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L'Africa paga il prezzo maggiore

L'Africa paga il prezzo maggiore - Pierluigi Natalia

  

Natale

  

di guerra

  

 

 27 dicembre 2013

Le cronache internazionali degli ultimi giorni hanno quasi nascosto – perché sulla stampa non mettere in evidenza è nascondere – una realtà inquietante: mai come quest'anno i giorni di Natale hanno fatto registrare tanti conflitti. Soprattuuto, ma non solo, in Africa. Il Sud Sudan, il più giovane Stato del mondo, indipendente dal luglio 2011, è precipitato nella guerra civile. Alla vigilia di Natale, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la richiesta del segretario generale, Ban Ki-moon, di rafforzare con altri 5.500 caschi blu la missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan, in pratica raddoppiandola. Il mandato è proteggere i civili. L’Onu stima centomila gli sfollati, che per metà hanno trovato rifugio nelle sue diverse basi nel Paese. Secondo Toby Lanzer, responsabile del coordinamento degli interventi umanitari dell’Onu nel Paese, i morti in dieci giorni di scontri sono già migliaia.

Sono caduti nel vuoto anche gli appelli a fermare almeno nel giorno di Natale i combattimenti tra i reparti dell’esercito fedeli al presidente Salva Kiir Mayardit e quelli che fanno invece riferimento all’ex vice presidente Riek Machar, rimosso lo scorso luglio. Secondo l’agenzia di stampa britannica Reuters, che cita fonti dell’esercito sudsudanese, i seguaci di Riek Machar hanno conquistato alcuni pozzi petroliferi e buona parte della città di Malakal, capitale dell’Alto Nilo, la più grande regione petrolifera del Sud Sudan.

In precedenza era stato il presidente ad annunciare la riconquista da parte delle forze governative di Bor, la capitale dello Stato orientale di Jonglei, passata la scorsa settimana sotto il controllo della cosiddetta armata bianca, una milizia guidata da Peter Gadet, considerato vicino a Reik Machar. Da Bor c’è stata una fuga in massa di civili verso le basi delle Nazioni Unite, attaccate anch’esse la scorsa settimana, e verso le campagne.

Non si hanno notizie certe, intanto, della situazione a Bentiu, la capitale dello Stato settentrionale di Unity, dove il comandante della quarta divisione dell’esercito, il generale James Koang Chuol, si è schierato con l’ex vicepresidente e ha annunciato la creazione di un’amministrazione ad interim. In un messaggio diffuso martedì scorso dalle emittenti radiofoniche della zona, Chuol aveva detto di controllare la città e di non essere più fedele al Governo di Juba.

Il conflitto ha anche una forte componente etnica. Vede infatti contrapposti reparti dell’esercito di etnia Dinka, quella del presidente, e di etnia Nuer, alla quale appartiere Riek Machar. A questo aspetto ha fatto riferimento anche Ban Ki-moon nella sua relazione al Consiglio di sicurezza, sostenendo che «civili innocenti vengono presi di mira a causa della loro appartenenza etnica».

Nella capitale Juba sono arrivati ieri mattina il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, e il primo ministro dell’Etiopia, Hailemariam Desalegn, per tentare una mediazione.

Sempre nel giorno di Natale, è stata teatro di feroci scontri anche Bangui, la capitale della Repubblica Centroafricana. Gli operatori della Croce Rossa hanno recuperato il giorno dopo almeno 44 cadaveri dalle stradeGeorgios Georgantas, capo della delegazione del Comitato internazionale della Croce Rossa, ha detto che i cadaveri sono probabilmente solo una parte di quanti sono rimasti uccisi, ma che i suoi uomini non sono stati in grado di avere accesso ad alcune parti della città. Già lunedì scorso, la Croce Rossa aveva riferito del ritrovamento di altre sessanta persone uccise.

Negli ultimi scontri sono stati uccisi anche sei soldati del contingente del Ciad della Misca, la missione originariamente inviata dai Paesi confinanti e passata da una settimana, per mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu, sotto l’autorità dell’Unione africana. A Bangui sono dispiegati anche milleseicento soldati inviati dalla Francia. Né questi ultimi né i contingenti africani sono capaci di contenere la nuova ondata di violenze nell’ultima settimana.

Un appello alle Nazioni Unite a dispiegare «in tutta urgenza» un’adeguata forza di interposizione è stato rivolto congiuntamente dall’arcivescovo di Bangui, Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, e dall’imam della capitale centroafricana, Omar Kobine Layama. La Repubblica Centroafricana «resta sull’orlo di una guerra con connotati religiosi e noi temiamo che in mancanza di una risposta internazionale più decisa il nostro Paese sia condannato alle tenebre» scrivono i due leader religiosi.

Anche la tormentata regione orientale congolese del Nord Kivu è stata teatro il giorno di Natale di un’ennesima strage di civili. A rendersene responsabili sono stati in questo caso i ribelli ugandesi delle Forze alleate democratiche -Esercito nazionale per la liberazione dell’Uganda (Adf-Nalu), uno dei tanti gruppi armati stranieri che l’intricata concatenazione tra le diverse crisi della regione dei Grandi Laghi ha riversato in territorio congolese.

La brigata d’intervento rapido della Monusco, la missione dell’Onu nella Repubblica Democratica del Congo, ha ripreso oggi il controllo del villaggio di Kamango, nella zona di Beni, non distante dal confine con l’Uganda. Il villaggio era stato occupato mercoledì mattina per alcune ore dalle Adf-Nalu. Nel darne notizia, Radio Okapi, l’emittente considerata espressione appunto della Monusco, cita il portavoce della missione, Félix Prosper Basse. Questi non ha fornito informazioni sul numero delle vittime dell’incursione, limitandosi a dire che «attacchi del gruppo ribelle ugandese hanno provocato l’uccisione di gente innocente e un massiccio spostamento di popolazione civile verso il confine con l’Uganda». In precedenza, comunque, fonti della società civile locale avevano parlato di quaranta morti e diverse decine di feriti, almeno dieci dei quali in modo grave. Già il 13 e 14 dicembre, la Monusco aveva riferito di almeno venti morti in due villaggi del territorio di Beni, la cui responsabilità era stata attribuita anche in quel caso alle Adf-Nalu.

Nel nor-est della Nigeria una cruenta battaglia è stata ingaggiata alla vigilia di Natale tra le forze governative e miliziani di Boko Haram, il gruppo di matrice fondamentalista islamico responsabile da quattro anni di sistematiche violenze nella zona che hanno provocato migliaia di morti, in maggioranza civili. Secondo quanto comunicato dall’esercito, nello scontro sono morti cinquanta miliziani di Boko Haram, quindici soldati e cinque civili rimasti coinvolti. È accaduto nello Stato del Borno, uno dei tre, con lo Yobe e l’Adamawa, dove dal maggio scorso è in vigore lo stato d’assedio dichiarato dal presidente nigeriano Goodluck Jonathan. All’inizio di novembre il Parlamento federale di Abuja ha rinnovato il provvedimento presidenziale per sei mesi, fino a maggio 2014.

L’esercito aveva avviato un’operazione contro Boko Haram dopo che i combattenti del gruppo avevano attaccato una settimana fa un campo militare a Bama, appunto nello Stato del Borno. I soldati hanno intercettato i miliziani di Boko Haram mentre stavano tentando di varcare il confine con il Camerun.

 

 

L'Africa, come spesso, risulta in testa alla triste classifica delle situazioni belliche, ma non è certo l'unico continente nel quale parlino le arti. Per fare solo l'esempio attuale più recente, anche in Siria, i giorni del periodo natalizio sono stati segnati da un'intensificazione del conflitto, mentre il confronto diplomatico in vista della conferenza internazionale di pace, conosciuta come Ginevra 2 e fissata per il 22 gennaio prossimo, non sblocca ancora contrasti e incertezze. Secondo organizzazioni non governative considerate vicine all'opposizione al presidente Bashar Al Assad, i bombardamenti governativi su Aleppo hanno provocato in dieci giorni, tra il 15 e il 24 dicembre incluso, oltre quattrocento morti, compresi 117 bambini e 34 donne.

Si esaspera anche la componente pseudoreligiosa del conflitto, con le popolazioni cristiane sempre più vessate dalle formazioni armate di matrice fondamentalista islamica. Ha qyuesto tipo di violenze ha fatto riferimento anche il cardinale Béchara Butros Raï, patriarca di Antiochia dei Maroniti, in un messaggio alla vigilia di Natale nel quale ha rinnovato l'appello, tra l'altro, per la liberazione delle suore sequestrate il 2 dicembre nel villaggio di Maalula e dei due vescovi ortodossi di Aleppo, il greco-ortodosso Boulos Yazigi e il siro-ortodosso Youhanna Ibrahim, rapiti nei pressi di Kafr Dael, nel nord della Siria, lo scorso 22 aprile. Nel messaggio, il cardinale Raï sottolinea come «costruire la pace in Libano e in Oriente rappresenti una responsabilità cruciale che tutti dobbiamo assumerci» e come «un popolo non possa godere della pace fin quando altri ne saranno privati».