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Non solo libertà

Non solo libertà - Pierluigi Natalia

Il mare e soprattutto gli uomini che vi lavorano
In questa sezione, gli articoli di Pierluigi Natalia
dal Congresso mondiale dell'Apostolato del Mare
nel giugno 2007 in Polonia



L’ancora della fede

 

L’ancora della fede

 

PIERLUIGI NATALIA

nostro inviato

GDYNIA (Polonia), 22.

C'è  un'ancora  nello stemma dell'Apostolato del Mare che in questi giorni,  dal 24 al 29 giugno, si appresta a tenere  a Gdynia,  in Polonia, il suo XXII Congresso mondiale,  organizzato dal Pontificio Consiglio della Pastorale dei Migranti e degli Itineranti sul tema «In solidarietà con la Gente del Mare, testimoni di speranza con la parola di Dio, la Liturgia e la Diaconia».  L'ancora, uno dei più antichi segni cristologici, una delle più antiche icone della Croce salvifica, è  un simbolo forte di speranza.  E questo Congresso, come i ventuno che lo hanno preceduto, vuole pensarsi nel segno della speranza cristiana, una speranza capace di ancorarsi al dono della fede e all'impegno della carità per tradursi in forte aspetto  pastorale della Chiesa universale.  Così  come pastorale è il  tema scelto  per offrire  ai partecipanti un approfondimento della spiritualità di questo particolare apostolato, tanto necessario in un'epoca segnata, in mare forse persino più  che in terra, da una crescente  mancanza di speranza.

Sul piano più propriamente sociale di questo impegno, nel precedente Congresso,  quello di cinque anni fa a Rio de Janeiro, emerse altresì  il forte convincimento che anche l'Apostolato del Mare è chiamato a dare un volto umano alla globalizzazione. Dopo cinque anni si avrà  modo non solo di tracciare qualche bilancio, ma di fare un ulteriore passo in avanti, discutendo e approfondendo la comprensione di questa particolare azione ecclesiale  e del suo contributo specifico al mondo marittimo, come hanno sottolineato più volte, in riunioni ed interventi preparatori del Congresso, sia il Cardinale Renato Raffaele Martino sia l'Arcivescovo Agostino Marchetto, Presidente e Segretario del Pontificio Consiglio.

 

Il mare dà  sostentamento

a milioni di persone

 

Non è un tema marginale:  il mare è fonte di sostentamento per gran parte della popolazione mondiale. Oltre quaranta milioni di persone vivono esclusivamente di pesca, mentre nella marina mercantile sono impiegati più di un milione e duecentomila lavoratori,  in maggioranza cattolici che provengono dai Paesi meno favoriti del mondo. Per via marittima si svolge oltre il novanta per cento del commercio mondiale. Si tratta, dunque, di un settore vastissimo e, al tempo stesso, di uno dei lavori più pericolosi al mondo, come dimostrano le quotidiane notizie di catastrofi in mare e di perdita di vite umane.

Sul piano internazionale, i necessari progressi in questo campo si registrano con un'esasperante lentezza, sebbene sia proprio questa l'industria da considerare maggiormente globalizzata. L'Ilo, l'organizzazione internazionale del lavoro, ha approvato un'importantissima  convenzione sul lavoro marittimo, ma tardano ancora le ratifiche del necessario numero di Paesi per rendere operante questo strumento pensato per migliorare la condizione della gente di mare. Inoltre, sono finora mancati i voti necessari ad approvare un'apposita convenzione internazionale sulla pesca, soprattutto perché  quanti controllano questa come altre industrie — privati, ma anche Stati — tendono a economizzare a tutti i livelli, compreso quello umano.

Questo rivela una visione non solo ingiusta, ma anche miope, dato che par far funzionare questo settore occorrono grande professionalità,  coraggio e sacrifici da parte dei marittimi, i quali ritengono a giusto titolo che il loro contributo all'economia mondiale non sia sufficientemente riconosciuto, né adeguatamente retribuito. Paradossalmente, mentre il concetto di equità trova sempre più spazio del dibattito internazionale sul commercio mondiale, lo stesso concetto fatica ad essere esteso alle condizioni di vita dei lavoratori del mare, che ne costituiscono una componente essenziale.

Dire che la globalizzazione è  un fenomeno irreversibile non basta. Così  come non è sufficiente sottolinearne i benefici, che pure nel settore marittimo non mancano. Si pensi, in proposito,  alle nuove opportunità di lavoro che la diffusione di tecnologie avanzate offre, soprattutto al settore della pesca, e più ancora  allo sviluppo della cooperazione internazionale e all'incremento di informazioni e di comunicazioni utili a spezzare quell'isolamento che da sempre rappresenta una caratteristica specifica dei marittimi.

 

Crescente  sfruttamento

dell'uomo e dell'ambiente

 

Ma a tali vantaggi si accompagnano pericoli crescenti, compresi quelli di nuove forme di colonizzazione e di sfruttamento della gente del mare. Inoltre, quelle medesime tecnologie consentono una riduzione degli equipaggi che si traduce spesso in turni di lavoro estenuanti, oltre che  in soste nei porti sempre più  ridotte dalla sfida della competitività  e che portano ad un aumento di fatica, di tensione e di incidenti.

Così come ad interpellare  la politica,  l'organizzazione della convivenza umana,  la coscienza comune, è  oggi sempre di più  la situazione della pesca, con l'impoverimento del patrimonio ittico, la miseria crescente dei pescatori, il trattamento ingiusto loro riservato, la loro sempre più  inquietante condizione anche sul piano sanitario. Le condizioni a bordo dei pescherecci spesso rasentano livelli disumani, mentre mancano spesso sui battelli un appropriato equipaggiamento di salvataggio e di un'adeguata formazione. Al tempo stesso, continua purtroppo il reclutamento illegale degli  equipaggi dei pescherecci, mentre sfruttamento e maltrattamenti sono diffusi. Ci sono, poi, intere comunità  di pescatori migranti irregolari che soffrono continui soprusi.

In estrema sintesi, nonostante che il commercio marittimo goda di un buon periodo di crescita e che la domanda di prodotti ittici abbia raggiunto dimensioni senza precedenti, la globalizzazione  sta mettendo a dura prova per la dignità  di quanti sono impegnati in questa industria, mentre la vita in mare resta ancora difficile e pericolosa. Infatti, la globalizzazione del lavoro  nel commercio marittimo, la pesca illegale, non regolata e non registrata, ma anche regolamenti rigidi che non tengono conto delle necessità   essenziali delle comunità   di pescatori, nuocciono sia al loro lavoro sia all'ambiente marino.

 

Un cruciale compito

di evangelizzazione

 

Si: il mare è  un posto difficile.  Al tempo stesso —  su un piano certo meno drammatico, ma comunque rilevante per la vicenda dell'umanità  del nostro tempo — è in  continuo aumento la navigazione da diporto, sia con le grandi navi da crociera, che arrivano a ospitare 3.500 passeggeri e 1.500 membri di equipaggio, sia con il piccolo cabotaggio, a motore e soprattutto a vela, la cui continua espansione viene ciclicamente favorita (è accaduto anche quest'anno) dall'evidenza mediatica di competizioni come la Coppa America.

Tuttavia, nell'accezione  comune, il mare  è  qualcosa che si guarda da terra, «andare al mare»  significa andare in spiaggia, magari con ore di file in macchine arroventate dal sole estivo, e con costi esorbitanti per ombrelloni, sdraio, cabine, magari in luoghi il cui aspetto naturale è  sempre più  eroso da speculazioni edilizie e commerciali selvagge. Ogni estate, nel nostro Nord fortunato del mondo, si rinnovano in parallelo l'alienazione vacanziera di questo tipo e la tragedia di popolazioni sventurate, dei quei «boat people», gli   immigrati clandestini da Paesi devastati da guerra e miseria e che al mare affidano ogni loro speranza di sopravvivenza e che troppo spesso vi trovano la morte.

Si potrebbe dire, di fronte a tali vicende, che il cristiano è chiamato ad una particolare forma di conversione, a mutare il proprio «punto di vista elettivo»  per guardare, con quei lavoratori, con quei pescatori, con quegli sventurati migranti, la terra dal mare e non il mare dalla terra. Del resto, nella storia dell'evangelizzazione —  si pensi ai viaggi di San Paolo —  il mare ha un ruolo cruciale e fondamentale. Si potrebbe dire che non c'è autentica evangelizzazione se non si è  disposti, come Pietro, a gettarsi nel mare per rispondere alla chiamata del Signore.

 

Un apostolato prezioso

e poco conosciuto

 

Eppure, tra le diverse forme nelle quali la Chiesa adempie alla sua missione, quella che fa specifico riferimento al mare è  tra le  meno conosciute.  E questo accade nonostante che l'Apostolato del Mare sia un'organizzazione con oltre cento centri per marittimi e cappellanie in quasi tutti i maggiori porti del mondo e che proprio in questo settore si registrino commendevoli sforzi di rafforzare il legame tra evangelizzazione e promozione umana, oltre che di influire sulla legislazione internazionale per far avanzare la causa dei più deboli, anche grazie all'opera dei Rappresentanti Pontifici  presso le agenzie delle Nazioni  Unite e in collaborazione con le altre organizzazioni cristiane.

Accanto a tale compito internazionale generale,  c'è  il quotidiano impegno pastorale che si realizza soprattutto nei contatti  personali, nella celebrazione e amministrazione dei sacramenti, nelle visite a bordo delle navi, nella presenza nei porti, sulle piattaforme petrolifere, tra i pescatori, tra i passeggeri e gli equipaggi delle navi da crociera e tra quanti praticano il piccolo cabotaggio.

In quest'ultimo settore, tra l'altro,  la sfida posta alla Chiesa non è tra quelle secondarie. Ad un mondo che vede sempre più aumentare il turismo è  necessario che la Chiesa assicuri una presenza capace di renderlo meno espressione di mero consumismo o di estraniazione dalla vita quotidiana, di  inspirarvi uno spirito nuovo e di offrire  occasioni per nuovi incontri con Dio e con le donne e gli uomini di altre culture e religioni. In questa visione di un turismo capace di contribuire al dialogo tra le civiltà,  speciali responsabilità  avrebbe un laicato maturo, capace di assumere un ruolo essenziale in questa sorta di nuova evangelizzazione.

Se si volesse ricercare un motto, un programma, un'identità  di quanti in questo apostolato sono impegnati,  il riferimento più opportuno sarebbe probabilmente proprio all'invito del pescatore Pietro: «Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è  in voi». In questo senso, anche l'importanza di un simbolo va sottolineata ed indagata. Non a caso, i marinai non usano l'espressione  tanto spesso erroneamente ripetuta «gettare l'ancora»,  ma la più  corretta «dare fondo all'ancora». Dare fondo alla speranza, agganciare la vicenda di vita ad una tenuta che difenda dallo squasso dei marosi o dal rischio di una deriva senza meta, ma non senza pericolo, è  una lezione ed un'esperienza che ben conosce chiunque vada per mare, per lavoro, per necessità, per desiderio e diletto.

 Per tutti, ma più ancora per i cristiani,  l'ancora è  una certezza in più,  un presidio contro la disperazione, un sostegno alla perseveranza. E si potrebbe aggiungere che una barca alla fonda volge naturalmente la prua alla direzione del vento e, quindi, consente di ridare vela con meno fatica e di riprendere  meglio la navigazione.  Così  come è giusto ricordare che  la rotta tracciata all'Apostolato del mare, in  questo come in ogni tempo,  ha una sua stella per indicarla, quella Maria che nelle litanie è  salutata come Stella Maris.

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