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Il Papa per la pace in Siria

Il Papa per la pace in Siria - Pierluigi Natalia

Mobilitazione

  

disarmata

  

5 settembre 2013


 

«Le guerre costituiscono il rifiuto pratico a impegnarsi per raggiungere quelle grandi mete economiche e sociali che la comunità internazionale si è data, quali sono, per esempio, i Millennium Development Goals (obiettivi di sviluppo del millennio). Purtroppo, i molti conflitti armati che ancora oggi affliggono il mondo ci presentano, ogni giorno, una drammatica immagine di miseria, fame, malattie e morte. Infatti, senza pace non c’è alcun tipo di sviluppo economico. La violenza non porta mai alla pace condizione necessaria per tale sviluppo». Lo ha scritto Papa Francesco al presidente russo Vladimir Putin, nella sua qualità di presidente del G20, alla vigilia del vertice a San Pietroburgo del 5 e 6 settembre, dal quale si attende, con ostinata speranza, ma con dubbi crescenti, un segnale di svolta sull'incancrenirsi della situazione siriana. Papa Francesco, con questa e altre iniziative, come la giornata di digiuno e preghiera dell'8 settembre – articolata con particolare sforzo nel coinvolgere i non cattolici - non ha fatto nulla di nuovo rispetto ad analoghe circostanze del passato, nonostante quanto scritto da tanta stampa superficiale (si pensi a Giovanni XXIII all'epoca della crisi dei missili a Cuba, a Paolo VI in tante occasioni, a Giovanni Paolo II e al suo “spirito di Assisi”).

Se non nuova, però, è di certo intensa e determinata sotto questo profilo l'azione del vescovo di Roma venuto “quasi dalla fine del mondo”. Non solo Papa Francesco ha parlato più volte della crisi siriana – quello fatto all'Angelus del 1° settembre è stato il più lungo intervento mai pronunciato da un pontefice in un tale contesto, più un'omelia che un appello – ma ha mobilitato l'intera diplomazia vaticana per mettere i suoi sforzi di pace al primo punto dell'agenda. Fra l'altro, proprio mentre in Russia incominciava il G20, il Corpo diplomatico presso la Santa Sede è stato convocato per comunicazioni sulla posizione vaticana. Questa è stata illustrata dall'arcivescovo Dominique Mamberti, il segretario per i rapporti con gli Stati, confermato al suo posto nello stesso giorno, il 31 agosto, nel quale il Papa ha annunciato la sostituzione del segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, con l'arcivescovo Pietro Parolin, uno dei diplomatici vaticani di punta.

Contrariamente a Bertone, che prima di esserne nominato al vertice non aveva precedenti nella diplomazia vaticana, Parolin ha un curriculum impressionante per quanto riguarda non solo i rapporti con gli Stati, ma l'azione della Santa Sede nei consessi internazionali. Tra l'altro, pur essendosi a lungo dedicato al Medio Oriente e all'Asia in generale, il suo primo incarico da nunzio apostolico, cioè da ambasciatore del Papa, quello da quale è stato richiamato a Roma, si è svolto dal novembre del 2009 in Venezuela, dove ha lavorato con successo per ristabilire un clima di fiducia tra la Chiesa e il Governo, prima del defunto presidente Hugo Chávez e poi del successore Nicolás Maduro, soprattutto sul terreno comune della giustizia sociale e della lotta alla miseria.

Anche questi passi dimostrano in Papa Francesco una determinazione certo ecclesiale, ma insieme tutta politica, nel senso alto del termine. A un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino, il Papa denuncia con forza la deriva del liberismo trionfante, le devastazioni di una sedicente globalizzazione che di realmente globale ha solo il primato arrogante di una finanza anonima e incontrollata sull'economia reale, sul lavoro. Del resto, la dottrina sociale della Chiesa è una delle poche elaborazioni culturali fondate sull'attenzione ai diritti di tutti che cerchi ancora di levare la sua voce. Di certo, arretra il riformismo o, almeno, non trova più lo spazio per affermare la sua ragion d'essere, cioè la capacità di interpretare i bisogni e di elaborare risposte alle necessità. Non a caso, tra i primi a cogliere il significato degli interventi del pontefice c'è stato il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, che ha sottolineato di aver accolto «con favore l’appello del Papa per una pace in Siria fondata sul dialogo e sui negoziati, e il suo appello per una giornata di preghiera e digiuno per la Siria. Questi gesti possono dare un contributo importante e utile alla pace».

Al momento in cui questo articolo viene scritto, non è ancora chiaro se e quando il già tragico conflitto siriano assumerà dimensioni ancora più spaventose. Ma comunque la questione siriana ha già suscitato dubbi anche su colui che del riformismo era ritenuto il massimo campione in questo decennio, quel Barack Obama al quale era stato dato addirittura un premio Nobel per la pace “sulla fiducia”. La deriva di un Obama riluttante verso l'intervento armato colpisce quanti – ed erano in tanti nel mondo – di quella fiducia si sentivano partecipi. E dà da pensare come più che delle conseguenze in sé, il capo della Casa Bianca sembri preoccupato solo della certezza delle accuse ad Assad, sulle quali consigliano prudenza i precedenti storici, dato che per giustificare l’attacco anglo-statunitense all’Iraq nel 2003 gli Stati Uniti di Bush e la Gran Bretagna di Tony Blair mentirono anche in sede Onu.

Ma l'arretramento più inquietante è quello degli europei, compreso il socialista François Hollande, pronto a gettarsi in una nuova guerra dopo quelle in Libia e in Mali che solo commentatori di assoluta ignoranza o di palese malafede ritengono concluse, solo perché sono uscite dalle prime pagine. A tutti o quasi sono bastati i soliti appelli all'unità d'intenti continentale e al Consiglio di sicurezza dell'Onu (dove i membri permanenti europei sono Francia e Gran Bretagna, oggi guidate da due leader chiaramente favorevoli alla guerra, appunto Hollande e il conservatore David Cameron, peraltro bloccato dal suo Parlamento, uno di quelli eletti, come si usa in democrazia, e non nominati, come accade nei pochi Paesi totalitari rimasti e in qualche epigono di fortunatamente scomparse repubbliche delle banane).

Nessun serio dibattito, per esempio, c'è stato sull'unica proposta un minimo articolata venuta da un leader politico, cioè il socialdemocratico tedesco Peer Steinbrück, che sfiderà Angela Merkel nelle elezioni di fine mese, nelle quali è peraltro dato per sconfitto da tutti i sondaggi. «Meglio cento ore di negoziati che un minuto di fuoco», ha detto Steinbrück, citando una famosa frase del cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt. Per rendere tale negoziato efficace, Steinbrück ha proposto al G20 di incaricarne quattro personalità di alto livello: Ban Ki Moon, Obama, Putin e un importante esponente della Lega araba. Di europei non ha parlato proprio. Forse per pudore. Perché l'Europa sembra ormai avere poco da dire al resto del mondo. Sembra guardarsi l'ombelico - quell'ombelico che oggi non è rappresentato più dalla volontà di pace e di sviluppo seguita agli orrori della seconda guerra mondiale, ma piuttosto dai caveau delle banche – e rinunciare al ruolo di laboratorio dello Stato sociale, di primato del lavoro, di confronto multiculturale e multirazziale finalizzato a costruire un futuro comune.