaudium di Papa Francesco nel 2013, passando sia per la denuncia - lo sfruttamento dei lavoratori, la dura realtà dei campi e delle fabbriche, la piaga del lavoro minorile, ecc. - sia per l'affermazione del significato antropologico del lavoro, cioè di quella attività nella quale l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita, sia dei diritti del lavoratore, per primo quello al giusto salario che permette l’accesso adeguato agli altri beni destinati all’uso comune (Evangeli gaudium n.192).
La Dottrina sociale della Chiesa non è un deposito magisteriale già fissato. Come tutta la sua identità, il compito di evangelizzazione legato alla promozione umana, la costruzione della pace, anche quella dottrina è un cantiere aperto nel quale si continua a lavorare. Lo ha ricordato con chiarezza Leone XIV all’inizio del suo pontificato, ribadendo in più occasioni l’urgenza di far fronte a una situazione che già il suo predecessore Francesco definita di “policrisi” «… per evocare la drammaticità della congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui convergono guerre, cambiamenti climatici, crescenti disuguaglianze, migrazioni forzate e contrastate, povertà stigmatizzata, innovazioni tecnologiche dirompenti, precarietà del lavoro e dei diritti». Di conseguenza, secondo Leone XIV, «… su questioni di tanto rilievo la Dottrina Sociale della Chiesa è chiamata a fornire chiavi interpretative che pongano in dialogo scienza e coscienza, dando così un contributo fondamentale alla conoscenza, alla speranza e alla pace».
C’è una frase di Papa Francesco diventata famosa: “Il pastore deve avere l’odore delle pecore”. Il linguaggio è quello biblico ed evangelico, immediatamente comprensibile alla realtà sociale e culturale delle epoche in cui i testi sacri si sono formati. Oggi quell’indicazione ha bisogno di confrontarsi con linguaggi ed esperienze nuove, magari riflettendo sul significato di quelle non abbastanza recepite nel passato. Per tutte basta citare quella dei preti operai, nata in Francia durante la seconda guerra mondiale, quando migliaia e migliaia di lavoratori francesi vennero obbligati al lavoro coatto dalle truppe d’occupazione naziste e molti sacerdoti decisero di seguirne la condizione continuarono a farlo anche dopo che la sconfitta del nazifascismo restituì alla Francia e all’Europa la libertà.
Quell’esperienza fu contrastata negli anni successi, durante il pontificato di Pio XII, soprattutto per la sua componente sociale che fu considerata fiancheggiatrice dei partiti di sinistra. Tuttavia il Concilio Vaticano II tornò a recepirne il significato di apostolato con uguale titolo con le altre condizione del servizio sacerdotale nel decreto Presbyterorun ordinis, approvato con 2.390 voti favorevoli e soli quattro contrari e promulgato da Paolo VI il 7 dicembre 1965. Il decreto, infatti, al capitolo secondo, punto 8 afferma che tutti i sacerdoti “…hanno la missione di contribuire a una medesima opera, sia che esercitino il ministero parrocchiale o sopraparrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all'insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale, condividendo la condizione operaia…”. Fu in quegli anni che l’esperienza dei preti operai si affermò anche in Italia. Tuttavia trovò presto anche qui forti ostacoli, sebbene lo stesso Paolo VI, nell’enciclica Octagesima adveniens del 1971 ribadisse che “… la Chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi i testimoni della sollecitudine della Chiesa” (N 48).
Questo per quanto riguarda la posizione cattolica. Ma anche solo in quanto cittadini italiani dovremmo ricordare che i principi ispiratori della dottrina suddetta sono forse i più recepiti nella Costituzione nella quale "lavoro" è il secondo termine più usato dopo "legge". L’articolo 1 sulla «Repubblica fondata sul lavoro» - purtroppo tante volte citato pappagallescamente senza riflettere che ne derivano diritti e doveri per contribuire al progresso «materiale o spirituale della società» posti all'art. 3 - disegna lo stretto legame tra il lavoro - visto come mezzo di libertà, d’identità, di crescita personale e comunitaria, d’inclusione e di coesione sociale, di responsabilità individuale verso la società - e la dignità della persona.
La Costituzione ha quasi ottant'anni. Se in alcuni periodi questi principi, sostanzialmente allineati agli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa, hanno improntato molte politiche del Paese e ne hanno favorita la crescita e in parte la giustizia sociale, è un fatto che da oltre un trentennio a questa parte la tendenza si è invertita. Quell'antropologia secondo il progetto di Dio, quella visione dei costituenti che in gran parte, ne fossero o meno coscienti, quel progetto recepiva, ha ceduto di fronte alla sfida, suadente e pervasiva di Mammona. Da trent'anni si accelera il passaggio della ricchezza del mondo dal lavoro al parassitismo, dalla costruzione di migliori condizioni di vita sempre più diffuse, allo strapotere di una finanza famelica e predatrice. Per stare alla sola Italia, questo significa da tempo ignorare la Costituzione secondo la quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.” (Art.36).
Limitiamoci a cinque questioni. La prima e gravissima è la disoccupazione giovanile, che supera il 40 per cento, per un terzo formato dai cosiddetti “neet” (acronimo inglese per "not in education, employment or training”, giovani che non lavorano, non studiano, non si formano). Aggiungiamoci un disagio e una frustrazione crescenti che vanno anche oltre, generati dal lavoro precario e da quello irregolare, cioè non protetto, non sicuro e non adeguatamente retribuito. Questo sgretola il patto intergenerazionale padri/madri-figli/figlie senza il quale non esiste progresso e neppure giustizia; blocca il cosiddetto ascensore sociale, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi senza merito e i poveri sempre più poveri senza colpa; rovescia la cosiddetta piramide sociale, ponendola in un precario equilibrio in cui sono pochi vecchi a sostenere le vite quotidiane dei giovani.
E questo ci porta al secondo argomento, l’allargamento dell'area della povertà, provocata proprio dall'attacco sistematico al diritto al lavoro attraverso soprattutto il progressivo smantellamento - e non è un gioco di parole - dei diritti dei lavoratori, per sostituirlo con prestazioni d'opera incerte e non garantite. La stessa povertà assoluta, raddoppiata nell'ultimo decennio con una accelerazione degli ultimi due anni, rispecchia meglio di ogni altro dato questo rovesciamento dissennato e questo tragico abbandono del patto sociale: tra quanti hanno più di sessantacinque anni la povertà assoluta è ferma al 4%, mentre tra quanti hanno meno di 17 anni ormai sfiora il 20%.
La terza criticità è quella del lavoro femminile e delle sue implicazioni sulla vita familiare. Da diversi anni, ormai, le ragazze raggiungono livelli di scolarità superiore rispetto ai coetanei maschi. Ciò nonostante la loro partecipazione al mondo del lavoro rimane molto limitata. La disoccupazione femminile italiana maggiore è di quella pur alta maschile. I salari delle donne sono sensibilmente più bassi di quelli degli uomini a parità di mansione. Il numero di figli pro capite è tra i più bassi in Europa. Non sono solo statistiche, sono le prove lampanti di come la nostra società sia restia tanto a riconoscere e valorizzare le competenze delle donne, quanto soprattutto a creare una reale compatibilità tra lavoro e vita familiare.
Il quarto aspetto è la distanza, la sconnessione tra il sistema scolastico e il mondo del lavoro. Non solo la scuola - soprattutto per il progressivo avvilimento imposto ai suoi operatori - sta perdendo la sua capacità di costruire coltura. Non solo, secondo i rapporti internazionali, un terzo degli studenti italiani di scuola superiore sono incapaci di comprendere un testo scritto di media difficoltà, ma pur nel proliferare dei corsi scolastici e delle attività extrascolastiche, la scuola non supera l'incancrenito schematismo della separazione tra il momento formativo e quello lavorativo, il che si traduce in un divario sempre più ampio tra la domanda di competenze nel mondo del lavoro e i profili in uscita da scuole e università. Paradossalmente, in un Paese con disoccupazione tanto alta, un quinto delle offerte di lavoro non trovano candidati.
Servono scelte politiche, riforme vere che riempiano questo burrone, che spianino il percorso di crescita dei nostri giovani. Serve uno sforzo culturale, una visione di futuro che ripensi insieme scuola e lavoro, ponendoli al centro di ogni progetto di sviluppo umano e sociale. E questo non significa assoggettare la scuola alle imprese, soprattutto private, che di solito tendono a considerare il lavoro uno dei costi e, per inciso, il primo da tagliare quando scendono i profitti. Garantire il lavoro è il primo compito dello Stato, Quello che serve è un'azione pubblica forte e coesa, che in quel ripensamento efficace del rapporto tra scuola e lavoro sappia allenare le nuove generazioni a considerare la conoscenza, cioè il sapere, e l'abilità (il saper fare) non solo una ricchezza personale, ma i mezzi per impadronirsi di competenze nella risoluzione di problemi concreti, in ogni campo, dall’industria all’agricoltura, dal commercio all’artigianato, dal turismo al risanamento e alla custodia del territorio e del creato, dall'uso sapiente dei beni materiali all'acquisizione di quelli immateriali.
E questo porta al quinto punto, forse il più difficile e inquietante. Nelle società moderne il lavoro è soggetto a mutazioni vertiginose e tali da modificare stili di vita e modelli etici. Ciò pone grandi domande di fondo. Per esempio, cosa significa lavoro umano? Quali devono essere i nuovi diritti e doveri del lavoratore? Quale formazione continua (lifelong learnin dicono gli inglesi) va garantita ai lavoratori per prepararli al lavoro del futuro? Con quali competenze gestire il rapporto tra lavoratore e la macchina robot? Su quali conoscenze devono investire i giovani?
Come in tutti i cambiamenti epocali, anche al tempo della cosiddetta economia 4.0 è compito della cultura e delle forze sociali trovare forme di tutela efficaci per il «lavoro degno». L’innovazione tecnologica può aiutare a risolvere o mitigare i conflitti tra lavoro e ambiente nella cura della casa comune. Per gestire queste nuove forme di lavoro sarà necessario ai lavoratori avere un equilibrio umano e spirituale solido. Per fare solo un esempio, il far coincidere la propria casa con il luogo del lavoro potrebbe essere un fattore di crisi negli equilibri relazionali, affettivi e familiari. Così come una disordinata gestione del tempo potrebbe appiattire sul lavoro anche quei momenti di riposo mentale, di gratuità e di lucidità di cui la vita ha bisogno.
La Dottrina sociale della Chiesa non è un deposito magisteriale già fissato. Come tutta la sua identità, il compito di evangelizzazione legato alla promozione umana, la costruzione della pace, anche quella dottrina è un cantiere aperto nel quale si continua a lavorare. Per la Chiesa, per tutti noi, quindi, indagare il rapporto tra economia 4.0 e quello che si profila come il lavoro 4.0 va considerato un compito da compiere con grande attenzione. Perché c'è la minaccia disumanizzante di piegare l'uomo alle logiche economicistiche care alla finanza predatoria, di ridurre a merce qualsiasi bene, dalla fiducia alla stima, dall'amicizia all'amore, dalla spiritualità alla fede. E se ciò accadesse questo lavoro 4.0 sarebbe la negazione del lavoro come progetto di Dio per l'uomo E sarebbero in molti, in troppi, a servire Mammona, per convincimento egoista alcuni, per coattazione ricattatoria i più.