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La polemica sui musulmani a Messa

Insieme per pregare

Insieme per agire

 

agosto 2016

La partecipazione di musulmani alla messa accolta con gioia dagli episcopati francese e italiano lo scorso luglio, dopo l'uccisione a Ruen di un sacerdote cattolico, padre Jacques Hamel, da parte di uno squilibrato che lo ha accoltellato sull'altare, ha suscitato tra i fedeli delle due comunità religiose ampi consensi, ma non ha mancato di sollevare polemiche.

Per la verità, alcune di queste ultime non sono del tutto campate in aria. Dialogo interreligioso non è infatti sincretismo, né certo il sacrificio eucaristico è riconducibile a una manifestazione sia pure nobilissimana di condanna del terrorismo. La questione non è nuova. Basti pensare che quando Giovanni Paolo II convocò per la prima volta gli incontri interreligiosi ad Assisi fu da molti specificato che non si trattava di pregare insieme, ma di essere insieme per pregare. Non si tratta di un gioco di parole, ma della coscienza che l'appartenenza religiosa non può essere banalizzata.

Cosa diversa – e grave – è però strumentalizzare la religione per cementare le fragili identità. Il fondamentalismo religioso, il terrorismo di matrice religiosa, sono figli di questa identità fragile che non cerca confronti, ma cerca nemici. Così come suoi figli sono le invettive e la demonizzazione, la chiamata all’identità sotto bandiere al vento spesso neppure proprie, quando non manifestamente inventate. I forsennati appelli dell'Isis a “colpire gli infedeli” non sono concettualmente diversi dalle chiamate alle armi contro “l’Islam terrorista”. Entrambi costruiscono un futuro ancora più fosco, non solo prevedono, ma auspicano ed aiutano l’esplodere sanguinoso e generalizzato di uno scontro tra civiltà, culture e anche mondi religiosi.

I molti conflitti che costellano oggi i continenti, nascono ferite profonde, inferte dal colonialismo politico o economico, da dittature corrotte e da mercanti spregiudicati, da vere e proprie rapine di materie prime e da giochi strategici mascherati, da strumentalizzate rivendicazioni etniche. Non mancano anche riferimenti religiosi, che sacralizzano le cosiddette “giuste ragioni” della guerra. La guerra che costituisce un affare per i potentati finanziari sempre più rapaci e che rappresenta sempre una tragedia per i popoli.

Il passo successivo è il terrorismo di matrice non più ideologica, ma religiosa. E occorre chiedersi se esiste da esso una difesa possibile sul piano della forza o della tecnologia. La domanda più semplice, ma al tempo stesso meno posta è quella se è possibile fermare un uomo deciso a morire pur di uccidere perché convinto che glielo abbia ordinato Dio. La risposta è no, non è possibile. Non ci sono controlli, polizie, occupazioni militari in grado di riuscirvi. Anzi, combattere il terrorismo è spesso un pretesto e quelli che sono invocati come strumenti sono in realtà degli obbiettivi. C’è un solo modo per fermare quell’uomo: convincerlo che Dio non è d’accordo con lui. Il suo di Dio.

Questo è lo scopo che ispira, questa è la convinzione che sostiene gli incontri interreligiosi e, in senso lato, l’ecumenismo. Occorre allargare questo confronto, finora praticato soprattutto tra gerarchie o tra gruppi più eticamente motivati, alla realtà civili, alle opinioni pubbliche spesso disorientate da una propaganda pervasiva di soggetti politici beceri che trova ampie complicità sui mezzi di comunicazione sociale.

In questo la presenza di musulmani alla messa dopo un gesto folle e atroce come quello compiuto a Ruen è stata una scelta di civiltà e d'amore.

Del resto non è certo la prima volta che feli di una religione partecipano a celebrazioni di religioni diverse. Accade abbastanza spesso, soprattutto nei luoghi dove maggiore è la necessità di rispondere con gesti di pace al terrorismo fondamentalista di matrice religiosa. Nella Nigeria insanguinatada da Boko Haram, per fare solo un esempio, le popolazioni cristiane e nusulmane sono entrambe vittime di quel terrorismo (che per inciso uccide molti più musulmani che cristiani) e si moltiplicano anche questo tipo di gesti di solidarietà tra le diverse comunità.

E per restare a casa nostra, tra i volontari che si sono mobilitati per prestare soccorso ai terremotati in Italia centrale ci sono diversi musulmani, compresi alcuni immigrati. Il che non ha impedito a qualche idiota in cerca di una comparsata sui giornali o in televisione, di chiedere di cacciare gli immigrati dalle strutture abitative che talora li ospitano per far posto ai terremotati stessi.

In Italia per fortuna siamo ancora, appunto, a livello di idiozia, per ora senza conseguenze di ferocia diffusa. Ma giova ricordare come il considerare il diverso, ogni diverso, un potenziale nemico sia demenziale e apra la strada alla penetrazione di un odio contro il quale non c'è difesa.

Questo atteggiamento di incuria e di miopia - e anche di egoismo - non riguarda solo gli eventi spaventosi, investe anzi l’esperienza quotidiana di ciascuno di noi. Occorre rifiutare ogni ipocrisia del perbenismo: questo atteggiamento o lo si condanna in todo o lo si assolve fino alle sue estreme conseguenze. Se lo scopo, l’obiettivo, e la volontà autentica sono quelli di non toccare niente del nostro modo di vita e di limitare al massimo i danni della convivenza, occorre essere chiari e ammettere che è di troppo anche un solo immigrato in più, compresa la nostra domestica o la badante dei genitori che non ci teniamo in casa. E dato che comunque arrivano, allora persino le guerre, i genocidi, lo sterminio di intere generazioni di africani per malattia lungi dal costituire motivo di inquietudine, di sdegno, di sofferenza per noi che ne siamo risparmiati, devono apparire al contrario un’opportunità da guardare con occhio ammirato.

Di globalizzazione oggi parlano tutti, anche se con significati diversi. Di fatto oggi di globalizzato c'è soprattutto una finanza rapace che perverte l'economia reale e che ha creato una nuova, gigantesca questione sociale. La globalizzazione richiede dunque di essere conosciuta e governata, affinché non degeneri ancora di più in sfruttamento degli uni sugli altri e in rancori, preludi di nuovi conflitti. Perchè ai muscoli si risponde con i muscoli, con le armi. Al terrore si risponde con il terrorismo, magari in nome di Dio.

Di contro, un artigianato di pace ha come suo principale strumento di lavoro il dialogo. Questo non significa certo nascondere i problemi e le difficoltà che esistono nel colloquio e nella vita tra i diversi mondi. Tutti siamo stanchi, dopo una lunga esperienza storica di dolore, di nuove frontiere, di nuovi muri, di barriere, di freddi distacchi e di diffuso disinteresse per le ragioni e per le condizioni dell’altro. Sono ancora anchilosati i passi per varcare il confine tra la pace e la violenza, tra la scelta sofferta del perdono vicendevole e il rancore persistente e doloroso delle ferite. Per questo, alla lungimiranza degli obiettivi deve essere affiancata la pazienza dei piccoli passi.

Anche a questo il dialogo offre una possibile risposta, se non altro perché smaschera le identità superficiali, quelle che cercano il nemico per esistere o, al contrario, fanno facile commercio delle convinzioni. Il dialogo non dimentica i conflitti, ma anzi si propone come strumento indispensabile proprio quando l'incontro tra forme di sentire diverse non è scontato. Ecco perché risulta indispensabile maturare nelle coscienze il riferimento ai valori etici, culturali e religiosi, capaci dì reinventare. in un passaggio epocale come il nostro, un modo di vivere insieme.