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Miscellanea 2011 - 2012 (1)

Miscellanea 2011 -  2012 (1) - Pierluigi Natalia

 

  

  

Africa

  

e non solo

 

  

22 settembre 2011

Crescita economica senza sviluppo sociale

Il paradosso dell’Africa

 

Pierluigi Natalia

 C’è un paradosso economico che opprime l’Africa e che emerge dai diversi rapporti internazionali, senza che si cerchi davvero di rimuoverne le cause: c’è una netta crescita economica, secondo i parametri con la quale la misurano la gran parte degli organismi internazionali, ma il sottosviluppo è ben lontano dal ridursi in modo apprezzabile e gli indicatori sociali mostrano un quadro sempre inquietante e in alcuni casi in peggioramento.

Ne dà una conferma il rapporto «World Factbook 2011» pubblicato dalla statunitense Central Intelligence Agency (Cia), che ogni anno fa il punto sulla situazione geopolitica mondiale. L’analisi del servizio di intelligence di Washington incrocia più parametri. Tra questi ci sono le proiezioni del tasso di crescita anticipate dal Fondo monetario internazionale, peraltro già rivisto al ribasso, e il prodotto interno lordo (pil) dei vari Paesi, ma anche il tasso di corruzione rilevato dall’organizzazione Trasparency International e, soprattutto, l’indice di sviluppo umano calcolato dalle Nazioni Unite.

Dal rapporto emerge che quest’anno la maggiore crescita economica al mondo si registrerà in un Paese dell’Africa occidentale, il Ghana, con un 13, 7 per cento, superiore a quello di tutti i Paesi emergenti, compresi i giganti come Cina, India o Brasile. Nella classica delle dieci economie più promettenti del continente seguono i sei Paesi della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc). Agli antipodi ci sono altre dieci Nazioni, per lo più francofone, in difficoltà per cause che il «World Factbook 2011» individua sia nel contesto sociopolitico, per esempio la crisi seguita alle elezioni del novembre scorso in Costa d’Avorio, ma anche le ripercussioni delle rivolte della cosiddetta primavera araba, sia in quello strettamente economico e commerciale, soprattutto con le variazioni del prezzo del petrolio.

Stando al pil, dunque, l’anglofono Ghana è il campione del mondo di crescita, triplicata dal 2009, grazie al recente sfruttamento delle sue risorse minerarie, soprattutto oro e petrolio. Un terzo delle entrate del Ghana, comunque, sono realizzate nel settore agricolo, che occupa oltre metà della popolazione.

Al secondo posto, sempre per quanto riguarda il pil, c’è l’unico Pese francofono della classifica, cioè la Repubblica del Congo, dipendente all’85 per cento dal settore petrolifero che rappresenta il 90 per cento delle esportazioni. E già qui si incomincia a manifestare il paradosso di una ricchezza che non si trasforma in sviluppo e che è comunque legata a fattori sui quali nessun Governo africano ha un sia pur minimo controllo, a partire proprio dal prezzo del petrolio, bene quest’ultimo che per lo sviluppo africano finisce quasi sempre per rivelarsi un punto di debolezza invece che di forza. Non a caso, il presidente della Repubblica del Congo, Denis Sassou Nguesso, ha detto di voler diversificare gli investimenti, tra l’altro puntando sul settore agricolo e del legname, per contrastare la povertà e il sottosviluppo che nel Paese restano altissimi. Anche l’aumento del pil ottenuto da Botswana (al terzo posto) e Zambia (al sesto) è dovuto alle risorse minerarie, quali diamanti, rame, alluminio e oro.

Sulla base dei parametri delle Nazioni Unite relativi allo sviluppo umano, i risultati migliori sono però quelli del Malawi, dove l’80 per cento della popolazione vive dell’agricoltura e ha raggiunto l’autosufficienza alimentare.

I due dati sono in contrasto in Mozambico e in Tanzania, anch’essi con un forte aumento del pil grazie alle risorse minerarie. È vero che anche il settore agricolo e la pesca fanno parte della crescita economica realizzata dal Governo di Maputo, ma in Mozambico il 70 per cento della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà. In Tanzania la situazione è solo leggermente migliore, grazie anche agli investimenti vincenti delle iniziative che sposano con il turismo il settore agricolo e la tutela del patrimonio naturale.

Le due maggiori economie del paradosso, sempre in base alla classifica della Cia, sono comunque quelle di Etiopia e Zimbabwe. In Etiopia, dove tre milioni di persone sono colpite dalla carestia e dove il reddito pro capite è uno dei più bassi al mondo, la media di crescita del pil nell’ultimo triennio si è assestata attorno all’8-10 per cento, grazie alla produzione di caffè e oro. Ma i mancati investimenti in agricoltura rappresentano una fragilità strutturale insostenibile in un Paese che nel settore agricolo e dell’allevamento impiega l’85 per cento della popolazione, ma dal quale ricava meno del 45 per cento del pil.

Lo Zimbabwe, ancora colpito da sanzioni economiche internazionali, dopo un decennio di crollo registra una crescita sostenuta grazie al ritorno degli investitori che hanno ritrovato fiducia nella stabilità politica affidata al Governo di unione nazionale tra il presidente Robert Mugabe e il primo ministro Morgan Tsvangirai. Ma anche in questo caso la crescita non si traduce ancora in sviluppo per la popolazione, tra l’altro stremata l’anno scorso anche da un’epidemia di colera.

La situazione economica più disastrata è quella del Madagascar, da quasi tre anni teatro di una crisi politica e istituzionale che l’ha posto ai margini della comunità internazionale. Seguono Guinea equatoriale, Angola, Guinea, Swaziland, Comore, Eritrea, Lesotho e Benin. Non manca la Costa d’Avorio, un tempo vetrina economica dell’Africa occidentale, messa in ginocchio dall’ultima crisi postelettorale dopo un decennio di divisioni.

Addirittura fuori classifica è la Somalia, oggi probabilmente il Paese con la situazione peggiore al mondo, stremato da oltre vent’anni di guerra civile, con più di un terzo della popolazione rappresentata da rifugiati all’estero e da sfollati interni e con il maggiore tasso di mortalità, compresa quella infantile, con 180 bambini su mille che muoiono prima di compiere i cinque anni d’età.



4 ottobre 2011

Sempre più insicure le coste del continente

L'Africa dei pirati

Pierluigi Natalia

La sfida della pirateria è una delle emergenze africane persistenti e anzi in crescita continua, nonostante il dispiegamento di imponenti operazioni navali internazionali, soprattutto nelle acque al largo della Somalia e nell’Oceano Indiano, lungo cruciali rotte per le merci orientali verso l’Europa e verso il continente americano.

A queste incominciano ad aggiungersi iniziative degli stessi Paesi africani. Se sul fronte del Corno d’Africa, soprattutto in Somalia, i Governi locali mostrano scarse capacità d’intervento, qualcosa incomincia a muoversi invece sulla costa atlantica del continente, dove la sicurezza della navigazione commerciale rischia di essere compromessa dall’azione dei pirati, secondo quanto emerge dai rapporti dell’International Maritime Bureau.

La scorsa settimana, per esempio, hanno preso il mare dal porto di Cotonou, la principale città del Benin, le prime pattuglie congiunte di militari beninesi e nigeriani, che a bordo di una flottiglia di sette imbarcazioni hanno incominciato a controllare il tratto di coste che si affacciano sul golfo di Guinea, sempre più bersagliato dai pirati. L’iniziativa, chiamata Operazione prosperità, durerà per sei mesi, durante i quali la marina militare del Benin dovrà organizzarsi per provvedere direttamente alla sorveglianza della sua stretta fascia costiera.

Il ministro degli Esteri del Benin, Nassirou Bako Arifari, in un intervento all’Assemblea generale dell’Onu, ha denunciato «la nuova minaccia della pirateria marittima che con violenza ha colpito le nostre coste e le acque del Golfo di Guinea», parlandone come di una «vera piaga per la regione assieme al traffico di droga e falsi medicinali». Anche il presidente Thomas Boni Yayi ha più volte espresso timori per danni diretti all’economia beninese e per il rischio che il porto di Cotonou, dal quale dipende il 90 per cento degli scambi commerciali con l’estero, venga boicottato in caso di insicurezza marittima. Il Governo del Benin ha annunciato anche la prossima creazione di un centro di sorveglianza radar a Grand-Popo, la località sudoccidentale al confine con il Togo, per completare il dispositivo già operativo a Cotonou, ma che controlla solo il tratto di costa confinante ad est con la Nigeria.

Quest’ultimo Paese, primo produttore africano di petrolio, vede da tempo le navi che trasportano greggio prese d’assalto dai pirati, mentre dall’inizio dell’anno ben 19 attacchi sono stati sferrati a largo del Benin. Obiettivo del pattugliamento congiunto, secondo il capo di stato maggiore delle forze navali beninesi, Maxime Ahoyo, è «bloccare ogni tentativo d’assalto delle navi» che spesso trasportano petrolio e carburante.

Se il fenomeno della pirateria, almeno su vasta scala, è relativamente recente nel Golfo di Guinea, ben diversa è la situazione in Somalia e negli altri Paesi del Corno d’Africa, dove gli assalti alle navi si sono moltiplicati in questi ultimi anni, creando un giro di affari di milioni di dollari. La moderna pirateria su vasta scala, comunque, in Somalia ha almeno un ventennio. Negli anni 90, infatti, il crollo della dittatura di Siad Barre e la scomparsa di ogni autorità statale in Somalia, resero le acque del Paese una sorta di zona franca per tutti. I grandi pescherecci industriali — soprattutto giapponesi e sudcoreani, ma anche occidentali — approfittarono della situazione e penetrarono impunemente nelle acque territoriali somale, saccheggiandole e riducendo alla miseria i piccoli pescatori locali. Questi incominciarono così ad attaccare le navi straniere esigendo una specie di tassa che compensasse il loro mancato guadagno. A questo si aggiunse presto lo scarico di rifiuti tossici nelle acque e sulle coste somale, approfittando dell’assenza di controlli e della complicità di clan locali e di gruppi armati. Alla fine questi comportamenti hanno avuto un salto di qualità e la pirateria da principio artigianale si è trasformata in un esercito ben armato e dotato di imbarcazioni velocissime. All’inizio le corti islamiche avevano cercato di opporsi nelle aree da loro controllate, ma diverse fonti locali concordano nel riferire che ormai le milizie radicali islamiche si sono di fatto alleate con i clan somali che controllerebbero direttamente alcuni nuclei di pirati.

Nel 2008, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha autorizzato le navi militari straniere ad intervenire. Al largo della Somalia incrociano da allora flotte che vedono impegnati i Paesi dell’Unione europea e della Nato, ma anche Cina, India e altri Stati che cercano di non far diventare la pirateria ancora più allarmante. Il risultato è finora tutt’altro che rilevante. L’Onu ha recensito 171 attacchi nel solo primo semestre del 2011 e nelle mani dei pirati ci sono tuttora una cinquantina di navi e oltre 500 ostaggi, in massima parte marinai filippini, thailandesi e pakistani che costituiscono la parte più rilevante dei lavoratori del mare, una categoria tra le più esposte ai pericoli che accompagnano la globalizzazione dei commerci lungo i collegamenti vitali dell’economia mondiale.


16 ottobre 2011

Rincari dei prodotti agricoli e insicurezza alimentare

Il prezzo della fame

Pierluigi Natalia

«L’intera comunità internazionale deve agire subito e con forza per sradicare l’insicurezza alimentare dal pianeta». Questa affermazione apre il recente rapporto pubblicato dalle tre agenzie dell’Onu specifiche del settore, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), il Programma alimentare mondiale (Pam) e il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad). Quest’anno, Fao, Pam e Ifad hanno curato, per la prima volta congiuntamente, il tradizionale State of Food Insicutity (Sofi), il rapporto sullo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo finora pubblicato annualmente dalla Fao.

Non è certo la prima volta che la lotta alla fame è posta come principale priorità mondiale dai documenti dell’Onu. Ma il Sofi 2011 pone con più evidenza che nel passato la necessità di una revisione radicale delle politiche in questo campo e altrettanto emerge dal tema «Prezzi degli alimenti, dalla crisi alla stabilità», scelto per la Giornata mondiale dell’alimentazione del 16 ottobre.

Le dinamiche dei prezzi agricoli, imposte dalla globalizzazione del commercio, hanno già portato devastazioni e minacciano di diventare incontrollabili. Ponendo l’accento sui rincari e sulla volatilità dei prezzi delle derrate alimentari, il Sofi 2011 sottolinea che «i piccoli agricoltori e i più poveri diventano sempre più vulnerabili» e che nel lungo periodo ciò avrà gravi ripercussioni sullo sviluppo di interi Paesi.

A pagare il prezzo maggiore è come sempre l’Africa, cioè proprio il continente con meno responsabilità nei meccanismi finanziari che hanno provocato e prolungano la crisi globale, ma che subisce più di tutti le distorsioni dei mercati internazionali. Il Sofi 2011 richiama le responsabilità delle economie forti, sottolineando che «servono maggiori investimenti a lungo termine nel settore agricolo, privilegiando le iniziative dei piccoli contadini, principali produttori di cibo in molti parti del mondo in via di sviluppo». Il documento, cioè, conferma che lo sviluppo rurale — con il consolidamento e il rilancio, ma anche con l’ammodernamento della piccola agricoltura — è un passaggio decisivo e obbligato per il futuro dell’Africa e del mondo.

Certamente servono investimenti, pubblici e privati, nei sistemi d’irrigazione, nella ricerca per le sementi più adatte e nella tutela dell’ambiente. Ma l’elemento chiave è soprattutto politico: occorrono regole commerciali che proteggano i prezzi interni dalle oscillazioni di quelli internazionali. Così come accade per tanti altri prodotti — si pensi alla finanza drogata dai mutui subprime o alle speculazioni sulle materie prime energetiche — a determinare il costo del cibo sono soprattutto le vendite allo scoperto, il mercato dei futures. Se i rincari del prezzo all’origine dei prodotti agricoli hanno nei Paesi ricchi un peso poco rilevante nel loro costo al consumatore, determinato in massima parte dalla filiera di distribuzione, nei Paesi poveri la situazione è ben diversa. Dati diffusi dalla Banca mondiale proprio in questi giorni mostrano che l’aumento del prezzo del cibo tra il 2010 e il 2011 ha fatto precipitare più di settanta milioni di persone nella povertà estrema.

Da qui la necessità sollecitata dall’Onu di regole più efficaci per arginare la speculazione. Ma così come accade sull’altro cruciale versante dello sviluppo, cioè il lavoro, anche nel settore del commercio le dichiarazioni internazionali non si traducono mai in provvedimenti concreti. Nessuna volontà politica a livello mondiale riesce a opporsi a una finanza che, in materia di agricoltura, si occupa solo di determinare i prezzi dei prodotti destinati ai consumi del nord del mondo — spesso in regime di proprietà internazionale e, comunque, vincolate ai meccanismi commerciali globali — ed erode sempre più l’agricoltura di sussistenza.

 

 

30 ottobre 2011

 La conferenza sui cambiamenti climatici e lo sviluppo in Africa

Il deserto guadagna terreno

Pierluigi Natalia

Il 40 per cento delle terre produttive in Africa è esposto alla desertificazione: una minaccia mortale per circa la metà della popolazione e per il 70 per cento delle attività produttive. Le ripercussioni economiche dei cambiamenti climatici potrebbero ridurre entro il 2030, in assenza di efficaci misure di contrasto, quasi il 3 per cento il prodotto interno lordo dell’Africa. I dati, emersi dalla prima Conferenza sui cambiamenti climatici e lo sviluppo in Africa, organizzata la settimana scorsa ad Addis Abeba dalla Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite, dall’Unione africana e dalla Banca di sviluppo africana, sono preoccupanti anche in considerazione di quanto ha affermato il Comitato per la sicurezza alimentare e lo sviluppo sostenibile sullo stato di salute ambientale del continente: entro il 2080 aumenterà dal 5 all’8 per cento l’estensione delle terre aride e semiaride in Africa e sono destinati a scomparire tra il 25 e il 40 per cento dei mammiferi dei parchi nazionali del continente. L’obiettivo della conferenza era di rafforzare la posizione comune dell’Africa in vista dei negoziati sul clima dopo il 2012, quando scadrà il Protocollo di Kyoto sulle emissioni dei gas nocivi responsabili del cosiddetto effetto serra. L’Africa produce appena il 3 per cento delle emissioni mondiali di tali gas, ma è il continente più penalizzato dal riscaldamento globale.

Secondo gli esperti, gli effetti del riscaldamento globale si manifestano più velocemente del previsto, soprattutto nei Paesi dell’Africa australe. Ne sono coscienti i sindacati agricoli della regione, che chiedono di semplificare i meccanismi di finanziamento dei cosiddetti progetti di sviluppo pulito (Mdp) previsti dal Protocollo di Kyoto. Secondo fonti dell’Onu, solo il 4 per cento dei progetti verdi finanziati dagli Mdp si realizzano in Africa, mentre dal 2005 la maggioranza dei fondi sbloccati sono andati a Cina, India e Brasile.

A due anni dalla sua costituzione il Fondo di adattamento al cambiamento climatico ha finanziato solo due progetti africani, uno per combattere l’erosione del suolo in Senegal e l’altro per promuovere l’irrigazione in Eritrea. Secondo i sindacati agricoli dell’Africa australe il mancato accesso ai finanziamenti verdi è dovuto alle complesse procedure burocratiche e tecniche che escludono i piccoli contadini, molti dei quali sono analfabeti e raramente sono informati dai propri Governi.

Contenere gli effetti dei cambiamenti climatici è per l’Africa un obiettivo vitale ma anche politico. Occorre, dunque, moltiplicare gli sforzi e superare le divisioni che penalizzano i popoli del continente. Il presidente della Commissione dell’Unione africana, Jean Ping, ha insistito sulla necessità di far parlare l’Africa con una sola voce, a partire dal mese prossimo, quando a Durban, in Sud Africa, si terrà la XVII Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, dopo quelle senza esito a Copenaghen nel 2009 e a Cancún nel 2010. A rappresentare le istanze dell’Africa sarà il presidente della Repubblica del Congo, Denis Sassou Nguesso, che a nome di tutti i Paesi chiederà maggiore impegno della comunità internazionale.

«Con la desertificazione e la siccità, due manifestazioni dei cambiamenti climatici, la biodiversità si sta riducendo ma anche le nostre risorse di materie prime come il legno. A risentirne sono anche le attività turistiche collegate all’ambiente», ha insistito Ping. Anche Abdoulie Janneh, segretario esecutivo della Commissione dell’Onu, ha sottolineato nel suo intervento alla conferenza che «per l’Africa adattarsi ai cambiamenti climatici non è un’opzione, ma un obbligo, una sfida enorme. È una questione di sopravvivenza per milioni di africani che vivono nelle zone rurali. Lo sviluppo sostenibile ha implicazioni sociali, economiche e i cambiamenti climatici hanno anche risvolti sulla sicurezza».

 

27 novembre 2011



Si rinnovano Presidenza e Parlamento

Le scelte della popolazione congolese

ancora senza pace

Pierluigi Natalia

I cittadini della Repubblica Democratica del Congo sono chiamati questo lunedì 28 a rinnovare la Presidenza e il Parlamento. Il popolo congolese va alle urne per la seconda volta dopo la fine della guerra civile. Il quinquennio trascorso dalle elezioni del 2006 non ha sciolto però tutti i nodi, né risolto gli strascichi persistenti di quel conflitto a cavallo tra lo scorso secolo e questo. Inoltre, le violenze registrate fino all’immediata vigilia del voto proiettano ombre inquietanti, così come restano dubbi sull’organizzazione del voto in tutte le zone dello sterminato Paese.

Il presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente, Daniel Ngoy Mulunda, in un’intervista rilasciata a metà settimana a Radio Okapi, l’emittente radiofonica espressione della missione dell’Onu nel Paese, ha sostenuto che in tutti i seggi sono arrivate le urne e ha garantito la consegna delle schede, ma ha ammesso che questo dipenderà dall’efficacia del sostegno fornito dall’esercito sudafricano, che ha messo a disposizione una trentina di elicotteri e una dozzina di aerei.

Violenze e intimidazioni, intanto, continuano a essere segnalate nella capitale Kinshasa e in altre zone. L’Onu e l’Unione africana, oltre che fonti concordi e diffuse della società civile congolese, ancora nei giorni scorsi hanno sottolineato che la situazione più difficile resta quella delle regioni orientali a ridosso dei Grandi Laghi, dove non sono mai venute meno le attività delle milizie armate e gli episodi di banditismo ai danni dei civili.

Proprio la regolarità del voto nelle tormentate province orientali sarà uno dei banchi di prova della possibilità di consolidare finalmente il processo di pace nel Paese. Ciò nonostante, la vigilanza e l’attenzione internazionale sembrano meno puntuali rispetto a cinque anni fa. Nelle elezioni del 2006, per esempio, la comunità internazionale aveva mobilitato un numero maggiore di osservatori di quelli inviati quest’anno. Dalla capitale Kinshasa, per ovviare a questioni logistiche e di tempistica, è giunta questa settimana l’autorizzazione ad accreditare come osservatori internazionali anche esponenti locali. Tra gli osservatori accreditati ce ne sono trentamila formati dalle strutture della Chiesa locale, in particolare dalle commissioni Giustizia e Pace delle diocesi orientali, come quella di Bukavu, il capoluogo del Sud Kivu. «Saremo testimoni dell’andamento di queste elezioni e se ci saranno irregolarità o brogli, lo sapranno tutti», ha dichiarato alla Misna, l’agenzia internazionale delle congregazioni missionarie, padre Justin Nkinzi, che della commissione di Bukavu è responsabile, sottolineando che la comunità ecclesiale vuole partecipare al meglio alla costruzione della democrazia nel Paese.

Sull’esito del voto per la Presidenza i commentatori hanno pochi dubbi. Il presidente uscente Joseph Kabila, che si ricandida alla guida del Paese, può infatti contare ancora su una forte maggioranza di consensi tra la popolazione di gran parte delle regioni dell’immenso Paese, oltre che su sostegni internazionali più o meno espliciti. Il suo principale avversario è Etienne Tshisekedi, candidato dall’Unione per la democrazia e il progresso sociale (Udps), che però non è riuscito a coalizzare l’opposizione e, in particolare, a garantirsi il sostegno dei seguaci dell’ex vice presidente e leader del Movimento per la Liberazione del Congo, Jean-Pierre Bemba. Quest’ultimo è oggi nel carcere all’Aja della Corte penale internazionale, davanti alla quale è imputato di crimini di guerra per le atrocità commesse dalle sue milizie nella Repubblica Centroafricana nel 2002 e nel 2003.

Kabila ha puntato molto, in campagna elettorale, su quelli che considera i successi economici raggiunti nel suo primo mandato. Per esempio, grande spazio sulla stampa governativa hanno avuto le affermazioni del Fondo monetario internazionale, secondo il quale la crescita nel 2011 del prodotto interno lordo del Paese è valutabile al 6,5 per cento. Ma come quasi sempre accade nei Paesi in via di sviluppo, i dati macroeconomici e finanziari si basano su parametri che non tengono conto delle condizioni effettive delle popolazioni e che non scendono nei particolari delle ricadute sociali di tale presunta crescita. Del resto, quello di produrre ricchezza, in un Paese tra i più dotati al mondo di risorse naturali e minerarie, non è mai stato un problema. Al contrario, la ricchezza in questione — fossero gli schiavi dell’epoca della penetrazione occidentale od oggi il coltan, la lega minerale naturale strategica per le moderne tecnologie — è stata una sorta di maledizione nella storia congolese, dato che ne hanno beneficiato colonizzatori o invasori stranieri e dirigenze politiche locali quasi sempre depredatorie. Sulle popolazioni si è riversato ben poco di questa ricchezza e le condizioni per i traguardi veri di sviluppo, prima tra tutte la pace, non hanno mai trovato effettiva attuazione. E sono in molti a ritenere che neppure queste elezioni riusciranno a mutare la situazione in modo rilevante.



29 novembre 2011

Si apre la conferenza dell'Onu

Clima difficile a Durban

La Conferenza sul clima a Durban, in Sud Africa, che si apre questo lunedì 28 per concludersi il 9 dicembre, è probabilmente l’ultima occasione utile per un vero accordo internazionale per la riduzione delle emissioni di gas nocivi responsabili del cosiddetto effetto serra. Nel 2012 termina il periodo degli impegni del Protocollo di Kyoto, al quale sono rimasti sostanzialmente estranei i Paesi principali responsabili delle emissioni, a partire da Stati Uniti, Russia e Cina, e ancora si aspetta un segnale chiaro circa le azioni che i Governi intendono intraprendere per sottrarre il pianeta a un degrado che già minaccia di diventare irreversibile. Questa XVII conferenza annuale (Cop17) dei Paesi firmatari della convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc), pone un bivio al quale non si danno alternative: o si rafforzano gli scarsi progressi compiuti alla Cop16 dell’anno scorso a Cancún, in Messico, oppure si lascia campo libero agli interessi nazionali a breve termine, con la prospettiva di arrivare a un riscaldamento del pianeta insostenibile.

La speranza è che questa volta prevalga la determinazione politica e sociale sugli interessi della finanza, quegli stessi che hanno provocato l’attuale crisi economica globale. I precedenti immediati, appunto la Cop16 di Cancún e la Cop 15 del 2009 a Copenaghen, sono però poco incoraggianti. Finora si è assistito a trattative finanziarie, più che a scelte politiche strategiche per invertire la tendenza sui modelli di sviluppo responsabili del riscaldamento globale. Ci sono stati passaggi di denaro e di tecnologie tra nord e sud del mondo, ma non accordi giuridicamente vincolanti da far subentrare al Protocollo di Kyoto. Se la conferenza di Durban riuscirà a ricondurre alla realtà, a scoraggiare il ricorso a scappatoie, sarà anche un’importante opportunità per rilanciare l’economia verso un futuro più sostenibile, equo e sicuro. Per conseguire tale risultato, a Durban si dovrebbero sottoscrivere regole rigide sui tagli delle emissioni, stabilire fonti innovative di finanziamento, almeno prolungare il Protocollo di Kyoto e aprire la strada a un accordo globale legalmente vincolante sulle indicazioni dell’Unfccc.

La svolta potrebbe venire dalla Cina, che finora ha rifiutato di fissare per tutti i Paesi l’obiettivo minimo di emissioni globali. Diverse fonti sostengono infatti che il prossimo piano industriale cinese possa puntare decisamente sull’economia verde. Certezze in merito, comunque, non ce ne sono, così come sembra improbabile che gli attuali rapporti di forza interni possano consentire al presidente statunitense Barack Obama quei risultati che non conseguì a Copenaghen, quando era fresco vincitore del premio Nobel per la Pace. Finora, però, Obama ha potuto offrire più denaro per i Paesi poveri, ma non più impegno sulla riduzione delle emissioni.

Di fatto, saranno soprattutto Stati Uniti e Cina a decidere su una questione vitale per l’intero pianeta e soprattutto per i Paesi in via di sviluppo. Tutti gli studi internazionali confermano che l’Africa, le isole del Pacifico e l’Asia meridionale sono le zone del pianeta maggiormente minacciate dai cambiamenti climatici, mentre i principali responsabili dell’inquinamento saranno relativamente protetti dalle sue conseguenze, almeno nel breve periodo di uno o due decenni.

Nel sud del mondo i cambiamenti climatici già ora significano fame, distruzioni, epidemie provocate da malattie legate all’acqua inquinata. Studi concordi — basati su parametri differenti quali economia, istituzioni e gestione, sviluppo umano e salute, ecosistemi (gestione delle foreste, impatto umano sull’erosione del suolo), sicurezza dell’approvvigionamento delle risorse (acqua, prodotti alimentari, energia) e infine ripartizione della popolazione e infrastrutture — pongono ben 22 Paesi africani tra i 28 catalogati come a rischio estremo. Con la desertificazione e la siccità si stanno riducendo biodiversità e risorse di materie prime.

Quella sul clima per l’Africa è dunque una sfida enorme, una questione di sopravvivenza per milioni di persone. Contenere gli effetti dei cambiamenti climatici è un obiettivo vitale. Ed è soprattutto un obiettivo politico per il cui conseguimento occorre moltiplicare gli sforzi e superare le divisioni che penalizzano i popoli del continente. Per questo, è importante la decisione presa dall’Unione africana di parlare con una sola voce a Cancún, dove a rappresentare le istanze del continente sarà il presidente della Repubblica del Congo, Denis Sassou Nguesso.



11 dicembre 2011

Elezioni politiche in Costa d'Avorio

La storia senza entusiasmo

Pierluigi Natalia

Circa 5.700.000 elettori della Costa d’Avorio sono chiamati questa domenica alle urne per scegliere i 255 deputati del Parlamento. Si può a ragione parlare di un appuntamento storico. Le ultime elezioni legislative, infatti, si tennero dieci anni fa, nel 2001. Da allora il Paese è stato il teatro di una lunga crisi politica e poi di una vera e propria guerra civile durata fino al 2007 tra i sostenitori dell’ex presidente Laurent Gbagbo e i suoi avversari. Il lungo processo di ritorno alla democrazia sembrava culminato con le elezioni presidenziali, tenute nel novembre 2010 dopo numerosi rinVII, e vinte da Alassane Ouattara. Ma il rifiuto di Gbagbo di accettare l’esito delle urne ha innescato una nuova crisi e un rigurgito di guerra civile nella quale sono state uccise più di tremila persone.

Così, di riconciliazione nazionale si torna a parlare solo come di una speranza, mentre gran parte della popolazione — sostenitori di Gbagbo, ma non solo — a questo appuntamento elettorale arrivano senza alcun entusiasmo. In molte zone del Paese è ipotizzabile un’affluenza alle urne bassissima, dato il boicottaggio annunciato dal Fronte popolare ivoriano, il partito di Gbagbo, e dato che in molti non si sentono più coinvolti nella vita politica e istituzionale.

Tra l’altro, dieci giorni prima del voto, Gbagbo è stato raggiunto da un mandato di cattura della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja, il tribunale permanente voluto dall’Onu per giudicare sui crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità. Il nuovo Governo ivoriano, che lo teneva agli arresti da aprile nella località settentrionale di Korhogo, lo ha subito trasferito all’Aja. L’arresto di Gbagbo, a giudizio di diversi commentatori, sembra comunque destinato a riaccendere le polemiche in Africa sulla giustizia internazionale. Finora, infatti, la Cpi ha aperto solo processi su crimini commessi nel continente.

Né in Costa d’Avorio c’è fiducia in una giustizia considerata lontana. Molti assistono agli eventi quasi con un distacco passivo, anche per il timore che il conflitto possa riaccendersi, se non altro perché nel Paese continua a circolare una quantità ingente di armi. Ma da molti, l’arresto di Gbagbo è vissuto come una sconfitta e sentito come una ferita. Oltretutto, nell’esito dell’ultimo conflitto è stato determinante l’intervento straniero, sia delle truppe della missione Liocorne che la Francia mantiene nell’ex colonia, sia dei caschi blu dell’Onuci, la missione dell’Onu, considerata alla fine dai sostenitori di Gbagbo come una forza d’occupazione. L’intervento della Francia, particolarmente attiva in questo periodo in diverse crisi internazionali, africane e non solo, fu letto da molti commentatori, non solo ivoriani, anche con motivazioni di politica interna, ma soprattutto con la volontà di tutelare i propri ingenti interessi economici nel Paese. Da parte sua, l’Onu aveva motivato l’utilizzo della forza con il dovere di protezione delle popolazioni civili, finite ostaggio dei belligeranti, oltre che come risposta agli attacchi delle milizie di Gbagbo contro i caschi blu.

Riesaminando gli avvenimenti di questi ultimi mesi, ci sono pochi dubbi che a far riprecipitare il Paese nella guerra civile sia stata l’ostinazione di Gbagbo di non riconoscere il risultato del voto certificato tanto dalla commissione elettorale quanto dagli osservatori internazionali. Ma va ricordato che il pronunciamento del Consiglio costituzionale, controllato dallo stesso Gbagbo, che aveva dichiarato nulli i voti in quattro regioni nelle quali Ouattara aveva ottenuto una forte maggioranza, si era basato sul punto che da sempre impedisce il consolidamento della democrazia ivoriana, cioè il concetto di cittadinanza, in un Paese nel quale c’è una pluridecennale e imponente immigrazione. La Costa d’Avorio accoglie sul suo territorio comunità provenienti dal Burkina Faso, dal Mali, dal Senegal, dalla Nigeria e dalla Liberia, in particolare dagli anni in cui era considerata una vetrina di sviluppo economico non solo per l’Africa occidentale, ma per l’intero continente.

Quando si è finalmente votato, è riesplosa la questione di fondo, con i sostenitori di Gbagbo che hanno accusato Ouattara di essere stato eletto dagli stranieri, intesi sia come immigrati, sia come Governi e istituzioni sovranazionali. Del resto, proprio sulla rappresentanza anche delle comunità di origine straniera Ouattara, egli stesso di famiglia in parte burkinabé, ha costruito la sua vittoria, mentre la base di Gbagbo era soprattutto tra gli ivoriani d’origine. Molti di questi nel sostegno internazionale a Ouattara hanno letto un attacco al diritto del popolo ivoriano di scegliere il proprio presidente senza interferenze estere di qualunque natura e provenienza.

Volendo approfondire il concetto, si può dire che in gioco c’è da anni la sperperata eredità politica di Félix Houphouet Boigny, il primo presidente. Questi guidò il Paese dalla fine della colonizzazione francese nel 1960 al 1993, facendone un’eccezione pacifica nel cruento contesto della decolonizzazione africana. La politica di Boigny, simbolo dell’unità nazionale, si basò sulla nozione di ivoirité, un concetto non etnico, ma politico che definisce le caratteristiche della Nazione sulla base dell’essere cittadino ivoriano e che si applica al processo di democratizzazione e persino alla vita culturale del Paese (diversi studiosi ne riassumono i termini sotto la formula di «preferenza nazionale»).

Ma quella stagione sembra tramontata e la promessa di Ouattara di essere il presidente di tutti gli ivoriani difficilmente gli basterà per essere riconosciuto come l’uomo della pacificazione nazionale. Resta anche dubbio che il sostegno internazionale alla Costa d’Avorio si traduca, nei fatti, nello scrivere una pagina di rapporti davvero paritari e solidali tra nord e sud del mondo che aiuterebbe il Paese a tornare una vetrina di pace e di sviluppo e una speranza per l’Africa tutta.



14 dicembre 2011

Per affrontare la crisi in modo unitario

Il Mercosur punta

all'integrazione continentale


Pierluigi Natalia

Una sempre maggiore integrazione economica dell’intera America latina, ma anche un rafforzamento delle certezze democratiche sono tra gli obiettivi dichiarati del Mercosur, il mercato comune tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, del quale sono membri per ora associati Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador e Perú, mentre è in corso il processo di adesione del Venezuela.

Tali obiettivi sono stati ribaditi in diverse riunioni in vista del passaggio di consegne alla presidenza di turno del Mercosur tra Uruguay e Argentina. In particolare, Argentina e Brasile, le maggiori economie del continente, sono stati tra i più convinti sostenitori della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac), il nuovo organismo macroregionale nato all’inizio di questo mese in un vertice di capi di Stato e di Governo di 33 Paesi a Caracas, con l’intento dichiarato di puntare appunto all’integrazione economica latinoamericana e che potrebbe assumere un ruolo di rilievo nel mutamento in corso degli assetti geopolitici mondiali.

Un’occasione di confronto informale dei leader del Mercosur è sata offerta lunedì 12 dall’insediamento di Cristina Fernández de Kirchner per il suo secondo mandato presidenziale alla guida dell’Argentina. Alla cerimonia sono infatti intervenuti diversi capi di Stato, come la brasiliana Dilma Rousseff, l’uruguayano José Mujica, il paraguayano Fernando Lugo, il boliviano Evo Morales, il cileno Sebastián Piñera, il guatemalteco Alvaro Colom Caballeros, l’honduregno Porfirio Lobo, mentre il venezuelano Hugo Chávez, che della Celac è stato tra i massimi promotori, ha inviato un messaggio di congratulazioni.

In precedenza, la stampa latinoamericana aveva dato ampio rilievo all’incontro bilaterale tenuto a Caracas, in margine all’istituzione della Celac, tra Fernández e Rousseff, nel quale le due leader si sono accordate su un Meccanismo di integrazione produttiva (Mip) per fronteggiare insieme le conseguenze della crisi economica e finanziaria globale. Gli strumenti tecnici per realizzare il Mip sono stati messi a punto la settimana scorsa in una riunione a Buenos Aires tra i ministri dell’Industria dei due Paesi, l’argentina Débora Giorgi e il brasiliano Fernando Pimentel. Secondo un comunicato congiunto, Argentina e Brasile si sono accordati per promuovere in tempi brevi una maggiore partecipazione regionale al commercio interno, a mettere in comune risorse tecnologiche e a concordare le misure più opportune.

Nelle stesse ore, i ministri delle Finanze e dell’Industria di Cile, Colombia, Messico, Perú e Uruguay analizzavano a Santiago del Cile gli effetti della crisi globale sull’America latina e concordavano a loro volta sull’importanza di affrontarla in un contesto continentale unitario. Ciò non solo in senso autoprotettivo, ma anche con un’intenzione propositiva globale. «In passato, l’America latina è stata parte del problema, ma oggi è parte delle soluzioni dei problemi dell’economia internazionale», ha dichiarato il ministro dell’Industria cileno, Felipe Larraín.

Meno spazio, sulla stampa locale e internazionale, ha avuto un’altra decisione assunta la settimana scorsa dal Mercosur, una decisione giunta al termine di un confronto sugli anni delle dittature militari. Nell’annunciare la costituzione di un gruppo di lavoro permanente, le autorità argentine, che dell’iniziativa sono state promotrici, hanno sottolineato che per la prima volta si è stabilita formalmente la cooperazione tra i Paesi del Mercosur in un lavoro congiunto di investigazione. Anche in questo caso, si tratta di una decisione in linea con gli statuti costitutivi della Celac, che contengono anche una clausola democratica, un atto significativo in un continente che in epoche abbastanza recenti ha conosciuto diverse forme di dittatura e nel quale la tutela dei diritti umani è un processo non ancora del tutto consolidato.