Home » Scritti da poco » La questione religiosa nelle crisi mondiali

La questione religiosa nelle crisi mondiali

La questione religiosa nelle crisi mondiali - Pierluigi Natalia

  

Strategia

di convivenza

  

6 settembre 2014

I Paesi della Nato cercano di delineare nell'Iraq mai davvero pacificato una strategia contro le milizie del cosiddetto Stato islamico (Is), attive anche in Siria, mentre dai fronti iracheni si susseguono le notizie di atrocità. L'ultima è la scoperta fatta dai peshmerga curdi e delle milizie sciite di una fossa comune con 35 cadaveri a Sulaiman Bek, una città irachena settentrionale strappata all'Is che la controllava dallo scorso giugno. 

Gli scopi dichiarati della coalizione contro l'Is concordata durante il vertice della Nato a Newport, in Gran Bretagna, a sono fornire sostegno militare ai partner iracheni, bloccare il flusso dei combattenti stranieri, affrontare la crisi umanitaria, contrastare i finanziamenti all’Is e delegittimarne l’ideologia. Quest'ultimo, cruciale aspetto, chiama in causa la questione religiosa. L'adesione dell'Is ai valori dell'islam è già stata negata più volte dalle voci più autorevoli della comunità musulmana mondiale, non solo dello sciitismo, ma anche del sunnismo, al quale l'Is dichiara di appartenere. Per usare un'espressione corrente qualche decennio fa riguardo a un terrorismo di diversa matrice ideologica, resta però molto da fare perché si arrivi a prosciugare l'acqua in cui nuotano i fondamentalismi religiosi - non solo islamici, ma anche cristiani, ebrei, induisti, buddisti – che alimentano violenze in ogni continente.

Per quanto riguarda la situazione in Iraq, lo ha ricordato, tra gli altri, il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël Sako I, che in un'intervento pubblicato dall'agenzia di stampa AsiaNews ha posto l’accento sull’importanza di «far sentire la nostra voce contro gli estremismi, di lavorare per creare una nuova mentalità basata sulla convivenza in pace e armonia fra sciiti, sunniti, arabi, turcomanni, curdi, cristiani, yazidi. Per questo serve un’offensiva sul piano ideologico per fermare la legittimazione religiosa del fondamentalismo».

 

Evidentemente non si tratterà di una battaglia di breve periodo, ma è significativo che tra le molte proposte concrete avanzate dal patriarca caldeo – comprese una forza di pace in Iraq e una commissione di inchiesta Onu sulle violenze dell'Is - la prima cosa da cui partire sia individuata nell'intervento sui percorsi scolastici e universitari: «Solo l’istruzione — scrive Sako — può dare il via a questa trasformazione e costruire una società dove regni l’uguaglianza. Per garantire una migliore convivenza è necessario creare una società civile che rispetti ciascuna religione e che non politicizzi le religioni».

 

Del resto, la violenza dell'Is e di altri fondamentalismi in Medio Oriente, quella degli estremisti induisti contro i musulmani e i cristiani in India, quella dei buddisti birmani contro le minoranze musulmane, quella degli estremisti ebrei israeliani contro i palestinesi (e viceversa), quella dei sedicenti musulmani di Boko Haram in Nigeria, quella degli altrettanto sedicenti cristiani (più o meno “rinati”) contro gli immigrati negli Stati Uniti e in Europa, hanno una matrice comune: sono una guerra feroce contro la cultura e la diversità. Una guerra che costituisce la maggiore minaccia per la sicurezza sociale a ogni latitudine.

 

Né il ripristino di questa sicurezza può essere perseguito con il mero ricorso alla forza. Del resto, da un quarto di secolo a questa parte, non c'è stato intervento armato internazionale che non abbia alimentato le violenze nei Paesi dove dichiarava di volerle fermare, a partire proprio dall'Iraq. Memore delle lezioni del passato, lo stesso presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, ha ribadito nel summit della Nato a Newport non solo la determinazione a distruggere l'Is, ma anche l'intenzione di non affiancare un intervento di terra ai raid dell'aviazione statunitense in Iraq. Pronto a interventi armati in caso di richiesta del Governo di Baghdad si è invece detto il presidente francese, François Hollande, che ha però escluso che ciò possa accadere anche in Siria, argomentando che il Governo di Damasco, al contrario di quello iracheno, non sarebbe legittimato a chiedere interventi internazionali.

 

L’alleanza contro l’Is si è delineata in un incontro al quale hanno partecipato statunitensi, britannici, francesi, tedeschi, italiani, danesi, australiani, turchi, canadesi e polacchi. Il segretario di Stato americano John Kerry e quello alla Difesa Chuck Hagel hanno sollecitato «una grande coalizione che punti a indebolire e infine distruggere la minaccia rappresenta dall’Is», da costituire entro l'apertura dell’Assemblea generale dell’Onu a fine settembre.

 

È stata invece smentita ogni tipo di collaborazione con l'Iran, un'ipotesi apparsa con insistenza negli ultimi giorni sulla stampa statunitense. «Non coordineremo un’azione militare o informazioni con l’Iran e non abbiamo il progetto di farlo», ha dichiarato ieri la portavoce del Dipartimento di Stato di Washington, Marie Harf. L'ipotesi è stata smentita anche da una portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Marzie Afjam, che ha parlato di un'informazione non corretta. Fonti diplomatiche a Teheran citate anonimamente dalle agenzie di stampa internazionali hanno però ribadito che l’Iran «sta da tempo collaborando a livello tattico con gli Stati Uniti e con la Germania, anche se non lo riconosce apertamente». Nella capitale iraniana è circolata negli ultimi giorni una foto che mostra Qasem Suleimani, comandante della brigata Al Quds, il corpo di elite dei pasdaran, i guardiani della rivoluzione, nella località settentrionale irachena di Amerli, poco dopo la liberazione dalle forze dell’Is che la controllavano.

 

Sempre ieri, il ministro degli esteri del Qatar, Khalid Bin Mohammed Al Attiyah, è tornato a negare in un'intervista che dal suo Paese arrivino finanziamenti all'Is, escludendo un ruolo in questo senso anche di soggetti privati.

 

Provare le accuse in questo senso mosse da più parti al Qatar, come pure all'Arabia Saudita, cioè ai principali alleati di Washington nell'area resta difficile. Così come è difficile trovare prove dell'identiche accuse mosse al Governo siriano, che avrebbe armato i gruppi fondamentalisti islamici contro gli insorti espressione della tradizionale opposizione al presidente Bashar al Assad e prima di lui a suo padre, Hafiz al Assad.

 

Ma resta il fatto che le armi messe in circolazione nell'area (così come in Africa) hanno un valore commerciale infinitamente superiore a quello degli aiuti umanitari alle popolazioni e degli stessi investimenti in sviluppo. Del resto, anche nei nostri Paesi ricchi – e anche in periodo di crisi – l'unica spesa pubblica che continua ad aumentare è quella in armamenti.