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In Somalia torna la poliomielite dopo sei anni

In Somalia torna la poliomielite dopo sei anni - Pierluigi Natalia

  

Epidemie

  

di guerra

  

19 agosto 2013

In Somalia si sta diffondendo una nuova epidemia di  poliomielite. L’Ocha, l’ufficio dell’Onu per il coordinamento degli interventi umanitari, ha comunicato  che sono stati registrati 105 casi di contagio. Una decina di casi sono stati riscontrati anche nel nord del Kenya, dove milioni di  somali vivono  nei campi profughi, soprattutto nell’area di Dadaab. L’Ocha osserva che oltre ai 105 casi accertati — tutti bambini che hanno già mostrato segni di paralisi a causa del virus — probabilmente ci sono  migliaia di altri portatori del virus, asintomatici,  ma in grado di diffonderlo.
Sei anni fa, in un periodo di relativa quiete della guerra civile che si protrae, con diverse fasi e appunto differente intensità,  da quasi un quarto di secolo, l’azione sanitaria degli operatori internazionali era stata tale da far dichiarare  dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) il Paese libero dal virus, almeno a livello endemico.  Ora, invece, il comunicato dell’Ocha sottolinea che «i dati sul numero di contagi non lasciano dubbi» sul fatto di essere in presenza  della  «peggior epidemia in corso nel mondo, in un Paese non endemico».
A spiegare la gravità della situazione somala, del resto, bastano i numeri: secondo i dati ufficiali dell’Oms, nel 2012 i casi accertati di poliomielite sono stati  223 in tutto il mondo.
Dopo la ricomparsa del virus nel centro e nel sud della Somalia sono state vaccinate circa  quattro milioni di persone, ma l’Ocha ammette che rimane molto difficile l’accesso ad alcune zone, formalmente tornate da un anno sotto il controllo delle autorità riconosciute e sostenute dalla comunità internazionale, e che non meno di  600.000 bambini non hanno ricevuto il vaccino. «L’impossibilità di accedere totalmente a queste regioni rimane l’ostacolo maggiore al controllo dell’epidemia» si legge nella nota dell’Ocha nella quale si sottolinea altresì che il Paese «rimane uno degli ambienti più difficili e pericolosi al mondo per gli operatori umanitari», oltre che ovviamente per la popolazione.
Un anno fa, la comunità internazionale dichiarava conclusa la transizione somala con l’insediamento delle nuove autorità di Mogadiscio, e soprattutto con la fine dell’offensiva dell’Amisom, la missione dell’Unione africana in Somalia, che aveva obbligato le milizie ribelli islamiche di al Shabaab al ritiro dalle zone del sud e del centro che controllavano, a partire da Chisimaio, seconda città e secondo porto del Paese.
Oggi a Chisimaio si danno battaglia milizie contrapposte di due dei tanti “signori della guerra” somali, mentre cresce la tensione tra il Governo di Mogadiscio e quello di Nairobi, accusato di sostenere una di tali milizie, la Ras Kamboni guidata da Ahmed Mohamed Islam, meglio conosciuto come Ahmed Madobe, contro quella del colonnello Bare Adam Shire, a sua volta meglio noto come Barre Hirale. Così come le fonti ufficiali somale e internazionali hanno dato  troppo frettolosamente per sconfitte le milizie di al Shabaab, che hanno conservato pressoché intatta  la capacità di colpire,  tanto con azioni di guerriglia quanto con attentati.
Il quadro è allarmante come se non di più di  un anno fa. Il portavoce dell’Ocha a Ginevra, Jens Laerke, ha ricordato sia la situazione epidemica — non solo poliomielite, ma anche altre malattie come il morbillo o il colera — sia le violenze crescenti alle quali sono esposte le popolazioni civili, in particolare le donne. Secondo Laerke, nella sola Mogadiscio, nei primi sei mesi del 2013 ci sono stati oltre ottocento episodi di  violenza sessuale e di genere perpetrati soprattutto  «da uomini armati non identificati e uomini che indossano l’uniforme militare». La stessa Amisom ha annunciato la scorsa settimana  l’avvio di un’inchiesta su alcuni suoi soldati per  l’accusa di stupro di gruppo di una donna somala.
Per quanto riguarda il pericolo per gli operatori umanitari, se ne è avuta una conferma, sempre la scorsa settimana, con l’annuncio che l’organizzazione Medici senza frontiere (Msf) ha deciso di lasciare la Somalia, dove operava ininterrottamente da 22 anni. Il motivo è proprio la crescente mancanza di sicurezza per il suo  personale, in un contesto  «dove gruppi armati e autorità civili sempre più sostengono, tollerano, o assolvono l’uccisione, l’aggressione e il sequestro degli operatori umanitari», come si legge in una nota diffusa mercoledì scorso dal presidente dell’organizzazione,  Unni Karunakara.
Nei suoi 22 anni di attività in Somalia, spiega ancora la nota, Msf ha scelto di «tollerare un livello di rischio senza precedenti» e «di accettare grossi compromessi ai propri principi operativi di indipendenza e imparzialità», negoziando con gruppi armati e autorità di tutte le parti coinvolte, in nome degli «eccezionali bisogni medici nel Paese». Karunakara precisa, però, che  l’attuale situazione  «ha creato uno squilibrio insostenibile tra i rischi e i compromessi che il nostro personale deve affrontare e la nostra capacità di fornire assistenza alla popolazione».
Nei progetti interrotti da   Msf  lavoravano oltre millecinquecento persone, fornendo una vasta gamma di servizi gratuiti, da quelli  sanitari di base, ai trattamenti per la malnutrizione, alla chirurgia, alla risposta, appunto, alle epidemie, con campagne di vaccinazione, oltre che alla fornitura d’acqua potabile e generi di prima necessità. Nel solo 2012, nei centri di Msf in Somalia  sono stati visitati e curati oltre seicentomila pazienti, per  41.000 dei quali si è reso necessario il ricovero, e sono state vaccinate quasi 59.000 persone, in massima parte bambini.