Nel 2007 vinsero il Nobel per la pace. Sono gli oltre duemila scienziati di varie discipline impegnati nell'Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni Unite. E fu un modo, probabilmente, per segnalare come alla causa della pace sia necessario uno sviluppo sostenibile sia per l'ambiente globale sia soprattutto per le popolazioni messe più in pericolo dai cambiamenti climatici. Popolazioni, more solito, concentrate soprattutto nel sud devastato del mondo. Tra l'altro, l'alternarsi di lunghe siccità con periodi brevissimi di intense e concentrate precipitazioni già quest'anno potrebbe aumentare di 25 milioni il numero dei bambini sotto i cinque anni malnutriti, un numero che già sfiora il miliardo.
Sono queste le principali conclusioni della quinta edizione del rapporto Ipcc, dal titolo «Cambiamenti climatici 2014: impatti, adattamento e vulnerabilita», presentato durante il vertice dell'organizzazione concluso ieri a Yokohama, in Giappone, al termine di sei giorni di confronto tra scienziati e delegati governativi provenienti da 110. Il rapporto vuole fornire una base per le decisioni contro il riscaldamento globale che – nelle aspettative, se non nelle previsioni - dovrebbero essere prese dai Governi nei prossimi anni.
Il documento, oltre a presentare i peggioramenti della situazione, delinea possibili risposte adeguate, pur senza nascondere che oggi potrebbero essere ben più difficili da mettere in atto rispetto a meno di un decennio fa. Non ha caso, il rapporto esprime una netta condanna della lentezza delle reazioni, affermando che il mondo è ancora impreparato - per mancanza di volontà politica, non certo per inadeguatezza dei mezzi tecnici - ad affrontare i rischi che derivano da un clima mutato.
I ricercatori dell'Ipcc documentano che se non saranno adottate politiche capaci di ottenere il doppio risultato della mitigazione (tagliare in modo drastico e rapido le emissioni serra causate principalmente dai combustibili fossili) e dell’adattamento (migliorare la capacità di governance includendo nel calcolo degli investimenti la variabile clima), le conseguenze saranno drammatiche. «Centinaia di milioni di persone saranno colpite dalle alluvioni e costrette a lasciare le loro case»; «molti ecosistemi non potranno adattarsi»; «i raccolti delle principali colture, come riso, mais e frumento, subiranno una riduzione del due per cento ogni dieci anni», sono alcune delle affermazioni del rapporto.
Secondo il rapporto delle Nazioni Unite, fino al nove per cento del pil (prodotto interno lordo) globale dovrà essere impiegato nelle opere per arginare la crescita dei mari.
La risposta a questa emergenza esiste, e non è remota. A renderla improbabile è però la considerazione che per metterla in atto occorrerebbe almeno per un decennio investimenti pari quasi a quasi un decimo del prodotto interno lordo globale. I climatologi delle Nazioni Unite indicano infatti una possibile direzione per ridurre l’impatto del cambiamento climatico entro limiti accettabili. Si tratta di una direzione basata sullo sviluppo dell’innovazione tecnologica soprattutto nel campo dell’efficienza energetica, delle fonti rinnovabili e del riciclo dei materiali utilizzati per la produzione.
E questo chiama in causa, appunto, il tipo di sviluppo che si vuole perseguire. L'Italia, per esempio, è uno dei Paesi che avrebbe tutto da guadagnare a da scelte basate sulla coscienza che l'impoverimento del Paese ha le sue vere cause nel dissesto del territorio e in politiche industriali dissennate sotto il profilo della salvaguardia ambientale. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio sarebbe la vera occasione per invertire la tendenza crescente alla disoccupazione, soprattutto giovanile. Un piano nazionale di potenziamento delle energie rinnovabili aiuterebbe a ridurre la bolletta energetica italiana, superiore del trenta per cento a quella europea, senza ricorrere a quell'energia nucleare più volte bocciata dai cittadini, ma che qualche politico e soprattutto molte multinazionali ciclicamente ripropongono, in spregio a tutti i pericoli connessi.
Ma è improbabile un tale mutamento di rotta. I pochi che ancora lo sollecitano sono privi di quella rilevanza sui mezzi di comunicazione che da un ventennio almeno ha consegnato il Paese a irrisolti conflitti di interessi e della possibilità di presentare con efficacia le proprie posizioni a opinioni pubbliche trasformate in tifoserie. Soprattutto, come chi scrive deve purtroppo ripetere, è improbabile che possa farlo una classe dirigente autoreferenziale e che da almeno tre legislature è priva di legittimazione democratica (sono tutti nominati, non eletti) ma talmente arrogante da ritenersi chiamata a modificare una Costituzione che, se non altro, ha il merito di porre freni al suo strapotere.