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Vent'anni fa il genocidio in Rwanda

Vent'anni fa il genocidio in Rwanda - Pierluigi Natalia

  

I cento giorni

  

dell'orrore

  

6 aprile 2014

 

Il 7 aprile del 1994 cominciarono i cento giorni più feroci della storia del Rwanda e forse di quella dell’umanità intera dopo la fine della seconda guerra mondiale. Per oltre tre mesi si perpetrò una strage sistematica che il mondo non seppe prevedere, né affrontare, né tanto meno fermare. A fare da detonatore all’esplosione di orrore in cui sfociarono decenni di conflitti tra le etnie hutu e tutsi fu un attentato: il giorno prima erano stati uccisi il presidente rwandese Juvénal Habyarimana e quello burundese Cyprien Ntaryamira, nell’abbattimento del loro aereo che stava atterrando all'aeroporto della capitale rwandese Kigali. Con loro morirono due ministri burundesi, cinque funzionari rwandesi e i tre membri dell’equipaggio francese dell’aereo. I due presidenti rientravano da un vertice di capi di Stato dell'Africa centrale tenuto a Dar-es-Salaam, in Tanzania, e dedicato proprio alla guerra che da anni vedeva contrapposti gli hutu e i tutsi che abitano i due Paesi. A fermare il conflitto non erano valsi neppure gli accordi sottoscritti il 4 agosto dell’anno precedente ad Arusha, sempre in Tanzania, che prevedevano un Governo di transizione a Kigali anche con esponenti del Fronte patriottico rwandese (Fpr), il gruppo armato dei tutsi, quello guidato dall’attuale presidente Paul Kagame.

Nessuna inchiesta internazionale ha mai accertato chi fossero i responsabili dell’attentato. Ma la violenza dilagò subito, prima nella capitale e poi nel resto del Rwanda, contro i tutsi e gli hutu moderati. I soldati hutu della guardia presidenziale si scatenarono nel quartiere di Kigali dove erano alloggiate le milizie dell’Fpr, che ritenevano autrici dell'attentato. Tra le prime vittime ci furono anche dieci caschi blu belgi dell’Unamir, la missione dell’Onu incominciata nell’ot tobre precedente. I militari belgi erano stati catturati mentre cercavano di proteggere la fuga del primo ministro, Aghate Uwilingiyimana, anch’ella uccisa come altri esponenti del Governo. Per cento giorni centinaia di migliaia di donne e di uomini, di vecchi e di bambini furono trucidati in ogni località durante una spaventosa caccia all’uomo. Così come, un anno dopo, fu atroce la vendetta dei tutsi andati al potere. Nel campo di Kibeho, furono trucidati migliaia di hutu, compresi donne e bambini, mentre da Kigali il nuovo Governo rivendicava «il diritto di separare i profughi dagli autori del genocidio». Le forze dell’Onu, dopo aver assistito impotenti al primo, terrificante attacco, riuscirono a portare in salvo migliaia di bambini, spesso trovati accanto ai cadaveri delle madri. Quelle ore hanno segnato per sempre la memoria di chi le ha vissute. Quei bambini non parlavano, non piangevano, alcuni erano impazziti. E vacillò anche la ragione di quanti si prodigarono per rendere quell’orrore, sia pure in minima parte, meno crudele, o di quanti dovettero raccontarlo.

Un aspetto del conflitto tra hutu e tutsi, popolazioni entrambe a grande maggioranza cattolica, non può essere taciuto: quello del coinvolgimento di molti religiosi. Fin dall’inizio il sangue segnò la Chiesa rwandese, spesso con il colore del martirio, ma talora — ed è qualcosa che ancora sconvolge — macchiando mani colpevoli. Non a caso, ricevendo proprio questa settimana i vescovi rwandesi, Papa Francesco ha ricordato le «tante sofferenze e ferite, ancora lungi dall’essersi rimarginate» e li ha esortati ad andare «risolutamente avanti, rendendo senza posa testimonianza alla verità», sottolineando che «la Chiesa ha un posto importante nella ricostruzione di una società riconciliata».

Un’impressione amara si diffuse nelle coscienze in quella primavera del 1994. Ma la comunità internazionale non colse immediatamente la spaventosa portata degli avvenimenti. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu si limitò a sollecitare l’allora Segretario generale, Boutros Boutros-Ghali, a «prendere le misure necessarie per assicurare la sicurezza» dei cittadini stranieri in Rwanda. Un decennio dopo Kofi Annan, il successore di Boutros-Ghali che nel 1994 era responsabile delle missioni militari dell’Onu, ammise di aver lui stesso sottovalutato la situazione. Così come un anno dopo, nel luglio del 1995, i caschi blu francesi dell’Onu si dimostrarono impotenti davanti a un altro genocidio, quello di Srebrenica, in Bosnia ed Erzegovina. Del resto, neppure la tragica vicenda balcanica aveva davvero coinvolto il nord ricco e potente del mondo, dove si vivevano gli anni della fine del bipolarismo est-ovest con un sollievo che i decenni successivi si sarebbero incaricati di dimostrare immotivato.

Quanto si preparava e poi si attuava nei Balcani e nei Grandi Laghi colse impreparata la comunità internazionale. Eppure quelle immagini, quelle notizie di massacri, di lager che vedevano incatenati uomini concreti e la dignità stessa dell’uomo, di fosse comuni dove si seppellivano cadaveri e la stessa umanità, non erano nuove. Non erano tanto inaudite da sembrare incredibili. Accadeva di nuovo, come era accaduto cinquant’anni prima in Europa. La cronaca proponeva evidenze crude e risuscitava memorie dolorose. Ma questa insistenza della memoria non seppe farsi compassione attiva, riflessione attenta, vigilanza sollecita. Tramontava come era vissuto, consegnando i suoi orrori al duro giudizio della posterità, un secolo segnato dalle atrocità, il secolo che aveva inventato i lager, le pulizie etniche, i genocidi sistematici, che aveva proposto l’epidemia ricorrente dei totalitarismi, che aveva devastato la fisiologia delle Nazioni con la patologia dei nazionalismi, che aveva tramutato l’identità etnica nella maschera ghignante del razzismo.

Vent’anni dopo, in questo inizio del millennio, quei mostri sono ancora presenti e spesso trionfanti. «Non dimenticheremo mai che più di 800.000 persone innocenti sono state selvaggiamente uccise. Rendiamo omaggio al coraggio e alla capacità di recupero dei sopravvissuti», ha detto l'attuale Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che domani sarà a Kigali per la cerimonia di commemorazione. Ban Ki-moon ha elogiato «la determinazione dei rwandesi a rigenerare il loro Paese e gettare le basi per un futuro sicuro e prospero». Ha però aggiunto che la battaglia non si ferma qui, perché bisogna continuare ad agire per impedire altri simili orrori, in particolare nella regione dei Grandi Laghi, «dove l’impatto del genocidio si fa ancora sentire». Il nostro passato, il nostro ieri più recente, il nostro oggi, sono uguali. Identiche immagini, identiche notizie fanno da testimoni d’accusa per chi usa l’identità delle Nazioni come una spada contro le minoranze etniche o sociali o religiose, come un grimaldello per scassinare i forzieri della storia e per derubarli della memoria, per chi mistifica i popoli con un sedicente progresso senza diritti, con pacificazioni solo presunte perché senza giustizia e senza verità. Ban Ki-moon ha ragione: un anniversario serve a fare memoria. Ma una memoria che non insegni è solo un inutile formalismo.