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La morte di Eusébio

La morte di Eusébio - Pierluigi Natalia

  

Grandezza

  

senza

  

arroganza

  

  

7 gennaio 2014

Tre giorni di lutto nazionale sono stati proclamati in Portogallo per la morte (lo scorso 5 gennaio) di Eusébio da Silva Ferreira — solo Eusébio per gli appassionati di calcio — considerato da tecnici e tifosi uno dei più grandi atleti di tutti i tempi in questa disciplina. E i suoi, di tempi, furono gli anni Sessanta, quando il calcio era questione in pratica solo sudamericana ed europea. Ma lui era un africano. Era nato in Mozambico, all’epoca colonia portoghese. Erano gli anni della fine del colonialismo (anche se per il Mozambico l’indipendenza sarebbe arrivata solo nel 1975). Nel 1966, l’anno del mondiale in Inghilterra che lo consacrò come migliore giocatore del torneo,  tra la sua terra d’origine e la sua patria d’elezione  c’era già la guerra civile. Mai Eusébio accettò di farsi strumentalizzare dall’una o dall’altra parte, e sarebbe stato facile tentarlo, soprattutto per l’allora dittatura portoghese. Mai nessuno, in Portogallo o in Mozambico, lo considerò espressione del nemico.
Come molti campioni — ce ne sono pochi oggi in un calcio pensato soprattutto come show business — Eusébio fu uomo di sole due maglie, quella della squadra di club, il Benfica, e quella della nazionale. Fu anche questo un modo per conquistarsi un affetto  universale in un mondo, quello del tifo calcistico, che quando non degrada  sa apprezzare le scelte identitarie.
Come detto, il calcio dell’epoca era Sudamerica ed Europa, sotto tutti i punti di vista, persino nella colonizzazione del linguaggio. Il soprannome coniato per  l’afroportoghese Eusébio fa riferimento a un animale esistente soprattutto  in Asia, la pantera nera. Per anni fu considerato la risposta europea a Pelè (con lui nella foto), il calciatore brasiliano ritenuto da molti  il più grande di tutti i tempi, anch’egli di solo due maglie, quella del Santos e quella della nazionale. Non segnò, come Pelé, milletrecento gol, ma vederlo giocare — in un’epoca in cui la televisione cominciava a far conoscere in molti Paesi il calcio internazionale — fu sempre un evento. La sua progressione era impressionante, aveva tempi di corsa, controllando il  pallone, superiori a quelli di molti dei ben meglio allenati atleti di oggi. 
In quel mondiale inglese Eusébio non vinse e non vinse neanche Pelè, campione nelle due edizioni precedenti e in quella successiva. Il Portogallo arrivò terzo, dopo essere stato eliminato in semifinale dalla squadra di casa, che poi avrebbe battuto la Germania in una contestata finale.
Sebbene quel terzo posto, grazie soprattutto ai suoi gol,  sia stato il miglior risultato di sempre per il Portogallo, sebbene egli sia stato il principale trascinatore della sua squadra di club in vittorie nazionali e internazionali, Eusébio non mostrò mai arroganza. Né l’essere l’idolo di un Paese lo separò mai da un’umiltà non di maniera, da uno stile di vita fatto di valori essenziali, prima di ogni altro la  famiglia.
Il livello individuale, in uno sport di squadra, è sempre condizionato da quello dei compagni. Come altri grandissimi calciatori — per citarne solo alcuni degli ultimi decenni, l’olandese Cruijff, il francese Platini, il tedesco Beckenbauer  — la mancanza del titolo mondiale per squadre nazionali non lo ha mai messo in lizza nei dibattiti per stabilire chi sia stato il più grande di sempre. Di solito, la scelta si pone tra Pelé e Maradona,  che quel titolo hanno conquistato. Eusébio non ebbe mai la tentazione di proporsi in proprio. Eppure, quando gli chiedevano un parere non indicava né Pelé né Maradona, ma un altro grande calciatore, nato in un continente e diventato cittadino di un altro, l’argentino naturalizzato spagnolo Alfredo Di Stefano, anch’egli mai stato campione del mondo.
Il calcio in Portogallo ha ricordato Eusébio con un minuto di silenzio su tutti i campi. Lo si fa sempre, in simili circostanze. Ma forse allo spirito del campione avrà fatto persino più piacere il  minuto ininterrotto di applausi dedicatogli in un altro stadio in quell’Inghilterra che lo fece conoscere al mondo. È accaduto all’Old Trafford di Manchester. Vi gioca una squadra, il Manchester United, che al Benfica di Eusébio inflisse una delle sconfitte più dolorose, nella finale della Coppa dei campioni del 1968 a  Wembley, il principale stadio di Londra.
Stavolta però, non è stato l’omaggio  a uno sconfitto  sul campo, ma il tributo — di affetto e di rimpianto — per un vincitore nello sport e nella vita.