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Il film Parasite premiato a Cannes

Platone ribaltato

28 maggio 2019

Parlo oggi di un argomento che non tratto da ben più di quarant'anni: un film, per precisione Parasite (Gisaengchung nel titolo originaletraslitterato dal coreano)   la pellicola del sudcoreano Bong Joon-ho  che tre giorni fa ha vinto la Palma d'oro a Cannes. Alla visione del film mi ha gentilmente invitato l'ambasciata sudcoreana presso la Santa Sede, un gradito cascame di una vecchia amicizia di quando non ero ancora un pensionato, da ricambiare con queste poche righe che mi sono state chieste. E confesso subito il timore di deludere i miei ospiti, se non altro perché non mi è stato facile seguire adeguatamente un film recitato in coreano, sia pure con sottotitoli in inglese (scelta che tra l'altro capisco poco, dato che in quell'ambasciata parlano tutti discretamente l'italiano)

Come detto, è passato moltissimo tempo da quando rimpolpavo con recensioni cinematografiche e teatrali su Sipario il magro stipendio da collaboratore interno (non ancora praticante) de l'Avanti! diretto da Franco Gerardi che di Sipario era editore. Lo schema di allora (soggetto, regia, interpretazione) non si adatta più a spiegare un film. Oggi molto del messaggio è per archetipi resi soprattutto da scenografie e angolazioni di ripresa, se non da effetti speciali ottenuti tecnologicamente (ma in questo caso non mi è sembrato che ci fossero). E io sono sicuramente rimasto indietro, dato che se oggi vado al cinema lo faccio solo da spettatore più o meno rilassato.

Talmente rilassato da non aver ancora capito, dopo la visione del film se si tratti di una commedia nera, di un triller o di un film di denuncia sociale - come da vecchi schemi imparati quarant'anni fa - e neppure in che misura uno degli aspetti prevalga sull'altro. Tra l'altro faccio una certa fatica a seguire quella recitazione a scatti tipica della cinematografia coreana che, mi dicono gli esperti, si sta imponendo ben oltre i confini asiatici, cosa che l'esito di Cannes ha ampiamente dimostrato.

Ci sono però due aspetti che mi hanno colpito, Il primo afferisce al tema della denuncia sociale e a me è sembrato una specie di citazione al rovescio del mito platoniano della della caverna, in questo caso la cantina della villa in cui il film è ambientato. Infatti non sono gli abitanti della caverna a vedere solo il riflesso della realtà esterna, ma sono gli abitanti di questo esterno, ricchi e inconsapevoli, a non vedere che l'esistenza è proprio quella dei seminterrati. Significativo è non solo il disgusto, ma lo stupore del proprietario della villa di fronte al cattivo odore. Il secondo aspetto, corollario del primo, è quello del finale, dove viene frustrata l'unica aspettativa del giovane protagonista, cioè non quella di cambiare la struttura sociale che sembra denunciata da tutto il film, ma uscire dal seminterrato e prendersi un posto importante all'esterno. Infatti, il suo pianto dirotto (ripreso specularmente alla scena d'apertura, questa dalla strada verso la finestra della villa, quello al contrario) ci rivela che è stato solo un sogno l'abbraccio con il padre tornato alla luce e il figlio ormai ricco e potente al punto da essersi comprato la villa.

Il che da un'ulteriore ribaltamento allo schema platoniano. L'abitante della caverna non vede solo le ombre, vede la realtà, ma non la denuncia, sogna solo di trovarvi posto. E comprendendo che il suo sogno è impossibile perché non avrà mai i mezzi per uscire dalla sua situazione, non conclude che quella realtà è antropologicamente sbagliata, ma piange perchè sente che gli è negata l'unica verità che conosce. Ma forse anche questa è una denuncia sociale, magari di un'epoca come la nostra che ruota intorno non ai bisogni e ai diritti primari, ma ai bisogni indotti per moltiplicare i consumi. Ma questa, probabilmente,è solo la proiezione non del film, ma di una mia personale convinzione.

Andrò comunque a rivedere il film quando uscirà nelle sale italiane e forse capirò meglio grazie al doppiaggio.