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Il 2018 si apre con qualche luce tra le molte ombre

Il 2018 si apre con qualche luce tra le molte ombre - Pierluigi Natalia

 

Segnali timidi

di pace

 

30 dicembre 2017

Al cantiere della pace mancano ancora, all'arrivo di questo 2018, risorse e forse progetti concreti che offrano prospettive di reale successo. Tuttavia, quanti vi lavorano e quanti a quel lavoro guardano con ostinata speranza intravedono qualche timida luce tra le molte ombre persistenti. Gli esempi, a saperli leggere, non mancano.

Uno ne offre la situazione palestinese, la “madre di tutte le crisi mediorientali”, con l'annuncio arrivato lo scorso novembre della disponibilità di Hamas, il movimento islamista che controlla la Striscia di Gaza dal 2007, a fare passi avanti verso l’unità della Palestina, a scioglierela cosiddetta “commissione amministrativa”, l’organismo rivale del Governo dell'Autorità nazionale palestinese guidata dal leader di Al Fatah, Abu Mazen, e a indire elezioni.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Donald Trump, nell'incuria della realtà palestinese, per non parlare delle posizioni dei rappresentanti del cristianesimo e dell'islam per i quali la città è sacra quanto per l'ebraismo, minaccia di vanificare questo inizio di ricostituzione dell'unità del popolo palesinese o, peggio, di ricompattarlo sul piano di una nuova intifada, con tutte le conseguenze del caso. Tuttavia, persistere sullo quello sforzo di dialogo potrebbe aiutare a fronteggiare le sfide di una situazione fattasi più precaria, sia sul piano interno, sia su quello internazionale, con il sostanziale disimpegno statutinense dal progetto dello Stato palestinese da costituire accanto a Israele. E tutti hanno chiaro come senza una vera pace tra israeliani e palestinesi sarà impossibile risanare le condizioni di Medio Oriente e Nord Africa, compresa la guerra in Siria, giunta al suo settimo anno, quella nello Yemen che si protrae da quasi quattro, e la situazione in Libia.

Di “primi segnali positivi in materia di pace” parla anche il rapporto annuale “Global Peace Index 2017” (GPI, Indice della Pace Globale) pubblicato sempre in novembre. Il GPI, realizzato da oltre un decennio dall’Istituto per l’Economia e la Pace, con sede a New York, ha analizzato la situazione in 163 Paesi con il 99,7% della popolazione mondiale. In 81 la situazione è migliorata, ma in altri 79 la crisi mediorientale, le guerre del Nord Africa e della penisola araba, il terrorismo hanno generato un peggioramento di vivibilità. Il che conferma quanto detto sopra.

In ogni caso, sei delle nove regioni in cui è diviso il mondo hanno migliorato il loro indice di pace. L’America Latina è la quarta, dopo Oceania, Unione Europea e Nordamerica. Tra i suoi otto Paesi che hanno migliorato al primo posto figura il Cile, 24º a livello mondiale, seguito da Costa Rica (34º) e Uruguay (35º). Sul lato opposto c’è la Colombia, classificandosi al 146º posto su scala mondiale, preceduta a breve distanza da Messico (142º) e Venezuela (143º). Anche in Colombia, comunque, il processo di pace avviato tra il Governo e le Farc ha migliorato la situazione, soprattutto per la riduzione dell’impatto del terrorismo e il numero di morti. E cioò ha influito anche sui Paesi vicini, come l’Ecuador, dove si è ridotta l’intensità del conflitto organizzato. Ciò nonostante, in Colombia restano molti fronti aperti su cui intervenire, a partire dalle attività di altri gruppi armati, il traffico di droga, le migliaia di persone scomparse.

Così come difficile resta la situazione del Venezuela, che nel 2017 ha visto peggiorare la sua instabilità per le crescenti tensioni tra Governo e opposizione, in concomitanza con una profonda crisi economica e sociale. E si è complicata anche la situazione in Messico che ha subito, oltre ai suoi molti problemi interni come la criminalità diffusa, l’impatto diretto della presidenza di Donald Trump negli Stati Uniti, in termini di relazioni con i Paesi limitrofi.

Più in generale, secondo il GPI, nell’ultimo decennio la caratteristica fondamentale dei Paesi passati a situazioni migliori è stato il loro comportamento in materia di pace positiva, cioè l'insieme di atteggiamenti, azioni e strutture che creano e sostengono le società pacifiche, come Governo efficienti, bassi livelli di corruzione, accettazione dei diritti degli altri, buone relazioni con i vicini, libera circolazione delle informazioni e solidi ambienti imprenditoriali. In altre parole, appunto, il lavoro dei cantieri della pace. Serve cioè, come ha ricordato Papa Francesco nel suo viaggio in Colombia lo scorso settembre, “fare urgentemente un passo verso il bene comune, l’equità, la giustizia e il rispetto”.

Un segnale dell'importanza della società civile in questo compito è venuto anche dal premio Nobel per la pace all’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN), che ha consolidato un’alleanza di oltre 460 Organizzazioni non governative in più di cento Paesi, “per il suo ruolo nel fare luce sulle catastrofiche conseguenze di un qualsiasi utilizzo di armi atomiche e per i suoi sforzi innovativi per arrivare ad un Trattato che le proibisca”. Grazie a un decennio di costanti pressioni, lo scorso luglio si è concluso tra 135 Stati il negoziato per l'adozione del Trattato. Ad oggi, però, solo tre Paesi lo hanno ratificato e per renderlo vincolante ne occorrono almeno cinquantatre. Si è quindi ancora lontani dall'obiettivo, ma il Nobel all’Ican è un segnale politico al mondo e, in particolare, a Corea del Nord, Iran, Stati Uniti e Cina che non hanno neppure aderito al Trattato. Un segnale tanto più significativo, se si pensa, per esempio, che Beatrice Fihn, direttore esecutivo dell'ICAN, non brilla certo per atteggiamenti diplomatici tradizionali e di recente ha dato del “moron” (deficiente) a Trump.

Come altri gruppi di pressione monotematici – si pensi alla International Campaign to Ban Landmines, anch'essa premiata vent'anni fa con il Nobel per la Pace per il suo impegno per la messa al bando delle mine antiuomo e, per inciso, anch'essa guidata da una donna, Jody Williams - anche l'ICAN è un esempio quel lobbismo responsabile i cui effetti positivi nelle società sono riconosciuti anche dalle Nazioni Unite.

Luci meno evidenti in Asia, dove in grandi Paesi come l'India all'aumento del prodotto interno lordo non fa riscontro una reale diminuzione delle condizioni di miseria di milioni di persone, e soprattutto nell'Africa subsahariana, stretta nella tenaglia della fame e della guerra. Alcune crisi si sono stemperate, per esempio in Costa d'Avorio, ma anche negli altri Stati del Golfo di Guinea colpiti l'anno prima dall'ebola. Ma le ombre di quel tragico binomio sono tutt'altro che diradate. Negli ultimi trent'anni l'Onu ha impegnato per sicurezza alimentare e missioni di peacekeeping ingenti finanziamenti (ingenti per modo di dire: in tutto meno del 2% di quanto si spende per le guerre). Ma i risultati non sono stati quelli sperati. Solo nell'ultimo anno, venti milioni di persone sono state uccise dalla carestia. Tre dei quattro Paesi più colpiti sono in Africa: Somalia, Nigeria e Sud Sudan. Il cambiamento climatico influisce sulla carestia, ma il problema principale è legato all’instabilità di questi Stati senza sviluppo economico e sociale e quindi non in grado di combattere la fame. Inoltre, la crisi siriana ha drenato molti degli aiuti umanitari verso il Medio Oriente facendo dimenticare quanto accade in altre zone del mondo.

In Africa ci sono anche il maggior numero di missioni di pace dell'Onu, 9 su 16 totali, con quasi centomila caschi blu, con i contingenti maggiori in Darfur, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centroafricana e Mali. Nonostante tale impiego di uomini e una spesa che nel 2017 ha superato gli otto miliardi di dollari, in tutti questi Paesi i conflitti sono riesplosi. Per non parlare del fatto che in molti teatri di intervento i caschi blu sono finiti sotto inchiesta – e condannati – per comportamenti indegni e criminali, compresi la costrizione di donne a prestazioni sessuali in cambio di cibo.

Più in generale, anche per il peacekeeping non si tratta solo di denaro, ma di modo di impiegarlo. Il Segretario generale dell'Onu, António Guterres, a quanto risulta, sta valutando un approccio che privilegi un lavoro di maggior prevenzione e mediazione e riduca le operazioni di peacekeeping. Si tratterebbe di creare piccole squadre in grado di intervenire nella fase iniziale di un conflitto. Una soluzione che diminuirebbe notevolmente i costi, anche se in certi teatri sarà difficile eliminare del tutto la presenza militare.

Ma resta la necessità di una vera presa di coscienza internazionale sull'orrore della guerra. Una presa di coscienza che si nutre anche e soprattutto di preghiera, come quella guidata a novembre da papa Francesco per la pace in Sud Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo e “in ogni terra ferita dalla guerra”. Il Papa, pur ricordando che per lui “non è stato possibile” recarsi nel Sud Sudan, ha sottolineato che “ la preghiera è più importante, perché è più potente: la preghiera opera con la forza di Dio, al quale nulla è impossibile (…).Il Signore rafforzi nei governanti e in tutti i responsabili uno spirito nobile, retto, fermo e coraggioso nella ricerca della pace, tramite il dialogo e il negoziato. Il Signore conceda a tutti noi di essere artigiani di pace lì dove siamo, in famiglia, a scuola, al lavoro, nelle comunità, in ogni ambiente”.