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Il viaggio nel sud-est asiatico

Il viaggio nel sud-est asiatico - Pierluigi Natalia

 

Starà zitto

Francesco?

 

 15 ottobre 217

 



 

Non si annuncia facile la visita di Papa Francesco tra fine novembre e inizio dicembre in Myanmar e in Bangladesh, un tempo conosciuti con i nomi dati loro dai colonizzatori, Birmania e Bengala. Così come non lo è stata quella in Colombia a settembre. Del resto, non lo sono mai, neppure quando il Papa si reca in una parrocchia romana. Il magistero di qualunque Papa ha sempre un preminente carattere pastorale, ma con accentuata evidenza da quando Giovanni XXIII “uscì dal Vaticano”, dagli anni del Concilio, “pastorale” si declina indissolubilmente con “sociale”. Tanto più oggi, in un'epoca di informazione globale, ma spesso cacofonica e distorcente, dagli interventi di magistero pontificio emerge di continuo la questione cruciale dei diritti dell'uomo sui quali molti vorrebbero che il Papa tacesse o almeno si limitasse ad affermazioni generiche.

In Colombia, l'accordo di pace firmato l'anno scorso - con l'attivo sostegno, tra gli altri, della Santa Sede - tra il Governo del presidente Juan Manuel Santos, che per quell'accordo ha ottenuto il Premio Nobel per la Pace, e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), il più antico gruppo guerrigliero di sinistra dell'America latina, è diventato oggetto di un duro scontro politico. Delle clausolee di quell'accordo, bocciato da un referendum popolare che ha visto prevalere di misura le posizioni dell’opposizione guidata dall’ex presidente Álvaro Uribe, Francesco non ha mai parlato, ma del suo scopo, la ricerca della pace, ha parlato in ogni modo e in ogni tappa.

Il viaggio aveva come motto “facciamo il primo passo” e Francesco di passi e di parole ne ha profusi molti. Denunce inequivocabili non solo della violenza, ma dell'ingiustizia sociale che la provoca e l'alimenta, del traffico di droga, del lavoro negato a milioni di giovani. Abbracci alle vittime delle violenze che per settant'anni hanno insanguinanato il Paese, ma anche braccia aperte a quanti hanno mostrato volontà di rinnegare davvero il proprio passato di carnefici, fossero stati nella guerriglia o nelle feroci milizie paramilitari di estrema destra. «Ci hanno fatto comprendere che tutti, alla fine, in un modo o nell’altro, siamo vittime, innocenti o colpevoli, ma tutti vittime, accomunati in questa perdita di umanità che la violenza e la morte comportano», ha detto il Papa.

Se un cuore ha avuto la visita è stata a «preghiera per la riconciliazione» ai piedi del Cristo nero di Bojayá, mutilato nel 2002 da una bomba in chiesa che uccise un'ottantina di persone. Certo, niente colpi di spugna. Bisogna «accettare la verità di ciò che è accaduto», occorre «raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti scomparsi, confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli operatori di violenza, riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi». Ma «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia» e « non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono». Quel Crocifisso non ha più gambe né braccia, «ma con il suo volto ci guarda e ci ama, per insegnarci che l’odio non ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte e della violenza». Più forte anche in una terra piagata dalla povertà, dal narcotraffico e da un’oligarchia politica in mano a trecento famiglie, con un popolo per metà sotto la soglia di povertà, con almeno un milione di bambini che sopravvivono a stento rovistando tra la spazzatura nelle strade e altri milioni vittime dello sfruttamento del lavoro infantile. 

E se è stato difficile il viaggio del primo Papa sudamericano nella cattolica Colombia, ombre e inquietudini già si proiettano sul prossimo nel sud-est asiatico, un viaggio che molti non vorrebbero proprio o almeno vorrebbero ridotto alla mera componente religiosa, senza che le ragioni del diritto dell'uomo, della giustizia, della dottrina sociale della Chiesa vi fossero ancora una volta riaffermate con forza. Vorrebbero in pratica che Francesco stesse zitto.

Il Papa è atteso in due nazioni nelle quali i cattolici sono minoranze sparuta, poco più dell'1 per cento in Myanmar e circa lo 0,3 in Bangladesh. Ma c'è un'altra minoranza che sembra stargli persino più a cuore: i rohingya, di religione islamica, da anni privi di qualunque diritto nel Myanmar, dove vive la maggior parte della loro comunità, e che negli ultimi tempi hanno visto spesso sbarrate le porte del Bangladesh, Paese in cui l'Islam è religione di Stato, dove migliaia di loro, soprattutto donne e bambini, da sempre cercano rifugio dalle persecuzioni. Né ha cambiato la situazione la (quasi) fine della dittatura militare birmana e l'ascesa alla guida dello Stato di Aung San Suu Kyi, anch'ella premio Nobel per la Pace e per decenni a sua volta perseguitata. Anzi, quest'anno sui rohingya, accusati di una serie di attentati, si è abbattuta una repressione particolarmente sanguinosa dell'esercito, che conserva un forte potere di fatto. E a definirli “terroristi” è la stessa Aun San Suu Kyi, ricevuta lo scorso maggio da Papa Francesco in Vaticano per una visita privata, subito dopo la quale era stata annunciata l'apertura di relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Myanmar.

I comunicati ufficiali, come sempre, sottolineano che il Papa “ha accolto l'invito dei rispettivi capi di Stato e vescovi”, ma questo entusiasmo governativo ed episcopale sembra essersi raffreddato dopo che all'Angelus del 27 agosto Francesco ha invitato a pregare, oltre che per le popolazioni alluvionate del Bangladesh, per i "nostri fratelli rohingya”, chiedendo al Signore "di salvarli e suscitare uomini e donne di buona volontà in loro aiuto, che diano loro i pieni diritti". Per ora, il mutamento politico che ha visto centrale il ruolo di Aung San Suu Kyi non ha cambiato minimamente la condizione dei rohingya, per i quali il Myanmar non ha mai trovato un posto fra le 135 – centotrentacinque ! - etnie e comunità che hanno diritto di cittadinanza nel Paese accanto agli otto gruppi principali.

Quanto ai vescovi, dopo l'Angelus del Papa sono incominciate le prese di distanza. La Conferenza episcopale lo ha invitato pubblicamente a non toccare l'argomento, a conferma delle difficoltà di una Chiesa piccola - non a caso il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, l'ha definita “insignificante” - stretta tra la maggioranza buddista, molti dei cui principali esponenti hanno parlato esplicitamente di “inaccettabile ingerenza papale”, e le tante minoranze con le quali la convivenza risulta difficile.  “La parola rohingya è un tema sensibile nel Paese e sarebbe meglio non usarla”, ha dichiarato all’agenzia Ucanews monsignor Alexander Pyone Cho, arcivescovo di Pyay, la diocesi dello Stato di Rakhine dove abita quella minoranza. Quanto ai recenti massacri, che molte organizzazioni umanitarie internazionali hanno definito una vera e propria pulizia etnica, il vescovo di Bhamo, Raymond Gam, ha dichiarato all'agenzia AsiaNews che “il problema dei rohingya è molto delicato dal punto di vista politico e la scelta delle parole del Papa potrebbe avere un impatto negativo su altre persone. Affermare che i rohingya sono perseguitati può creare gravi tensioni in Myanmar”. Ancora oltre si è spinto il portavoce della Conferenza episcopale, padre Mariano Naing: “Vi sono voci che il Santo Padre visiterà il Rakhine e i rohingya. Questo è sbagliato. Se abbiamo mai bisogno di portare il Santo Padre alle nostre persone sofferenti, lo porteremo ai campi profughi cattolici”.

Al momento in cui questo articolo viene scritto, il programma della visita non è ancora stato reso noto nei dettagli. La Sala stampa vaticana ha solo comunicato che si recherà a Yangon, la principale città del Paese, e a Nay Pyi Taw, la capitale politica, un tempo conosciuta come Burma, dal 27 al 30 novembre, e a Dhaka, la capitale del Bangladesh, dal 30 novembre al 2 dicembre. Per ora non si ha notizia di incontri con minoranze perseguitatate del Myanmar del primo Papa a visitare il Paese. In Bangladesh si erano invece già recati Paolo VI nel 1970, quando faceva ancora parte del Pakistan, e Giovanni Paolo II nel 1986. Di quest'ultima visita, chi scrive ricorda un incontro con una delegazione della Chiesa birmana, all'epoca se non apertamente perseguitata, di certo mal tollerata dalla dittatura militare. Lo scrivemmo in pochi e pochi lo seppero, ma quella volta il Papa non tacque.