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L'espansione dell'influenza cinese

La cavalcata

imperiale

del dragone

 

Ottobre 2018

Gran parte degli analisti di geopolitica, occidentali e non solo, denunciano da tempo un'espansione predatrice cinese che soprattutto in Africa mette le mani sulle risorse del continente, accaparrandosi terre e materie prime e sfruttando le popolazioni, senza scrupolo di finanziare qualche spietato dittatore. In pratica, applicando la lezione di secoli di capitalismo. A giudizio di chi scrive, però, la questione è un po' più complessa e magari persino un po' più inquietante.

Dopo secoli di sostanziale irrilevanza, la Cina tornò ad affacciarsi nella politica mondiale con la seconda guerra mondiale e con la fine, almeno formale, del colonialismo occidentale. Nei successivi decenni della guerra fredda, nonostante la comunanza di sistema politico, Pechino non fu mai del tutto alleata di Mosca e dopo il crollo dell'Unione Sovietica ha dimostrato di saper giocare la partita della cosiddetta globalizzazione, con politiche commerciali molto pervasive. Il tutto, tra l'altro, evitando di intervenire direttamente – le forniture di armi sono un altro discorso – nell'infinito numero di guerre che nell'ultimo trentennio hanno invece coinvolto gli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu, Stati Uniti, Russia, Francia e Gran Bretagna.

Del resto è quanto ha fatto l'altro grande soggetto internazionale, l'Unione europea (alla quale non a caso Washington continua a chiedere più spesa in armamenti). Con la sostanziale differenza di un approccio diametralmente opposto sulle cruciali questioni della rappresentanza democratica, della tutela dei diritti e dell'affermazione dello Stato sociale, mai esistite in Cina, mentre nell'Ue hanno visto la loro maggiore espressione, almeno fino a quest'ultimo periodo nel quale torna con virulenza la malattia del nazionalismo - o del sovranismo, come si dice ora - che in Europa ha sempre generato guerre e miseria.

Senza le macchie storiche occidentali dell’imperialismo coloniale, della schiavizzazione e della depredazione delle risorse dei popoli asserviti, la Cina trova meno resistenze al proprio colonialismo di mercato e anzi ottiene spesso il beneplacito di popolazioni locali convinte che possa contrastare sottosviluppo e miseria, in una nuova declinazione del vecchio assioma capitalista secondo il quale se aumentano i banchetti dei ricchi aumentano anche le briciole per i poveri. Senza pretesa di esportare modelli di democrazia, né preoccupandosi di questioni umanitarie, la Cina trova quanto serve alle proprie esigenze demografiche e di mercato, comprese le terre agricole che le sono indispensabili, con il cosiddetto land grabbing che meriterebbe un intero discorso a parte. In proposito, va sfatata l'idea che la Cina cerchi soprattutto materie prime: gli investimenti cinesi nel settore estrattivo sono infatti circa il 28% del totale (per gli Stati uniti il 66%). Pechino si espande soprattutto attraverso società di costruzione e scambi commerciali, trovando mercati per i propri prodotti in Stati molto popolosi come l’Etiopia o la Nigeria.

E va ridimensionata l'idea che le aziende cinesi in Africa impieghino soprattutto lavoratori cinesi. Secondo il FOCAC, il Forum sulla cooperazione tra Cina e Africa, gli immigrati cinesi in Africa sono in tutto un milione e i lavoratori locali impiegati dalle aziende cinesi sarebbero i quattro quinti del totale. Tuttavia, alla creazione di molti posti di lavoro fanno riscontro condizioni pesanti e orari proibitivi, per non parlare dello sfruttamento del lavoro minorile soprattutto nel settore estrattivo, denunciato da diverse Organizzazioni non governative. Inoltre, la penetrazione cinese in alcuni casi sta azzerando la concorrenza di aziende locali, per esempio nell’industria tessile in Nigeria.

Va aggiunto che gli investimenti di Stati Uniti e molti altri Paesi sono soprattutto privati, con l'obiettivo cioè del guadagno a breve termine, al contrario della Cina che con una politica di credito accomodante e d’investimento lungimirante, ha preso il controllo dei principali settori economici e strategici in gran parte dei Paesi africani, dove detiene ormai più del 65% dei contratti di infrastrutture e amministra le grandi imprese minerarie, petrolifere, di telecomunicazioni ed energetiche. Nel solo 2016 gli investimenti - di economia reale, non finanziari - delle imprese cinesi in Africa sono cresciuti del 31 per cento. Il tutto con un pragmatismo presentato come scelta del non interventismo politico. A rendere più attrattivi gli investimenti e gli aiuti cinesi per molti Stati africani è infatti la loro assenza di condizioni: a differenza dell’Unione europea, la Cina non chiede riforme o il blocco di flussi migratori, ma offre supporto economico con l'unica contropartita, almeno in apparenza, dell'apertura dei mercati ai suoi prodotti e alle sue aziende. Ma quasi tutti i suoi interventi nelle infrastrutture, per non parlare di alcune limitate ma significative presenze militari fuori dai suoi confini, rientrano nel programma della cosiddetta nuova via della seta, volto a realizzare un'egemonia in tutti i mercati mondiali.

Ciò detto, il conclamato non-interventismo cinese non riesce a mascherare una tendenza egemonica più complessa. Pechino detiene la maggior parte del debito di molti Stati ed è un loro partner commerciale irrinunciabile, il che costringe molti Governi del continente a mantenersi strettamente legati alla Cina anche da un punto di vista politico. È vero che questo vale anche per il debito statunitense, ma i Paesi africani – e non solo - non hanno la potenza militare degli Stati Uniti e certo non si potrebbero permettere l'idea di Trump di imporre dazi alla Cina e di considerare l'Ue nemica perché non intende adeguarsi.

Non diversa, seppure finora meno incisiva, appare la situazione in America Latina, dove gli investimenti cinesi hanno da tempo superato i duecento miliardi di dollari. Oggi la Cina è il maggior partner commerciale di Brasile, Perù e Cile. Peraltro, nonostante che i guadagni, forti nel periodo iniziale, negli ultimi anni non siano stati redditizi. In particolare, la tendenza al ribasso dell'economia nella regione ha colpito alcuni progetti a breve termine. Il che, comunque, non minaccia più di tanto la strategia globale di Pechino, che punta soprattutto a investimenti di lungo periodo, come infrastrutture e turismo.

Più complesso, infine, è il rapporto con l'Unione europea. A luglio si è tenuto a Pechino il 20° Ue-China Summit, pochi giorni dopo l'affermazione di Trum sul fatto che il vero nemico degli Stati Uniti sarebbe proprio l'Ue. Non a caso la dichiarazione finale firmata dal presidente della Commissione europea Juncker e dal premier cinese Li Keqiang fa riferimenti costanti ai mercati aperti, liberi, trasparenti – in contrapposizione al protezionismo di Trump – e c'è un protocollo allegato sulle questioni climatiche e sull'attuazione del Trattato di Parigi, firmato da Obama e dal quale Trump si è defilato. Il tutto accompagnato da lusinghieri giudizi sulla Wto, l'organizzazione mondiale del commercio, criticata da Trump e alla quale la Cina si è appellata proprio per i nuovi dazi statunitensi alle sue merci. Così come viene riconosciuto il ruolo cruciale della Cina nel contenimento della pluridecennale e sempre pericolosa situazione nella penisola coreana. Di contro, ci sono solo vaghi e non espliciti riferimenti alla collaborazione in materia dei diritti umani e della recente e talora brutale stretta cinese sulle crisi interne e nessuno sulle presenze militari cinesi all'estero.

Ma a emergere davvero è il successo ottenuto da Pechino sul dissidio che aveva impedito di arrivare a una dichiarazione comune nei precedenti due vertici, cioè la questione del Mar cinese meridionale, che la Cina rivendica come proprio spazio esclusivo. Stavolta, senza fare alcun cenno alle contestate - quanto meno in Asia - operazioni militari cinesi nell'area, l'Ue ”riconferma la sua One China policy”, accettando che Taiwan venga considerata una sorta di provincia cinese.

Da un lato, il “cedimento” europeo potrebbe attribuirsi proprio al timore che la strana allenza tra gli Stati Uniti di Trump e la Russia di Putin finisca per scardinare alcuni caposaldi dell'Ue stessa. Ma c'è altro. Prima dell'incontro a Pechino, Li Keqiang era stato in Germania, che nella Cina ha il principale partner commerciale, e oltre a stringere accordi per circa venti miliardi di euro, aveva consentito alcuni investimenti di aziende tedesche in territorio cinese, venendo meno alle restrizioni che di solito pone all'ingresso di soggetti stranieri sul suo mercato interno.

A questo si aggiunge una novità riguardo al cosiddetto16+1, il dialogo nato nel 2002 tra Cina e i Paesi dell'Europa orientale (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia), da sempre sospettato dall'Ue come un tentativo cinese di erodere la propria compattezza. Subito prima di recarsi in Germania, Li Keqiang aveva parteciparo a una riunione del 16+1 e stavolta aveva fatto chiaramente intendere agli interlocutori, soprattutto a quelli membri dell'Ue europea, che la Cina non ha alcun interesse a quelle politiche sovraniste che minacciano i buoni rapporti tra Pechino e Bruxelles e che i rubinetti aperti si possono sempre chiudere.