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Il rapporto tra denaro e conflitti

Il rapporto tra denaro e conflitti - Pierluigi Natalia

 

L'affare delle armi

e quello del mattone

Dicembre 2024

Se la guerra si fa soprattutto per vendere armi, come sintetizzava Papa Francesco, il rapporto malato e persistente tra denaro e conflitti conosce altre declinazioni forse meno esaminate, ma comunque rilevanti. Quando l’affare delle armi all’apparenza finisce in qualche teatro di guerra e in attesa che se ne provochino altri, tra le macerie si fa largo l’affare del mattone. Si chiama ricostruzione e per i potentati economici non è mai solidarietà con le vittime dei disastri bellici (come del resto per quelle di eventi naturali tipo i terremoti). Succede sempre e ovunque, oggi nel Vicino Oriente in Palestina e in Siria, come in Europa, nell’Ucraina ancora sotto le bombe, come in tante situazioni nel Sud devastato del mondo.

La famelica bulimia di affari legati alla guerra fu subito evidente nel caso ucraino fin dall’intervento armato russo nel febbraio 2022 nelle regioni del Donbass che avevano dichiarato la secessione, dopo che a sorpresa fallirono i negoziati in pratica già conclusi con successo tra Kiev e Mosca. Non è negabile in ciò la responsabilità delle pressioni di Paesi europei e della Nato, che al governo ucraino promisero sostegno e prospettarono la vittoria nella guerra con la Russia. Dopo quasi quattro anni, di Russia da sconfiggere non parla più nessuno. Il presidente statunitense Donald Trump ha negato nuove forniture di armi a Kiev e anzi pretende i giacimenti ucraini di terre rare a pagamento dei debiti di guerra. Diversi governi europei, tra cui quello italiano, continuano però a fornire materiale bellico all’Ucraina, comprato proprio dai produttori statunitensi, e aumentano le spese in armamenti, sempre oltre oceano, contraendo la spesa sociale a danno soprattutto dei ceti più deboli.

Di fatto, cioè, più dura una guerra, cioè, e più affari privati si fanno durante e dopo. Le riunioni di “donatori”, compresa tra le ultime la Ukraine Recovery Conference 2025 tenuta a Roma lo scorso giugno, sono cominciate già nel 2022. E non vi si decidono doni, ma prestiti e soprattutto investimenti privati, ma garantiti dagli Stati, cioè dalla fiscalità generale, in assenza dei profitti previsti. In parole povere i guadagni vanno ai soliti pochi, spesso celati in strutture finanziarie impersonali, ma molti ben conosciuti per nome e cognome, mentre rischi e perdite pesano sui cittadini che pagano le tasse, in alcuni Paesi quasi solo lavoratori dipendenti e pensionati.

Quanto a Gaza, non è un caso che a trattare non la pace, come sbandierato da osservatori in maggioranza plaudenti, ma una tregua ancora incerta e già più volte violata, Trump abbia mandato suo genero Jared Kushner, un imprenditore immobiliare come lui. Presto, infatti, sono spuntati i piani veri, cioè la divisione della Striscia in due. In una parte, controllata dall’esercito israeliano, si avvierà subito la rimozione delle macerie e sorgeranno nuovi edifici ai quali i palestinesi potranno forse lavorare, ma che di certo non potranno permettersi di acquistare. 

L’altra per ora resterà sotto il controllo di Hamas con funzioni di polizia in attesa che il gruppo disarmi, come previsto dall’accordo firmato a Sharm el-Sheikh, in Egitto, da Trump con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, quello turco Recep Tayyip Erdoğan e l'emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani, i leader dei Paesi che avevano condotto la mediazione. Sullo sfondo a fare passerella c’erano quelli di diversi altri Paesi, europei compresi, che si sono prestati uno per uno a sfilare verso Trump e a seguirne le indicazioni di comportamento, talora sentendosi lodare, talora subendo rimbrotti che somigliavano tanto a minacce. In cambio, sotto la solita definizione ingannevole di “aiuti”, cercheranno di ottenere qualche fettina della torta che si spartiranno quasi per intero Israele e i firmatari dell’incontro a Sharm el-Sheikh.

Per i palestinesi della Striscia si prospetta dunque un destino di frammentazione come nella Cisgiordania per metà occupata dai coloni armati israeliani. Incognite rimangono anche su altri aspetti cruciali come la forza internazionale di stabilizzazione e l’organismo che dovrà governare la Striscia previo ritiro dell’esercito israeliano e disarmo di Hamas. Il governo israeliano si oppone infatti alla partecipazione di quei Paesi che ritiene nemici, mentre Hamas a disarmare completamente sembra decisamente poco propensa.

Fermo restante quanto su scritto, è comunque un passo positivo che il piano citato abbia suscitato quella scintilla di speranza della quale ha parlato Papa Leone, se non altro perché a Gaza si sono fermati i massacri più sistematici. Ma se è stata accesa una fiammella va alimentata non certo dall’arroganza del potere militare o finanziario, ma dal rispetto dei criteri del diritto delle genti, i più volte riaffermati dal Papa, pronto a ospitare in Vaticano ogni negoziato di pace, dalle organizzazioni davvero umanitarie e anche - più modestamente - da chi scrive ancora con la schiena dritta. 

Il caso complicato della Siria

Le prospettive di ricostruzione trovano oggi in Siria probabilmente il caso più complicato. La caduta del governo di Bashar al-Assad a fine 2024, a opera della Hayat Tahrir al-Sham (HTS), coalizione di milizie più o meno radicali che dopo tale vittoria ha visto cancellare la patente di organizzazione terrorista datale dai Paesi occidentali e non solo, non ha risolto la crisi. Nonostante i riconoscimenti ottenuti, il nuovo potere guidato dal leader delle HTS, oggi presidente siriano, Aḥmad Ḥusayn al-Sharaʿ, non ha saputo finora avviare un vero processo di pacificazione. La Siria resta un mosaico di zone controllate da diverse milizie, comprese quelle di curdi, alawite e drusi. Non a caso, sono stati congelati i seggi riservati a curdi e alawiti previsti nel nuovo parlamento, nominato e non eletto. 

Questo, comunque, non ha fermato le iniziative per partecipare ai guadagni della ricostruzione. Per prima si è mossa la Turchia che già aveva appoggiato le HTS contro al-Assad, e ha ottenuto incarichi per ripristinare aeroporti, ferrovie e autostrade. Anche l’Unione europea, spinta oltretutto dalla necessità di rimpatriare oltre 1.300.000 profughi siriani che ospita, ha subito annunciato iniziative “a fianco della Siria”. Ma con esito tutt’altro che soddisfacente: dei tre miliardi di euro di investimenti chiesti per il 2025 è stato promesso meno del 18 per cento. Più rilevanti sono stati a luglio e agosto due forum in Siria di con imprese di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, con la firma di accordi per 20 miliardi di dollari, nei settori energetico, immobiliare, dei trasporti, delle telecomunicazioni. e dei media. A conferma che le autocrazie arabe vogliono fare in Siria la parte del leone.