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1.400 giorni di stragi e pseudo negoziati

1.400 giorni di stragi e pseudo negoziati - Pierluigi Natalia

 

 

 Guerra

in Ucraina

e deriva 

bellicista

europea

 

di Pierluigi Natalia

Dicembre 2025 

Il 2025 si avvia a chiudersi dopo 1.400 giorni di guerra internazionalizzata in Ucraina, aperta dall’intervento armato russo del 24 febbraio 2022. Da allora, le possibilità se non di pace, almeno di tregua effettiva e riavvio di negoziati, restano ostacolate bloccate da interessi in realtà palesi, ma nascosti, anzi sommersi da propaganda e disinformazione.  Incominciò il presidente russo Vladimir Putin parlando di “Operazione militare speciale”, dandole due motivazioni. La prima era il comportamento, bollato come nazista, del governo di Kiev nelle regioni autonomiste filorusse del Donbass – che si erano dichiarare indipendenti e avevano chiesto l’aiuto di Mosca – dopo che in effetti le autorità ucraine vi aveva impiegato per anni milizie come il battaglione Azov che nazista si dichiarava. L’altra, prioritaria, era la volontà della Nato di espandersi a Est, in violazione delle intese con Mosca dopo il crollo dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni’90.

 Un’invasione resta comunque tale, quali ne siano le motivazioni. Ma è indubbio che la mossa di Putin all’inizio sembrò funzionare. L’intervento russo nel conflitto civile in Ucraina che si protraeva da olltre otto anni, già nei giorni immediatamente successivi portò Kiev ad avviare negoziati con Mosca, tra il 28 febbraio e il 7 marzo a Liaskavichy   e a Kamyanyuki, in Bielorussia. Ci furono poi tre settimane di interruzione dei colloqui, ma già il 10 marzo, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, in un incontro ad Antalya, in Turchia, con il suo omologo russo Sergey Lavrov, parlò di una possibile “soluzione sistematica e sostenibile” per l'Ucraina. L’accordo sembrò fatto il 29 marzo, sempre a Istanbul. Fu comunicata l’intesa su un testo base per un trattato, all’epoca soltanto riassunto verbalmente dalle parti alla stampa, ma che gli analisti politici Samuel Charap e Sergey Radchenko di Foreign Affairs hanno poi ottenuto in versione integrale. I termini prevedevano che l’Ucraina diventasse uno Stato permanentemente neutrale e senza armi nucleari, rinunciasse all’adesione alla Nato e ad altre alleanze militari e a permettere la presenza di basi o truppe straniere sul proprio territorio. Non c’erano invece ostacoli espliciti all’ingresso nell’Unione europea. Possibili garanti dell’intesa, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (inclusa la Russia) ad alcuni altri Paesi.

 Non ci sono prove che a impedire la pace fu solo l’allora premier britannico Boris Johnson, che il 9 aprile andò in Ucraina a dire al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di non firmare il trattato e di combattere per sconfiggere la Russia, garantendogli il sostegno Nato fino alla vittoria. Ma è indubbio che Washington e a Londra da anni già fornivano materiale bellico a Kiev e che, a giudizio concorde degli osservatori privi di pregiudizi antirussi, avevano avuto un ruolo attivo nella cacciata del presidente neutralista Viktor Yanukovich nel 2014 -  in parte a furor di piazza, in parte con gli squadroni della morte e cecchini filoccidentali - vissuta dai filorussi come un colpo di Stato, e poi  al tradimento dei due accordi di Minsk, firmati con Mosca e mai attuati dai governi di Petro Poroshenko e di Zelensky.. E le scelte di quest’ultimo resero chiaro che la guerra da parte del governo ucraino era ormai una guerra per procura. 

  Da allora non ci sono stati reali negoziati, ma solo conferenze incentrate soprattutto sugli affari delle industrie belliche e delle prospettive della ricostruzione. Perché non si possono definire negoziati delle riunioni che non coinvolgano i belligeranti. Al più si possono chiamare mediazioni protrattesi senza esito per anni tra Mosca, ormai vincente sul piano militare, e Kiev, fino agli ultimi piani sedicenti di pace di Usa e Ue. Ma anche sotto questo aspetto è riuscita solo qualche mediazione di organizzazioni civili e religiose – scambi di prigionieri, compresi bambini, e corridoi umanitari - come quella del cardinale Matteo Zuppi per la Santa Sede.

 In ogni caso, la guerra non fu fermata. Né lo ha fatto il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, nonostante la sua vanteria di risolvere la situazione in ventiquattro ore. Di mutato c’è solo che sono cambiati i soggetti spinti ad accollarsi i costi di una guerra contro la Russia. Cioè soprattutto l’Unione europea, che dopo tre anni di incapacità o di impotenza di esercitare un ruolo diplomatico in questa tragica vicenda ai suoi confini orientali (non è mai stato neppure nominato un rappresentante speciale per l’Ucraina con l’incarico di promuovere negoziati, come hanno fatto praticamente tutti gli altri soggetti interessati, compresa la Santa Sede) nel 2025 ha ceduto al dictat trumpiano di aumentare a dismisura le spese militari, beninteso comprando dall’industria bellica statunitense le armi che Trump non vuole più mandare in proprio a un’Ucraina non in grado di pagarle. Armi, per inciso, destinate ad aumentare la spaventosa corruzione che da anni caratterizza e arricchisce gli esponenti governativi ucraini, mentre il loro popolo paga un prezzo spaventoso di sangue e di distruzioni.

 L’Ue, nata sulla scelta di non permettere più una guerra dopo gli orrori delle due mondiali del Novecento (l’Italia lo ha scritto anche nella Costituzione), pensata sui principi valoriali espressi nel manifesto di Ventotene e costruita inizialmente dal lucido progetto di sviluppo e cooperazione solidale di statisti come Schuman, Adenaeur e De Gasperi (per inciso tutti e tre cattolici veri, quelli che non straparlano a vanvera di Dio, patria e famiglia), dopo aver impoverito con centinaia di sanzioni alla Russia solo le proprie popolazioni, non ha ancora imparato la lezione. Il sedicente piano di difesa europea varato in questo 2025 che tramonta di europeo non ha nulla: è solo una gigantesca apertura di prestiti per il riarmo massiccio dei suoi singoli Stati, da ripagare a spese della scuola, della sanità, della previdenza e dei diritti sociali e del lavoro, cioè dei primi compiti della politica, ormai palesemente e sfacciatamente sotto attacco, questo sì reale, nel sonnambulismo – come per l’Italia lo definisce l’ultimo rapporto del Censis – delle coscienze di fronte al cedimento o peggio alla complicità delle sue dirigenze in questo degrado.

 Di più: è una nuova spallata alla sua frammentazione che può far contenti solo Trump e Putin. È un nuovo passo verso la sua crescente irrilevanza nella geopolitica mondiale. È la resa della democrazia di cui è storicamente la cullae dei suoi valori fondanti alle autarchie oggi dominanti tra i veri giocatori della partita, a Washington, a Mosca e ovviamente a Pechino.

 

 

Il rapporto tra denaro e conflitti

Il rapporto tra denaro e conflitti - Pierluigi Natalia

 

L'affare delle armi

e quello del mattone

Difficile difesa dai cambiamenti climatici

Difficile difesa dai cambiamenti climatici - Pierluigi Natalia

 

 

È l'Africa,

il continente

più fragile

 

Luglio 2025

La difesa dai cambiamenti climatici appare ardua soprattutto in Africa. È vero che le scelte politiche in merito arretrano in tutto il mondo in questa stagione in cui i principali attori internazionali sembrano sempre più incoscienti, quando non apertamente negazionisti, sulla minaccia del surriscaldamento globale (global warming nell’usuale definizione in inglese). Tuttavia, come in tanti altri aspetti della convivenza internazionale, il continente africano paga il prezzo più alto, con catastrofiche conseguenze di siccità, inondazioni, cicloni tropicali e ondate di calore, di una situazione della quale ha meno responsabilità storiche e attuali.

I suddetti eventi estremi stanno decisamente aumentando in frequenza e intensità negli ultimi anni, compromettendo i mezzi di sussistenza, sconvolgendo gli ecosistemi e compromettendo i già scarsi progressi nello sviluppo. Secondo la World Meteorological Organization (WMO), i paesi africani stanno perdendo in media dal 2 al 5 per cento del Prodotto Interno Lordo (Pil) e molti sono costretti ad impiegare fino al 9 per cento dei loro bilanci per rispondere agli eventi climatici estremi. Le proiezioni più attendibili concordano nello stimare che entro il 2030 fino ben oltre cento milioni di africani in povertà estrema subiranno eventi catastrofici di questo tipo se non saranno prese misure adeguate. Ciò comporterà non solo un significativo aumento di vittime, ma anche ulteriori oneri per gli sforzi di riduzione della povertà e ostacolerà significativamente la crescita. 

In un tale scenario generale sconfortante si segnala anche l’ancora insufficiente attuazione dell’unica possibile forma di protezione finora individuata, cioè l’iniziativa Early Warnings for All (Allerta precoce per tutti), lanciata dalle Nazioni Unite nel 2022, mirata a garantire che ogni persona sulla Terra sia protetta da sistemi appunto di allerta precoce entro il 2027. La maggior parte dei 30 paesi destinatari prioritari dell’iniziativa si trova in Africa. Con il supporto della WMO, il progetto prevede di realizzare roadmap nazionali per rafforzare appunto infrastrutture di allerta precoce, sviluppare le capacità e migliorare la preparazione delle comunità locali.

Il lavoro da fare è tanto e il ritardo si è già accumulato fin troppo. Oltre il 60 per cento del territorio africano è sprovvisto di adeguati sistemi di osservazione meteorologica e climatica. Molti Servizi Meteorologici e Idrologici Nazionali (NMHS) non dispongono di sufficienti risorse finanziarie ed equipaggiamenti adeguati. L’accesso alle informazioni di allerta precoce è limitato e le comunità vulnerabili, in particolare nelle aree rurali e remote, spesso non dispongono di informazioni climatiche tempestive e accessibili, adattate al loro contesto locale. La situazione generale è aggravata inoltre dalla mancanza di coordinamento tra investimenti e sostegno alle attività legate al controllo del clima. Ciò ha portato a un'erogazione inefficace dei servizi climatici e a una loro scarsa integrazione nei quadri nazionali di sviluppo e gestione del rischio di catastrofi, limitando l’adattamento sostenibile delle popolazioni.

Alcuni risultati ci sono stati. Ma il condizionale sul successo dell’iniziativa resta d’obbligo, dato che i finanziamenti chiesti dall’Onu restano finora palesemente insufficienti, in linea purtroppo con l’arretramento dei principi di multilateralità e cooperazione propri del diritto interazionale. Di tale arretramento, giova ricordarlo, si mostrano ormai incuranti i principali attori internazionali, a partire dalle cosiddette democrazie occidentali che un tempo di quel diritto furono a fondamento e che oggi sembrano ricadere in quella piaga dei nazionalismi miopi ed egoistici all’origine di tutti gli orrori degli ultimi secoli.

Anche questo, forse soprattutto questo spiega il generale ritardo africano nella dotazione di strumenti digitali, nell’estremo paradosso di ingiusto sfruttamento di un continente che delle tecnologie informatiche è il principale fornitore delle necessarie materie prime e il minor fruitore di vantaggi. Nonostante che da parte di alcuni governi continentali ci siano stati investimenti significativi, le infrastrutture digitali africane restano carenti rispetto alle esigenze della popolazione in crescita. Per fare solo un esempio, in Africa oltre 400 milioni di persone vivano attualmente entro dieci chilometri da una rete in fibra ottica, ma la maggior parte di loro è concentrata nelle aree urbane, lasciando le regioni rurali con un accesso limitato. Siamo cioè di fronte a un crescente “divario di utilizzo”, dove un numero crescente di africani è coperto da reti a banda larga, ma non le usa a causa di problemi di accessibilità economica e della mancanza di infrastrutture che raggiungano le loro comunità.

Timidi segnali di progresso

Alcuni segnali di progresso, per quanto timidi, si stanno registrando nei sistemi di allerta precoce in Africa delle minacce degli eventi catastrofici legati ai cambiamenti climatici. Per esempio, in Rwanda, Kenya e Nigeria, sono già stati avviati programmi pilota per fornire previsioni meteo via SMS alle popolazioni rurali, dotandole addirittura di strumenti digitali di pianificazione agricola. Tali sistemi come detto, non possono prescindere dalla diffusione di servizi meteorologici digitali, dall’integrazione regionale delle reti climatiche e idrologiche e soprattutto dall’l’investimento in infrastrutture resilienti. Proprio in Kenya ha preso il via lo scorso anno un ambizioso progetto della Commissione dell’Unione Africana, in collaborazione con Eumetsat, l’organizzazione europea per lo sfruttamento dei satelliti meteorologici, per una migliore raccolta dati per mitigare e prevenire le ricadute dei fenomeni meteorologici estremi, mettendo in sicurezza territorio e comunità località.

Si tratta dell’installazione, appunto in Kenya, della prima di una serie di stazioni riceventi PUMA-2025 specificamente progettate per catturare dati dalla prossima generazione di satelliti geostazionari Meteosat di terza generazione (MTG), quelli dell’Unione europea, gli unici di osservazione della Terra che hanno una visione costante dell’Africa. Simili istallazioni sono in allestimento in altre località africane, tra le quali Cotonou, la capitale del Benin, dove si è tenuto un anno fa il 16° Eumetsat User Forum in Africa, che ha fornito ai meteorologi africani una piattaforma per condividere conoscenze e migliori pratiche sull’uso dei dati Meteosat e discutere prospettive per migliorare i sistemi di allerta precoce,  cioè un ultima analisi per sostenere lo sviluppo sostenibile delle comunità locali e proteggere vite umane e mezzi di sostentamento. 

Miopia occidentale sulla questione demografica

Miopia occidentale sulla questione demografica - Pierluigi Natalia

Giugno 2025

Di fronte alla questione demografica, che pone oggi al mondo sfide e opportunità, sembrano prevalere in molti governi, in particolare occidentali, risposte miopi, prive di visione sulle prospettive anche a breve termine del futuro, di fatto lesive per le loro popolazioni. Sull’argomento è opportuno fare riferimento a un paio di indici. Il primo è il Dependence index, l’indicatore della percentuale delle persone di età inferiore ai 15 anni e superiore ai 64, rispetto alla fascia intermedia, quella di chi lavora, almeno quando può. Il secondo è la Old-age dependency ratio, che formula il conteggio escludendo i bambini.

Nell’ultimo quindicennio i rapporti si sono ribaltati tra i Paesi dell’occidente industrializzato, soprattutto europei, e quelli del sud del mondo, soprattutto africani. Secondo i dati dell’Onu, nel 2010, il continente con il Dependence index più alto era proprio l’Africa, con 80 persone in età non attiva (in gran parte minori) su 100 in età lavorativa. mentre l’Europa in quell’anno vantava un indice del 47 per cento. Sempre secondo l’Onu, gli sviluppi demografici globali prospettano che l’Africa diventerà presto il continente con tale indice più basso, il 56 per cento, rispetto all’80 per cento dell’Europa. Nella Old-age dependency ratio la forbice è meno stretta, dato che non si tiene conto dei bambini e quindi della maggiore natalità nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo rispetto alla decrescita in quelli cosiddetti avanzati.

Se i numeri hanno un senso, questo spiega anche perché in questi ultimi già si registrino erosioni massicce della tenuta sociale, fino a prospettare il crollo del welfare. Sui tre aspetti principali sui quali si misura la civiltà di un popolo, istruzione, previdenza e assistenza, cioè nelle politiche per i bambini, per gli anziani e per i malati (si dovrebbero citare inoltre le donne, ma il discorso si farebbe lungo) i governi promettono molto – e spesso danno numeri che negano la realtà delle condizioni sociali – e fanno decisamente poco, a tutto vantaggio, volontario o inconsapevole che sia, delle strutture private.  Così si allarga la forbice tra quanti possono pagarsi servizi privati e i milioni in costretti a rinunciare persino a curarsi. Viene in mente la risposta del re francese Luigi XV ai pochi che osavano contestargli gli sperperi della sua corte pagati con la fame del popolo: «Dopo di me venga pure il diluvio». Ecco: quei governanti si credono Luigi XV, seppure sanno chi sia stato.

Le analisi della questione demografica restano basate sulle obsolete teorie dell’economista inglese Thomas Malthus, vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, secondo il quale il tasso di crescita della popolazione umana, essendo esponenziale, avrebbe presto superato quello della produzione alimentare che cresce in modo lineare, finendo per consumare tutto il cibo disponibile a meno di un numero sufficiente di guerre, carestie o pandemie. I fatti gli hanno dato smentita, se non altro perché la popolazione aumenta proprio nelle zone del mondo più colpite da simili catastrofi, per non parlare del fatto che l’attuale produzione alimentare globale sfamerebbe comodamente venticinque miliardi di persone se fosse equamente destinata a tale scopo.

Eppure le soluzioni oggi formulate in riferimento all’espansione demografica, soprattutto in Africa, puntano fondamentalmente sull’incremento dell’uso dei contraccettivi, ricusati dalla gran parte delle popolazioni, per motivi non solo religiosi, ma anche culturalmente consolidati. Alcuni sedicenti esperti tornano persino a suggerire l’obbligo di un solo figlio per famiglia, dimenticando che a suo tempo lo si fece in Cina, in India e in altri Paesi asiatici e procurò disastri. La verità è che la questione demografica non è effetto del sottosviluppo, ma ne è la causa. In Italia, ad esempio, le famiglie numerose si sono assottigliate grazie alle garanzie dei diritti progressivamente acquisiti dai lavoratori e al ruolo sociale conquistato dalle donne.

Della succitata miopia, oltre che di mancato umanesimo, danno prova anche le politiche sedicenti securitarie riguardo al fenomeno migratorio, con la chiusura dei confini e l’innalzamento di muri, fino all’esternalizzazione delle frontiere, incompatibile con il diritto internazionale. Ma i nuovi Luigi XV non capiscono o vogliono nascondere che l’unica soluzione allo scompenso demografico e sociale è proprio una seria e intelligente apertura all’immigrazione. Perché se oggi sembra essere ancora l’Africa ad aver bisogno dell’Europa, entro due o tre decenni, quando gli africani saranno oltre un quinto della popolazione mondiale e gli europei meno di un ventesimo, accadrà esattamente il contrario. E se non si incomincia subito a tenerne conto, ci vorrà poco a finire fuori tempo massimo.

L'importanza del voto dell'8 e 9 giugno 2025

L'importanza del voto dell'8 e 9 giugno 2025 - Pierluigi Natalia

 

L’appuntamento

referendario

per la dignità

del lavoro

 

25 maggio 2025

L’appuntamento referendario di giugno spinge a qualche riflessione sia di merito sugli argomenti dei referendum stessi sia sull’istituto in sé così come recepito nella Costituzione. Sul secondo tema, il punto da ricordare in premessa è che i referendum su leggi ordinarie possono essere solo abrogativi di tali leggi, in tutto o in parte, e che il loro esito è valido solo se la partecipazione al voto supera la metà degli aventi diritto, condizione che non è invece necessaria per i referendum su modifiche costituzionali.  Tale scelta dell’assemblea costituente ha una logica perfettamente aderente al fatto che la democrazia italiana nasce dopo la sconfitta della dittatura fascista, come Repubblica parlamentare, che la Costituzione stessa ha un’ispirazione antifascista in ogni suo aspetto, si basa sul contemperamento dei poteri, ne fissa il controllo con strumenti indipendenti, tutela il principio di sussidiarietà dei cosiddetti corpi sociali e che, per inciso, all’origine la rappresentanza della sovranità popolare era prevista su base proporzionale.

Le diversi modifiche delle leggi elettorali, in origine almeno nell’intenzione volte a favorire la continuità dell’azione governativa, hanno creato, in sostanza se non nella forma, una degenerazione di tale impianto costituzionale. Nei fatti, ormai, in Italia non è più il Parlamento a incaricare il governo, ma sono i leader delle forze politiche a nominare i parlamentari, garantendosi in caso di vittoria elettorale, grazie ai premi di maggioranza a liste o a coalizioni formate al di fuori del confronto parlamentare, maggioranze schiaccianti non rispondenti all’espressione del voto popolare. Per non parlare delle soglie di sbarramento che di fatto cancellano il diritto di tribuna delle formazioni più deboli.

Per quanto riguarda i referendum, va aggiunto che tra le conseguenze di questa deriva c’è la crescente disaffezione al voto tra la cittadinanza, il che rende particolarmente arduo il raggiungimento del quorum. E non sono casuali l’oscuramento da mesi delle informazioni ufficiali sul referendum e l’acquiescenza in merito del servizio pubblico – sul quale non ci sono programmi di confronto, dato che non esiste una parte politica apertamente schierata per il “no” - e di tanta stampa indipendente solo a chiacchiere. Che il governo e la sua maggioranza puntino sull’astensione e non su un confronto sul merito delle questioni è infatti chiaro da mesi e con l’avvicinarsi del voto si è fatto esplicito, al punto che il presidente del Senato, che sulla Costituzione ha giurato, ma che antifascista non è di sicuro, ha invitato a disertare le urne.

I promotori dei cinque referendum puntano: 1) Contrastare i licenziamenti senza giusta causa nelle grandi aziende; 2) Far stabilire dalla magistratura del lavoro i risarcimenti ai lavoratori licenziati senza giusta causa nelle piccole imprese; 3) Contenere il proliferare dei contratti a termine che favoriscono la precarietà del lavoro; 4) Ristabilire il principio di responsabilità riguardo alla sicurezza sul lavoro e ai rimborsi nel caso di incidenti delle ditte prime appaltatrici senza più disperderla nei successivi subappalti; 5) Dimezzare il dieci anni di residenza continuativa necessari agli immigrati stranieri per ottenere la cittadinanza italiana.

Sono argomenti chiari, sui quali è facile esprimere un’opinione e una classe politica responsabile questo sarebbe chiamata a fare, per aiutare gli elettori a formarsi un proprio convincimento. Puntare sull’astensione significa non avere convinzioni e avere come unico scopo l’interesse privato al mantenimento dei vantaggi della propria posizione personale o di visione dello Stato diversa da quella costituzionale. E se non altro si dovrebbe ricordare loro che la Costituzione definisce l’esercizio del voto “un dovere civico” (Art.48, comma 2). E forse sarebbe da ipotizzare persino una violazione dell’obbligo costituzionale per chi assume funzioni pubbliche di adempierle con disciplina e onore (Art. 54).

Al cittadino che questa indicazione all’astensione segue si potrebbe invece ricordare che la sua scelta, magari convinta per la volontà di invalidare i referendum con il non raggiungimento del quorum, o magari determinata dal disgusto per la politica del “tanto sono tutti uguali”, resta una sorta di abdicazione, cosciente o involontaria, dal suo diritto di elettore sovrano.

Sul quinto referendum questo articolo non si sofferma, rimandando a una disamina più approfondita della complessa questione migratoria e si limita a denunciare il comportamento di quelle forze politiche becere e fondamentalmente razziste che fomentano ignobilmente odio e paura. Sugli altri, qualche considerazione impone il principio della dignità del lavoro o più precisamente dei lavoratori. Questo insegnamento è forse il più recepito nella Costituzione italiana, nella quale "lavoro" è il secondo termine più usato dopo "legge". L’articolo 1 sulla «Repubblica fondata sul lavoro», tante volte citato pappagallescamente e dal quale derivano diritti e doveri per contribuire al progresso «materiale o spirituale della società» posti all'art. 3, disegna lo stretto legame tra la dignità della persona umana e il lavoro, visto come mezzo di libertà, d’identità, di crescita personale e comunitaria, d’inclusione e di coesione sociale, di responsabilità individuale verso la società.

Se in alcuni periodi questi principi hanno improntato molte politiche del Paese e ne hanno favorito la crescita e in parte la giustizia sociale, è un fatto che da un trentennio a questa parte la tendenza si è invertita. Si è accelerato il passaggio della ricchezza dal lavoro al parassitismo, dalla costruzione di migliori condizioni di vita sempre più diffuse, allo strapotere di una finanza famelica e predatrice. Che, sempre per inciso, è il migliore alleato delle varie forme in cui il lavoro viene sfruttato e deturpato dall’illegalità, come il caporalato, le agromafie o le ecomafie.

Nella società italiana dilagano intanto la condizione frustrante dei giovani che non riescono a trovare un'occupazione nella quale far fruttificare il proprio talento; l'angoscia dei cinquantenni che perdono quel lavoro a cui hanno dedicato gran parte della loro vita; la sofferenza dei tanti sfruttati e mal pagati, privati dei loro diritti e della loro dignità, le morti sul lavoro che rimangono impunite. E gli argomenti non si esauriscono certo qui.

 Pensiamoci prima di disertare le urne. Pensiamoci bene e andiamo a votare.