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Miscellanea 2011 - 2012 (2)

Miscellanea 2011 - 2012 (2) - Pierluigi Natalia

 


  

Africa

  

e non solo

 

 

22 dicembre 2011

I ribelli dell'enclave senegalese pronti a rinunciare alle armi

Prospettive di pace per la Casamance

Pierluigi Natalia

Potrebbe essere a una svolta conclusiva e pacifica una nelle più annose crisi africane, quella della regione senegalese della Casamance, un’enclave lungo l’omonimo fiume, stretta tra i territori del Gambia e della Guinea Bissau e teatro da quasi trent’anni di una lotta indipendentista contro il Governo di Dakar. Il principale gruppo impegnato in tale lotta, il Movimento delle forze democratiche di Casamance (Mfdc), ha infatti annunciato questa settimana che intende abbandonare le armi per trasformarsi in partito politico. «È una decisione presa nel rispetto della pace e della ricostruzione del Senegal», ha detto il segretario generale dell’Mfdc, Jean-Marie François Biagui, annunciando che d’ora in poi la sigla del gruppo starà per Movimento per il federalismo e la democrazia costituzionale. Intervenendo agli Stati generali del processo di pace in Casamance, una riunione di due giorni di lavori convocata dal movimento, Biagui ha detto che «non si tratta solo di arricchire il panorama politico senegalese, ma di contribuire all’obiettivo di riformare il Paese». Punto cruciale della riunione, che sembra fugare voci insistenti di una presunta spaccature nell’Mfdc e di una perdita di leadership dello stesso Biagui, è stata la presenza di Bertrand Diamacoune, fratello dell’ormai scomparso Agostino Diamacoune Senghor, l’ex religioso che fu lo storico leader dell’Mfdc.

Nato già nel 1947, ancora senza aspirazioni separatiste, ma anzi con un programma di partecipazione al riscatto sociale del Paese, l’Mfdc si è via via posto in contrasto con il Governo di Dakar fino a rendersi protagonista, a partire dal 1982, di attacchi armati di diversa intensità. Nel 2004 si arrivò alla firma di una tregua che per alcuni anni era sembrata sostanzialmente rispettata. Tra l’altro, questo accordo sbloccò molto denaro stanziato dalla comunità internazionale per investire sul potenziale agricolo e turistico della regione.

Da un anno a questa parte, però, le violenze nella Casamance sono riprese e dalla fine del 2010 sono stati registrati diversi combattimenti, culminati in marzo in un’offensiva lanciata dall’esercito su alcuni villaggi a sud del capoluogo Ziguinchor. Ci furono una ventina di morti tra i soldati senegalesi e altrettanti tra i ribelli, oltre a un numero imprecisato di feriti delle due parti, ma anche tra la popolazione civile. E attacchi armati contro postazioni dell’esercito ci sono stati ancora nelle ultime ore, anche se Biagui nega ogni coinvolgimento dell’Mfdc.

Nonostante la presenza nella Casamance di altri gruppi indipendentisti e di fazioni minori, la rinuncia alle armi dell’Mfdc, se confermata, aprirebbe la strada a una possibile normalizzazione della regione, che ne ha certamente bisogno. La popolazione vive infatti da trent’anni nel terrore di quello che viene definito, con una certa dose di impropria minimizzazione, un conflitto a bassa intensità, ma che ha comunque causato finora oltre quattromila morti e quasi undicimila sfollati su meno di un milione di persone.

Isolata dal resto del Senegal, in passato la Casamance è stata considerata dalle autorità di Dakar soprattutto come teatro di un conflitto conseguenza di un’anomalia geografica coloniale. Ma è anche la zona più fertile del Senegal, con coltivazioni di riso, arachidi e canapa, oltre ad avere qualche giacimento di petrolio e anche una forte vocazione turistica, grazie a spiagge tra le più belle del mondo. Tuttavia, ben poco di questa ricchezza si traduce in un miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Così come l’altra grande risorsa della regione, la pesca, va di fatto a beneficio, come spesso accade in Africa, delle flotte straniere.

Di conseguenza, la maggioranza degli abitanti della Casamance, in massima parte di etnia jola, traggono in pratica il loro unico sostentamento dalla vendita e dal commercio dei prodotti della brousse, la savana, ma hanno paura di inoltrarvisi e rimanere vittime dei ribelli o dell’esercito e, soprattutto, delle mine. La Casamance è infatti uno dei territori africani con più campi minati in rapporto alla sua estensione e la bonifica richiederà anni e impegni economici che la regione non può certo affrontare da sola e che lo stesso Governo di Dakar avrà difficoltà ad assumere.



28 dicembre 2011

La donna secondo il documento conclusivo del Sinodo per l'Africa

Dignità al femminile

Pierluigi Natalia

 Nell’Esortazione apostolica postsinodale Africae munus, Benedetto XVI praticamente all’inizio (Introduzione, 4) dichiara di essere rimasto impressionato dal realismo e dalla lungimiranza degli interventi al Sinodo dello scorso anno. Vale per tutti gli aspetti della riflessione fatta dalla Chiesa universale sulla sua condizione in Africa, ma vale anche per comprendere meglio l’azione di quelle Chiese locali, di quelle società civili che in parte educano e formano, degli attori di questa realtà. Terra tradizionalmente di missione, l’Africa trova oggi, nonostante la sua persistente emarginazione dai grandi consessi internazionali, una sua propria capacità di missione che è anche servizio sociale, contributo culturale e persino antropologico alla costruzione di una convivenza internazionale diversa.

In questo il ruolo più cruciale, il sentire più qualificante — del quale l’Africae munus dà conto — è forse quello al femminile. Del resto, intorno alla donna si costruisce la casa e si definisce la pace. Una pace che non è parentesi tra situazioni di conflitto, ma assunzione di senso, persino oltre il tempo contingente. La donna, trasmettitrice di vita, è effettiva garanzia anche dell’incarnazione del processo di pace nella storia. Non a caso, l’Esortazione ricorda che «nella visione africana del mondo, la vita viene percepita come una realtà che ingloba gli antenati, i vivi e i bambini che devono nascere, tutta la creazione e ogni essere: quelli che parlano e quelli che sono muti, quelli che pensano e quelli che non hanno alcun pensiero. L’universo visibile e invisibile viene considerato come uno spazio di vita degli uomini, ma anche come uno spazio di comunione ove le generazioni passate sono a fianco, in maniera invisibile, delle generazioni presenti, madri a loro volta delle generazioni future» (III, 69). Di questa duplice direzione, che per il cristiano è comunione dei santi e apertura alla vita, le donne sono la principale forza visibile.

Di questo alle donne africane il Papa dà un riconoscimento non solo religioso e spirituale, ma anche — linea con la cifra antropologica del suo ministero così come è andato delineandosi negli anni — sociale e persino propriamente politico, offrendo loro la dottrina sociale della Chiesa come strumento prezioso per impegnarsi con discernimento nei diversi progetti che le riguardano, portando alla società tutta il contributo dei doni propriamente femminili, l’amore e la tenerezza, l’accoglienza e la delicatezza, e infine la misericordia. Questi valori, che le donne sanno trasmettere ai figli e di cui il mondo ha bisogno, sono quelli che favoriscono la riconciliazione degli uomini e delle comunità, in sintesi la costruzione della pace (cfr. ii, D, 59).

Azione propriamente politica è colmare i ritardi, in Africa come altrove, che ostacolano ancora il riconoscimento della donna nella sua dignità e nei suoi diritti. Di qui, anche il forte invito del Papa «a combattere ogni atto di violenza contro le donne, a denunciarlo e a condannarlo» e l’ammonimento secondo il quale «converrebbe che i comportamenti all’interno stesso della Chiesa siano un modello per l’insieme della società» (ii, D, 56).

L’Africa, infatti, non fa eccezione (e anzi paga il prezzo più pesante) alle discriminazioni subite dalle donne in tutto il mondo e alla diffusa non applicazione delle leggi a loro tutela. Purtroppo, nei processi di sviluppo e di democratizzazione in atto o che si tentano nelle società africane, questo aspetto non trova l’attenzione necessaria. Per esempio, è di fatto ignorato il ruolo fondamentale avuto dalle donne nell’avvenimento forse più rilevante di quest’anno nel continente, la nascita il 9 luglio del Sud Sudan indipendente. Purtroppo dopo già pochi mesi aleggia su questo ruolo, e sugli impegni assunti dalla nuova dirigenza sudsudanese, la minaccia dell’incuria, se non del vero e proprio tradimento. La stesura della Costituzione provvisoria, che ha preceduto la dichiarazione d’indipendenza, non ha soddisfatto le rappresentanti dei movimenti femminili, che chiedono più spazio nell’attuale processo costituzionale. «Il nuovo Stato dovrà parlare con la voce delle donne. Siamo una parte importante della popolazione e rivendichiamo il nostro ruolo nella vita del paese», ha dichiarato subito dopo l’indipendenza Melania Itto, rappresentante del Media Women in South Sudan, associazione di matrice cattolica per i diritti femminili e la lotta alla discriminazione, in un’intervista all’agenzia missionaria Misna.

Quello delle associazioni cristiane si annuncia come un ruolo non secondario nel processo di costruzione del nuovo Stato dopo la separazione da Khartoum e dall’egemonia culturale islamista che al Sudan unito era stata imposta dal regime del presidente Omar Hassam el Bashir. Tra l’altro, il network delle emittenti cattoliche che fanno riferimento a Radio Bakita (dal nome della prima donna sudanese dichiarata beata) costituisce una parte rilevante dell’informazione in un Paese dove resta altissimo il tasso di analfabetismo.

Tuttavia, la tanto attesa indipendenza giunge in un momento in cui le donne del Sud Sudan pagano ancora un altissimo prezzo per il sottosviluppo e la povertà diffusa, lasciate in eredità da oltre vent’anni di conflitto. Il Paese è in assoluto al mondo quello con il più alto tasso di mortalità materna durante il parto, pari a una donna su sette. «Da queste parti una bambina ha più probabilità di morire di parto che di finire le scuole elementari» ha ricordato ancora Itto, il problema «è strettamente connesso con quello del matrimonio forzato di giovani bambine al di sotto dei quindici anni, una piaga diffusa specie nelle campagne e tra le comunità di allevatori di bestiame». Soprattutto nelle zone rurali, infatti, le donne vivono ancora marginalizzate e diventano, in alcuni casi, merce di scambio con il bestiame tra clan e famiglie. «Quando, in cambio di una donna, una famiglia ha pagato molte mucche, vuole che questa partorisca per suo marito tanti figli. E in assenza di cure e degli esami necessari, la morte durante il parto diventa cosa comune», ha spiegato ancora Itto.

Eloquente, per tutto il mondo, per il continente e in particolare per la tormentata regione dei Grandi Laghi, è anche il primo rapporto Progressi delle donne nel mondo, presentato lo scorso luglio da Michelle Bachelet, l’ex presidente del Cile che ora guida la nuova agenzia delle Nazioni Unite per le donne (Unwomen). Riguardo alla tragedia congolese, ma non solo, lo studio rileva che lo stupro viene spesso usato come una vera e propria arma di guerra, «al fine di trasmettere deliberatamente l’Aids con l’obiettivo della contaminazione forzata».

Nelle stesse ore veniva pubblicata a Ginevra la relazione della commissione d’inchiesta insediata dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani sugli stupri di massa commessi tra il 30 luglio e il 2 agosto 2010 nella Repubblica Democratica del Congo. Per la commissione, gli attacchi sono stati «pianificati in anticipo e portati avanti in maniera sistematica» e possono pertanto «costituire crimini di guerra e contro l’umanità». L’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navanethem Pillay, ha sottolineato come questi crimini non vengano mai puniti, anche per il timore di rappresaglie, «ponendo così un serio ostacolo alla prevenzione di future violenze». Un’implicita conferma l’ha data, sempre in luglio, il dipartimento di Stato di Washington, con un rapporto sull’ennesimo stupro di massa nel Paese africano. Fonti mediche avevano denunciato che, fra il 10 e il 13 giugno di quest’anno, 248 donne erano state violentate nei villaggi di Nakiele, Abala e Kanguli nella provincia del Nord Kivu. Secondo testimoni, all’arrivo delle truppe a Nakiele, gli uomini si erano nascosti nella foresta per sfuggire alla cattura. I soldati si erano abbandonati alle violenze sulle donne che all’indomani avevano raccontato l’accaduto ai propri mariti. Per una decina di loro, questo aveva significato essere ripudiate. Erano però intervenuti gli anziani del villaggio per spiegare agli uomini che quanto successo non è colpa delle donne, in quella che appare una significativa correzione di pregiudizi plurisecolari.



1 febbraio 2012

Il vertice ad Addis Abeba

L'Africa non trova coesione politica

Pierluigi Natalia

 Sembra ancora lontana l’unità d’intenti politica dell’Unione africana che gli osservatori più attenti ritengono indispensabile per sottrarre il continente al sottosviluppo e alla marginalizzazione. Ne ha offerto un’ulteriore dimostrazione il vertice dell’organizzazione panafricana, concluso lunedì 30 ad Addis Abeba senza aver preso la sua decisione più attesa, cioè la nomina del presidente della Commissione, il suo organismo esecutivo. Dopo quattro turni di votazione i capi di Stato e di Governo non sono riusciti a esprimere la necessaria maggioranza dei due terzi dei 54 Paesi membri e hanno rinviato la decisione al prossimo vertice di giugno. Nell’attesa, l’interim sarà assicurato dall’attuale vice presidente della Commissione, il kenyano Erastus Mwencha.

Alle prime tre votazioni, il gabonese Jean Ping, che ha ricoperto l’incarico negli ultimi quattro anni, ha ottenuto un ridotto vantaggio sulla contendente, l’attuale ministro degli Interni del Sudafrica, Nkosazana Dlamini Zuma. Al quarto turno Ping è rimasto solo in lizza, ma ha avuto solo 32 voti.

Il voto era segreto, ma diverse fonti diplomatiche hanno riferito sotto garanzia di anonimato di un clima gelido tra le delegazioni di fronte alle pressioni esercitate da quella sudafricana, guidata dal presidente Jacob Zuma, mentre il Gabon ha mostrato più discrezione nella sua azione a favore della conferma di Ping.

Non pochi Paesi, soprattutto nell’Africa settentrionale, come Algeria ed Egitto, ma anche in quella subsahariana, in particolare la Nigeria, non hanno mai nascosto di non vedere con favore la candidatura del Sud Africa, prima potenza economica continentale, alla guida di fatto anche politica del continente. Del resto, da più parti si accusa il Sud Africa, unico Paese continentale a far parte del g20 e che l’anno scorso è entrato nel gruppo dei Paesi emergenti conosciuto con l’acronimo Brics (Brasile, Russia, India, Cina e appunto Sud Africa) di non operare in primo luogo come rappresentante dell’Africa, ma di perseguire interessi principalmente propri. In ogni caso, il Governo di Zuma ha mancato un risultato che avrebbe potuto far valere anche in sede Onu in vista di una riforma, sempre annunciata e mai realizzata, del Consiglio di sicurezza.

In attesa di possibili sviluppi a giugno, c’è intanto uno stallo che minaccia di avere conseguenze negative sul funzionamento della Commissione nell’immediato futuro, con il pericolo di far slittare ancora non solo i processi di mediazione nelle varie crisi in atto nel continente, ma anche l’attuazione effettiva dei pochi programmi sui quali è stato raggiunto consenso.



25 febbraio 2012

Nel Paese del corno d'Africa la maggiore emergenza umanitaria mondiale

Un futuro per la Somalia

Pierluigi Natalia

 La crisi in Somalia, riproposta all’attenzione internazionale dalla conferenza tenuta ieri a Londra, si configura come la maggiore emergenza umanitaria oggi in atto nel mondo. Da almeno due anni, in particolare, la siccità che ha colpito il Corno d’Africa — una delle regioni del mondo che sconta maggiormente le conseguenze dei cambiamenti climatici — ha avuto le sue ricadute più gravi proprio sulla popolazione somala, costituita per metà da rifugiati all’estero o da profughi interni, a causa anche della fragilissima situazione politica. L’ormai ventennale mancanza di strutture statali nel protrarsi, con diversi modi e intensità, una condizione di perenne guerra civile, rende infatti quello somalo il più difficile contesto per un’azione internazionale efficace anche sul piano strettamente assistenziale.

Di catastrofe umanitaria parlò Benedetto xvi al dopo Angelus del 17 luglio 2011, auspicando «mobilitazione internazionale per inviare tempestivamente soccorsi», rinnovando poi l’appello nel discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il 9 gennaio 2012. Ma al suo, come ad altri appelli non sono seguiti interventi efficaci, ostacolati proprio dall’incancrenita situazione di insicurezza del Paese. Diversi osservatori sottolineano come, per tentare di risolvere l’annoso conflitto, sia necessario agire contemporaneamente in diverse direzioni, dal finanziare e garantire i servizi primari a neutralizzare le milizie estremiste, a partire da quelle radicali islamiche di al Shabaab, protagoniste dell’ultima fase del conflitto somalo, quella dell’insurrezione contro il Governo federale di transizione (Tfg) guidato dal presidente Sharif Ahmed. Al tempo stesso occorre coinvolgere in un processo di pace e di ricostruzione non solo il Tfg, ma anche altri gruppi che hanno l’effettivo controllo del territorio e potenziare l’Amisom, la missione dell’Unione africana in Somalia. Su queste linee si è espressa in diversi contesti internazionali la Santa Sede.

Nelle ultimi tempi, comunque, passi in questo senso ci sono stati. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu proprio questa settimana ha autorizzato un aumento degli effettivi dell’Amisom dagli attuali circa dodicimila a quasi diciottomila, dando al tempo stesso alla missione l’esplicito mandato di passare all’offensiva contro le milizie di al Shabaab. Sul piano politico, la risoluzione dell’Onu ingiunge al Tfg di mettere a punto la bozza della futura Costituzione e i preparativi per eleggere un nuovo Parlamento, entro il termine massimo del 20 agosto, quando scadrà il mandato dello stesso Tfg, che non verrà rinnovato. Anche su questo versante, ci sono state novità recenti, soprattutto con l’incontro di domenica scorsa tra il presidente Ahmed e e i leader delle regioni semiautonome del Puntland e del Galmudug. È stata raggiunta un’intesa che per trasformare la Somalia in uno Stato federale, con Mogadiscio capitale, e per un nuovo Parlamento, con una Camera bassa con metà dei deputati attuali e una Camera alta di saggi nominati da tutti i clan somali.

Con questi sviluppi si è confrontata anche la conferenza di ieri a Londra, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di una quarantina di Governi e delle principali istituzioni internazionali, a partire dal Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. La principale decisione presa è stata l’istituzione di un consiglio congiunto di gestione finanziaria, un nuovo meccanismo di monitoraggio per assicurare maggiore trasparenza nella gestione delle entrate, inclusi gli aiuti internazionali, da parte delle autorità somale e delle agenzie delle Nazioni Unite.

 

6 aprile 2012

Venti anni fa cominciava l’assedio di Sarajevo

 11.541 sedie vuote

 Pierluigi Natalia

 Ci saranno 11.541 sedie vuote, sistemate per una lunghezza di circa un chilometro lungo il viale Maresciallo Tito, la via principale di Sarajevo, in occasione del concerto organizzato per ricordare l’inizio, il 6 aprile 1992, della guerra in Bosnia ed Erzegovina. Una sedia per ciascuna delle vittime del lungo assedio della città, nel cui segno si era aperto e si concluse il Novecento, il “secolo breve” della violenza in Europa. «Quelle sedie saranno vuote poiché gli spettatori, tutti colpiti a morte, a questo concerto non potranno assistere», ha detto Haris Pasović, che lo ha organizzato. Il numero è quello delle persone uccise dai bombardamenti e dai cecchini, mentre non è possibile un conteggio preciso delle persone morte per gli stenti dell’assedio, il cui numero è comunque stimato in diverse migliaia, in massima parte vecchi e bambini.

 Gli abitanti della città sono stati invitati a interrompere ogni attività, per un’ora a partire da mezzogiorno, e a sistemarsi lungo i marciapiede dietro quelle sedie vuote. Il sindaco, Aljia Behmen, ha ricordato che l’evento si chiamerà “La linea rossa”, a ricordare «una linea di sangue che ha ricoperto la nostra città dal 1992 al 1995». Già negli anni della guerra, ci fu l’uguale scelta. Con macchie di vernice rossa e targhe sono da vent’anni segnati i luoghi dove più feroci si abbatterono i bombardamenti, come il mercato di Markale (68 morti nel febbraio del 1994, 37 nell’agosto del 1995). Un altro tributo alla memoria verrà da un coro locale che eseguirà una decina di canzoni composte durante i 44 mesi dell’assedio della città, quelle canzoni nelle quali i giornalisti stranieri impararono a cogliere la parola mir, pace.

 Sono passati vent’anni da quando la città, con la Jugoslavia già disgregata, riassunse lo stesso drammatico ruolo di simbolo della fine della pace in Europa che aveva avuto nel 1914. In realtà, la guerra già c’era in Croazia, dopo aver lambito la Slovenia, l’altra Repubblica jugoslava che per prima aveva dichiarato la secessione nel 1991. C’erano stati, per la prima volta dal 1945, bombardamenti su città europee, come Dubrovnik, Vukovar, la stessa Zagabria. Ma fu Sarajevo a rendere palese il feroce ritorno di fenomeni che si speravano sconfitti, i fantasmi del nazionalismo e del razzismo che si speravano esorcizzati. La città che era diventata simbolo della convivenza multietnica e multiculturale nei Balcani, il 6 aprile 1992 veniva consegnata all’orrore.

 Il termine consegnata è giusto, perché mai come in quella occasione il popolo di una città si dimostrò innocente. Il giorno prima tutti gli abitanti di Sarajevo — serbi, croati, bosniaci; ortodossi, cattolici, musulmani — si radunarono davanti al Parlamento per dire no alla guerra, per affermare di essere la testimonianza vivente della possibilità di vivere insieme in pace. Di quel 5 aprile le cronache hanno tramandato le parole toccanti di Abdulah Sidran, il poeta bosniaco musulmano che tenne uno dei discorsi ufficiali: «Senza i serbi non potrei respirare, senza i croati non potrei scrivere e senza essere me stesso non potrei vivere con loro».

 Ma già quel giorno alcuni cecchini aprirono il fuoco sulla folla e uccisero due donne, Suada Dilberović e Olga Sucić. Ma già sulle colline intorno alla città erano piazzati i mortai di quanto restava dell’Armata rossa, l’esercito jugoslavo ormai ridotto a esercito della Serbia nazionalista di Slobodan Milosević, e delle milizie serbo-bosniache guidate da Ratko Mladić, il comandante militare dell’alleato di Milosević in Bosnia ed Erzegovina, Radovan Karadžić. I tre sarebbero stati chiamati a rispondere davanti al Tribunale penale internazionale per l’Ex Jugoslavia, la prima corte chiamata a giudicare su crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità, dopo quelle di Norimberga e di Tokyo insediate al termine della seconda guerra mondiale.

 E il 6 aprile l’artiglieria serba entrò in azione. Avrebbe smesso solo dopo 44 mesi. Quasi privi di acqua, di cibo, di elettricità e riscaldamento, gli abitanti di Sarajevo sperimentarono la quotidianità dell’orrore e la determinazione a non cedere. Per ricordarlo nelle celebrazioni di questo 6 aprile, le vetrine della città mostreranno annunci e manifesti di eventi culturali che si riuscì a organizzare in quei 44 mesi di un assedio appena mitigato dal lungo ponte aereo (oltre mille giorni) organizzato dall’Onu e dagli aiuti che alcune organizzazioni riuscivano di tanto in tanto a portare.

 I primi a passare lo fecero attraverso la galleria sotterranea scavata nei paraggi dell’aeroporto, della quale tutti conoscevano l’esistenza e che gli assedianti non vollero mai bloccare. Perché in realtà quell’assedio non mirava alla conquista. Sul piano militare, Sarajevo non aveva una grande importanza. Agli assedianti interessava continuare colpirla, per colpire la tradizione di coesistenza e di pluralismo alla quale opponevano la loro rinata follia nazionalistica. Non era l’azione di un esercito, ma quella di un terrorismo sistematico. Fu chiarissimo quando i mortai, il 25 agosto 1992, concentrarono il tiro sulla Vijecnica, la biblioteca nazionale. Militarmente non aveva senso. Ma mandare in fiamme un milione di volumi, compresi manoscritti e testi antichi, testimoniava la volontà di annientare un secolare patrimonio culturale.

Il conflitto bosniaco fu il più sanguinoso di quelli della dissoluzione jugoslava, con i suoi oltre duecentomila morti. Ma fu un altro dato, quello dei due milioni di profughi, a far comprendere all’Europa e al mondo quali erano i veri obiettivi di quella guerra. Perché i profughi ne erano lo scopo, non una conseguenza. Fu il conflitto bosniaco a far conoscere il rinnovato concetto di “pulizia etnica”.

 Per uno dei paradossi della storia, i serbi di Milosević, di Karadžić e di Mladić, sconfitti dall’intervento armato della Nato, come poi sarebbe accaduto in Kosovo (ma anche gli altri leader nazionalisti dell’ex Jugoslavia) sembrerebbero aver raggiunto il loro obiettivo. L’architettura istituzionale stabilita dal piano di pace di Dayton, praticamente imposto dalla Nato stessa nel 1995, lascia il Paese diviso in aree di influenza, delimitate da quelle che somigliano tanto alle vecchie linee dei fronti di guerra.

 Quella Sarajevo che aveva il suo simbolo nella vicinanza, in un raggio di poche decine di metri, della cattedrale ortodossa, della cattedrale cattolica, della moschea e della sinagoga, è oggi di fatto una città musulmana. I serbo-bosniaci non ci sono più. I croato-bosniaci cattolici sono ridotti ai minimi termini. La piccola Chiesa locale nella quale Giovanni Paolo II riconobbe il segno del martirio, conferendo la porpora al suo arcivescovo Vinko Puljić, è oggi un piccolo resto. Ma continua nella sua ostinata volontà di dialogo, con tutti. Di questo fu un segno eloquente la decisione del cardinale Puljić e del suo ausiliare Pero Sudar di distribuire durante il conflitto gli aiuti arrivati alla diocesi di Vrbosna, Sarajevo dal mondo cattolico senza fare alcuna distinzione di credo religioso. Su questo dialogo, sullo sforzo di risanare le ferite, il mondo sembra aver spento i riflettori. Riaccenderli sarebbe l’unico modo per rendere la memoria dolente di questo ventesimo anniversario un impegno di civiltà.

20 aprile 2012

La crisi coinvolge tutti i Paesi del Sahel

Dalle rivolte arabe alla guerra in Mali

Pierluigi Natalia

La crisi in atto nel Mali è una delle prove più evidenti degli irrisolti problemi non solo del Paese, ma dell’intera area dal Sahel. In questa luce si possono leggere, infatti, sia l’insurrezione nel nord dei tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla), incominciata il 17 gennaio, sia la pressochè contemporanea concentrazione in quell’area di gruppi legati alla galassia del terrorismo internazionale di matrice fondamentalista islamica. L’insurrezione dell’Mnla, che mira all’indipendenza delle regioni a popolazione tuareg, ha avuto una tempistica in qualche modo legata alle crisi nordafricane del 2011.

Da un punto di vista militare, in particolare, è stato determinante il rientro in patria di miliziani tuareg, pesantemente armati, che avevano fatto parte delle forze di Gheddafi, sconfitte dagli insorti libici appoggiati dalla Nato.

L’accresciuta porosità delle frontiere, libiche e non solo, seguita alle rivolte del 2011 nel Maghreb, ha favorito anche gli spostamenti dei gruppi islamisti, che in Mali sembrano intenzionati a riprodurre la situazione in Somalia, dove combattenti non somali aderiscono da anni alle milizie di al Shabaab che guidano l’insurrezione contro il Governo del presidente Sharif Ahmed. Non a caso, nel nord del Mali è segnalata la presenza di gruppi stranieri, a partire da Al Qaeda per il Maghreb islamico, e dal nigeriano Boko Haram. Un’implicita riprova di tale concentrazione è stata fornita il 17 aprile anche dalla liberazione alla frontiera tra Mali e Burkina Faso della turista italiana Maria Sandra Mariani, rapita dall’Aqmi il 2 febbraio 2011 nel sud dell’Algeria.

Meno evidenti, anche se non mancano commentatori che li ipotizzano, sembrerebbero eventuali collegamenti con la situazione internazionale per quanto riguarda il colpo di Stato messo in atto il 22 marzo nella capitale Bamako da reparti militari che hanno rovesciato il presidente Amadou Toumani Touré, ma che poi hanno accettato di avviare una transizione. Determinante è stata la pressione della Comunità economica dei Paesi dell’Africa occidentale (Ecowas) che avevano imposto sanzioni ai golpisti e minacciato un intervento armato.

Anche in questo caso, peraltro, la situazione resta fluida e incerta. Nonostante il consenso raggiunto tra civili e militari riuniti a Ouagadougou, in Burkina Faso, con i mediatori dell’Ecowas, sul futuro politico e istituzionale del Mali non c’è ancora chiarezza. A cominciare dalla scelta del primo ministro di transizione. L’incarico è andato a Modibo Diarra, presidente di Microsoft Africa, che è stato nominato dal capo di Stato ad interim, Diacoumba Traoré (l’ex presidente del Parlamento che aveva prestato giuramento il 12 aprile dopo l’intesa sottoscritta con l’Ecowas la settimana prima), ma è stato indicato dai militari golpisti guidati dal capitano Amadou Haya Sanogo.

La soluzione era prospettata nella dichiarazione conclusiva dell’incontro a Ouagadougou, è considerata però da molti osservatori incompleta e frutto di un compromesso al ribasso. Questo anche perché la durata della transizione non viene precisata, ma «sarà determinata dalla concertazione regionale tenendo conto del ripristino dell’integrità territoriale e della valutazione tecnica del processo elettorale».

In altre parole la transizione, fino a elezioni generali in sostituzione di quelle inizialmente previste per il 29 aprile, o sarà vincolata alla risoluzione della crisi del nord. Il che ad alcuni sembra una sorta di attenuante data dall’Ecowas al colpo di Stato militare che era stato giustificato proprio con l’incapacità del precedente Governo di fronteggiare l’insurrezione che in poche settimane aveva assunto il controllo del nord del Paese.

La clausola che tutti i membri della giunta militare e tutti gli esponenti del futuro Governo di transizione dalla candidatura alle prossime presidenziali potrebbe, comunque, essere ritenuta una garanzia per quanti temono che la posizione troppo morbida dell’Ecowas finisca per favorire un ritorno al potere dei militari.

La dichiarazione di Ouagadougou sollecita l’intera comunità internazionale a fornire un’assistenza umanitaria urgente alle popolazioni delle regioni settentrionali e a coinvolgersi per aiutare il Mali a ripristinare l’integrità territoriale. Ai gruppi armati che hanno preso il controllo dei tre principali centri (Gao, Kidal e Timbuctu) viene chiesto di far cessare immediatamente ogni violenza.

Sui ribelli dell’Mnla e sui gruppi islamici pesa la minaccia di intervento armato dell’Ecowas, tuttavia piccoli passi in avanti sulla strada del dialogo per scongiurare il ricorso alle armi sono stati compiuti negli ultimi giorni. A Nouakchott, la capitale della Mauritania, c’è stato un incontro tra una delegazione delle autorità di transizione di Bamako, guidata da Tiébilé Dramé, e una dell’Mnla. Le forze politiche maliane avevano chiesto al presidente mauritano, Mohamed Ould Abdel Aziz, contrario a un intervento militare, e a quello del Burkina Faso, Blaise Compaoré, di attivarsi per «aprire quanto prima negoziati tra ribelli tuareg e islamici e le autorità di transizione».

Anche il movimento islamico maliano di Ansar Eddine si è detto disposto a dialogare con le autorità di Bamako. Ma le posizione dell’Mnla e quelle dei gruppi islamici, compreso Ansar Eddine che è formato da tuareg, restano distanti e tali da poter rallentare o persino bloccare i tentativi di dialogo. L’Mnla ha ribadito che negozierà «l’indipendenza dell’Azawad» (proponendo un assetto federale), solo «se la comunità internazionale accetta di portarsi garante» dell’applicazione futura di un eventuale accordo.

Gli islamici di Ansar Eddine, invece sono contrari a dividere il Mali e, soprattutto, «respingono ogni mediazione occidentale nel dialogo intermaliano». Preferiscono seguire il canale dell’alto consiglio islamico del Mali, che raggruppa tutte le associazioni musulmane nazionali. Proprio a tale organismo, il gruppo ha consegnato quasi duecento militari liberati dopo essere stati fatti prigionieri nei combattimenti delle scorse settimane.

  

26 maggio 2012

La Giornata per la coesione del continente

Le Afriche che non si uniscono

 

Pierluigi Natalia

Sembra più un'occasione di rimpianti che per registrare successi la celebrazione della Giornata dell'unità africana, che si celebra questo 25 maggio in ricordo dell'istituzione, 49 anni fa, dell'Organizzazione dell'unità africana, poi trasformata dieci anni fa in Unione africana. La Giornata, promossa a suo tempo dall'Onu e oggi organizzata appunto dall'Unione africana, vede in tutto il mondo iniziative di sensibilizzazione sulle principali emergenze dell'Africa, ma sarebbe meglio dire delle Afriche, dato che più ancora che in altri continenti mancano suffienti parametri comuni.

L’Africa deve unirsi” fu il motto dell'epoca della decolonizzazione, lanciato da un celebre discorso pronunciato cinquant'anni dal padre del panafricanismo, Nkwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana. Da allora quell'appello è rimasto fondamentalmente tale, senza riuscire a trasformarsi in un programma politico reale, anche se in un cammino di mezzo secolo non sono mancati alcuni risultati parziali. Ma certo, rispetto alle aspettative di quella stagione, si tratta di successi troppo limitati, soprattutto alla luce di una convinzione, non negata da nessuno, che quella dell'integrazione continentale sia l'unica strada per costruire la pace e lo sviluppo economico e sociale.

Ancora qualche giorno fa, in una conferenza organizzata ad Addis Abeba dalla Fondazione per la collaborazione tra i popoli, Joseph Atta-Mensah, il direttore della Commissione economica dell’Onu per l’Africa (Uneca), ha sottolineato che le parole di Nkrumah valgono più che mai in un mondo multipolare dove entro quindici anni le potenze emergenti garantiranno oltre la metà della crescita globale. “L’Africa – ha sottolineato Atta-Mensah – è di fronte a una scelta: vuole restare divisa o trovare un suo posto in questa nuova realtà?”.

Le risposte a questo interrogativo sono ancora incerte, soprattutto perché nei diversi contesti africani il tema dello sviluppo s'intreccia in modo inestricabile a quello della pace e le stesse speranze per il futuro devovo confrontarsi sia con le eredità del passato, sia con le condizioni del presente, sia con l'inevitabile necessità di accettare la gradualità di ogni progresso duraturo. Del resto, come ha ricordato ad Addis Abeba Wane el Ghasim, il direttore del dipartimento dell’Unione africana per la pace e la sicurezza, anche in Asia molti Paesi sono usciti da una condizione di povertà solo 20 o 30 anni dopo la fine dei conflitti armati, così come è accaduto e sta accadendo nell'America Latina. Sembra purtroppo che per l'Africa ci vorrà ancora tempo, per accorciare il quale ci vorrebbe un impegno massimo a livello non solo continentale, ma mondiale, come sottolineato proprio da Wane el Ghasim.

Ma un simile impegno è ancora solo una speranza dei popoli del continente e degli autentici amici dell'Africa. Per dare un senso alle celebrazioni di questa come delle tante altre Giornate mondiali dedicate all'Africa servirebbe che questa speranza fosse capace di farsi progetto nel continente più devastato da violenze e discriminazioni, dove vengono continuamente rimessi in forse i processi di pace avviati e rimangono inattuati tutti gli impegni a promuovere forme di sviluppo sostenibile e socialmente indirizzato. Invece, le grandi potenze del mondo, economiche e politiche, in Africa trovano ancora più vantaggioso mantenere un atteggiamento di fatto neocolonialista piuttosto che reimpostare i rapporti su una cooperazione paritaria e mutualmente vantaggiosa, se non altro perché promotrice di sviluppo democratico. Di tale atteggiamento, interno ed esterno, le popolazioni continuano a pagare un prezzo inaccettabile di violenze, malattie e miseria.

Ma attribuire la responsabilità dei ritardi africani solo a vecchi schemi antimperialisti sarebbe fuorviante. Se nelle rivolte maghrebite e più in generale del mondo arabo c'è un aspetto di novità indiscutibile e un chiaro protagonismo di una generazione emergente, nell'Africa nera c'è soprattutto una continua recrudescenza di irrisolti e pluridecennali problemi, che travolgono una generazione dopo l'altra. Vale per il Sahel come per l'Africa occidentale, per i Grandi Laghi come per il Corno d'Africa. Vale per le tante guerre dimenticate dell'Africa, così come per le immani emergenze umanitarie che si protraggono e incancreniscono nel continente.

E intanto questa giornata del 25 maggio viene a ricordarci che l'Africa è il continente in maggiore ritardo per quanto riguarda i processi di integrazione. L'Unione africana è l'organismo che più più di altri della comunità internazionale resta poco reattivo nei confronti di cambiamenti. Non è un fenomeno isolato: accade in America Latina, nel Sud-Est asiatico e, in misura appena minore, nella stessa Unione europea. Ma è soprattutto l'Africa che non riesce a parlare con una voce sola nei contesti internazionali, e come tale è incapace di contribuire a determinarne le scelte. Ma la sfida della speranza in Africa sta soprattutto nel dar voce a chi non ne ha, non solo all'esterno, ma anche all'interno. Infatti, la via della mobilitazione dei cittadini per difendere la propria libertà non trova ancora a sud del Sahara il modo di di esprimersi e quindi di consolidare le democrazie del continente perennemente in crisi.