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Miscellanea 2011 - 2012 (3)

Miscellanea 2011 - 2012 (3) - Pierluigi Natalia

 

  

  

Africa

  

e non solo

  

21 giugno 2012

Nel 2011 il numero più alto dall'inizio del secolo

Un mondo di profughi

Pierluigi Natalia

Guerre e rivoluzioni nel 2011 hanno spinto alla fuga dalle loro case oltre 4.300.00 persone, comprese ottocentomila costrette a cercare scampo fuori dai confini dei loro Paesi, secondo i dati del Global Trends 2011, il rapporto annuale dell'alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr), diffuso in vista della Giornata mondiale del rifugiato del 21 giugno. Si tratta del numero più alto registrato in un solo anno dall'inizio di questo secolo, che pure ha già visto immani spostamenti forzati di popolazioni, soprattutto in seguito ai conflitti in Afghanistan e in Iraq e alle pluridecennali e irrisolte crisi in Sudan, Somalia e Repubblica Democratica del Congo. Sotto diretto mandato dell'Unhcr ricadono oltre la metà di queste persone, quasi 26 milioni, compresi circa dieci milioni e mezzo di rifugiati all'estero.

L'analisi della situazione conferma la falsità del luogo comune secondo il quale sarebbero i Paesi del nord del mondo a ricevere i flussi di profughi. Infatti, sono i Paesi in via di sviluppo continuano a ospitare la maggior parte dei rifugiati, con i 48 Paesi più poveri del mondo che garantiscono asilo a 23 milioni di persone. Tra questi il Pakistan che ne ospita 1,7 milioni, seguito dall’Iran e dalla Siria. Per quanto riguarda invece l’origine è l’Afghanistan il principale Paese di provenienza, con 2,7 milioni di persone che hanno lo status ufficiale di rifugiato, praticamente un quarto di quelli che rientrano sotto il mandato dell'Unhcr. Seguono Iraq (1,4 milioni), Somalia (1,1 milioni), Sudan (500.000) e Repubblica Democratica del Congo (491.000). Circa i quattri quinti dei rifugiati di tutto il mondo fuggono nei paesi limitrofi. Ciò si riflette ad esempio nelle numerose popolazioni di rifugiati presenti in Pakistan (1,7 milioni), Iran (886.500), Kenya (566.500) e Ciad (366.500).

Nel rapporto, l'Unhcr presenta in maniera dettagliata la portata delle migrazioni forzate, cominciate alla fine del 2010 in Costa d’Avorio e seguite da quelle della Libia, Somalia, Sudan e altri Paesi. «Il 2011 ha visto sofferenze di dimensioni memorabili. Il fatto che così tante vite siano state sconvolte in un periodo di tempo così breve implica enormi costi personali per tutti coloro che ne sono stati colpiti», ha detto l'alto commissario, Antonio Guterres, presentando il rapporto a Ginevra. Alla fine del 2011 in tutto il mondo vi erano 42,5 milioni di persone tra rifugiati (15,4 milioni), sfollati interni (26,4 milioni) o persone in attesa di una risposta in merito alla loro domanda d’asilo (895.000). Nonostante l’elevato numero di nuovi rifugiati, la cifra complessiva è risultata inferiore al totale del 2010 (43,7 milioni), soprattutto per effetto del ritorno alle proprie case di un gran numero di sfollati: 3,2 milioni, la cifra più alta da oltre un decennio. Per quanto riguarda i rifugiati, nonostante un incremento nel numero dei rimpatri rispetto al 2010, il 2011 si trova comunque al terzultimo posto per numero di ritorni a casa (532.000) nell’ultima decade.

Nell'analisi dell'ultimo decennio, il rapporto evidenzia tendenze preoccupanti sul piano non solo delle dimensioni del fenomeno, ma anche delle risposte politiche che giungono dai vari soggetti internazionali. In primo luogo, le migrazioni forzate sono imposte in misura sempre maggiore a livello globale, con cifre annuali che superano i 42 milioni di persone in ognuno degli ultimi cinque anni. Inoltre, chi diventa rifugiato ha un'altissima probabilità di rimanerlo per molti anni, spesso bloccato in un campo profughi o vivendo in condizioni precarie in un centro urbano. Quasi i tre quarti dei rifugiati assistiti dall'Unhcr (7,1 milioni di persone) si trovano in esilio protratto da almeno cinque anni, in attesa di una soluzione alla loro condizione.

Tra quelli industrializzati il principale Paese d’accoglienza è la Germania, con 571.000 rifugiati. Il Sud Africa è invece il primo paese per numero di domande d’asilo ricevute (107.000), confermando la posizione degli ultimi quattro anni. In percentuiale rispetto agli abitanti, il Paese europeo più accogliente è la Svezia, con 9 rifugiati ogni mille abitanti, seguita da Germania (7 ogni mille), Francia e Gran Bretagna (fra 3 e 4 ogni mille). Agli ultimi posti c'è l'Italia, con meno di un rifugiato ogni mille abitanti. Nel 2011 sono state presentate 34.000 domande d'asilo, con un incremento rispetto agli anni precedenti, determinato anch'esso dagli effetti della cosiddetta primavera araba e della guerra in Libia.

 

24 giugno 2012

Proteste popolari a Khartoum mentre Juba rischia la bancarotta

La crisi sudanese affama le popolazioni

Pierluigi Natalia

Nel sostanziale stallo dei negoziati tra Sudan e Sud Sudan per dare soluzione ai contrasti lasciati irrisolti dalla proclamazione, quasi un anno fa, dell'indipendenza sudsudanese, la crisi ha ripercussioni sempre più pesanti sulla vita delle popolazioni, non solo nelle aree di confine teatro della ripresa dei combattimenti. Per quanto riguarda il Sudan, le proteste che da giorni si segnalano in diverse città sono la spia di una situazione sempre più difficile in uno dei pochi Paesi dell'area che l'anno scorso non era stato investito dalle rivolte della cosiddetta primavera araba. Le proteste, originate dai rincari prezzi al consumo, avevano da principio visto protagonisti soprattutto gli studenti dell’Università di Khartoum, ma negli ultimi giorni si sono propagate ad altre città. Fonti locali hanno riferito di manifestazioni represse dalla polizia e di arresti dei loro organizzatori, oltre che nella capitale, nella città gemella di Omdurman, sulla sponda del Nilo, e ad al Ahlia.

Il malcontento giovanile, che dagli atenei minaccia di propagarsi all'intera società, riflette le difficoltà che il Sudan si trova ad affrontare in un momento di crisi economica senza precedenti. Il Governo ha annunciato rincari del carburante fino al 60 per cento e un raddoppio, dal 15 al 30 per cento, degli interessi bancari, secondo quanto comunicato al Parlamento dal ministro delle Finanze, Mahmoud al Rassoul.  

Inoltre è stata decisa un'ulteriore svalutazione della sterlina sudanese, per contrastare la disparità con i tassi del mercato nero. Tali politiche mirano a contenere un deficit di bilancio stimato intorno ai due miliardi e mezzo di dollari. 

Nel Paese, che subisce pesanti contraccolpi dalla separazione del Sud Sud, dove si concentrano la gran parte delle risorse petrolifere, l’inflazione ha raggiunto a maggio un tasso ufficiale del 30per cento, ma gran parte degli osservatori stimano il dato a oltre il 40 per cento.

 Fonti missionarie a Khartoum citate dall'agenzia Misna, sottolineano che se aumenta il prezzo del carburante, calmierato fino ad oggi grazie alle sovvenzioni, aumenterà tutto in un colpo solo. Prodotti, ma anche generi di prima necessità la cui consegna è inevitabilmente soggetta al trasporto su gomma. Senza contare che l’aumento dei prezzi si aggiunge a una situazione di penuria del carburante determinata dalla crisi di frontiera tra Sudan e Sud Sudan. In particolare, i bombardamenti delle scorse settimane su Heglig e combattimenti nei dintorni di altri giacimenti da cui il Governo sudanese si approvvigiona hanno determinato la sospensione delle attività estrattive. Le fonti citate dalla Misna riferiscono che le compagnie cinesi, che gestiscono gli impianti, vogliono garanzie per i loro operai e fino a quando la sicurezza non sarà ristabilita lavoreranno a singhiozzo.

 Anche il Sud Sudan, peraltro, è alle prese con difficoltà rese drammatiche dallo scontro con Khartoum. Il Governo di Juba in gennaio aveva deciso il blocco delle esportazioni di greggio nell'ambito del contenzioso con Khartoum sull'uso degli oleodotti e ha perduto finora il 98 per cento delle sue entrate valutarie. Per fronteggiare la situazione e per fare cassa, sta studiando misure straordinarie come prestiti esteri o da banche private, ma anche la vendita di concessioni petrolifere e minerarie. La possibilità di ricorrere a tali misure è stata prospettata dal ministro delle Finanze, Kosti Manibe Ngai, nel discorso con il quale a metà settimana ha presentato in Parlamento il disegno di legge di bilancio per l’anno fiscale 2012-2013. Nel documento le spese dello Stato sono fissate a sei miliardi e 400 milioni di sterline locali, circa un miliardo e 30 milioni di euro. Solo al pagamento degli stipendi dovrebbero essere destinati due miliardi e 900 milioni di sterline.

 Trovare nuove fonti di finanziamento è per il Sud Sudan un'esigenza immediata Secondo Manibe, infatti, le riserve di valuta estera a disposizione dello Stato non dureranno tutto l’anno. Si spiega così l’ipotesi della richiesta di prestiti e della vendita di concessioni per lo sfruttamento delle risorse naturali. “Questi prestiti – ha detto il ministro – non sono garantiti e potrebbero non essere offerti a tassi d’interesse accettabili; se non dovessero esserci nuove fonti di finanziamento, saremo costretti a disporre un’ulteriore riduzione delle spese”. 

  

1 luglio 2012

 

Elezioni generali in un Messico lacerato

Pierluigi Natalia

 Sembra più che probabile che le elezioni generali in Messico di questa domenica segnino il ritorno del Partido Revolucionario Institucional (Pri) alla guida del Paese, che aveva tenuto ininterrottamente per 71 anni fino al 2000, quando gli subentrò il Partido Acción Nacional (Pan) di centro destra, prima con il presidente Vincente Fox e poi con il capo di Stato uscente Felipe Calderón. Poco meno di 80 milioni di messicani sono chiamati alle urne domenica prossima, per eleggere un nuovo presidente, 500 deputati, 128 senatori, 925 sindaci, 5 governatori statali più il capo del governo del Distretto federale di Città del Messico e altri funzionari. Il candidato alla presidenza del Pri, Enrique Peña Nieto, è dato per certo vincitore dai sondaggi che lo accreditano di oltre il 43 per cento dei consensi. Come principale rivale, tra l'altro, Peña Nieto, ex governatore dello Stato di Mexico, dovrebbe avere  Andrés Manuel López Obrador,  conosciuto anche come Amnlo, il candidato  del Partido de la Rivolución Democratica (Prd), di sinistra, che lo segue nei sondaggi con oltre 15 punti percentuali in meno. La candidata del Pan, Josefina Vásquez Mota, già ministro dell’Istruzione nel Governo di Calderón, viene accreditata di meno del 24 per cento. Gli indecisi sono stimati comunque intorno al 20 per cento e una loro decisione in un senso o nell'altro potrebbe essere determinante per i risultati. Ma a frenare – e forse a impedire – il successo di Peña Nieto, impreditore e in pratica monopolista del settore televisivo, potrebbe esserre l'irruzione sulla scena politica del nuovo movimento studentesco YoSoy132 (io sono 132) che lo contesta duramente e che alcuni osservatori ritengono in grado di indirizzare verso López Obrador parte rilevante del voto giovanile, di grande importanza, dato che un quarto degli elettori hanno meno di 26 anni di età.

 In ogni caso, dopo dodici anni sembra essersi esaurito il consenso nei confronti del Pan che potrebbe in pratica quasi uscire di scena. Calderón lascia un Paese in gran parte nelle mani dei cartelli di narcotrafficanti, protagonisti di una violenza quotidiana e sistematica che ha provocato oltre cinquantamila morti, senza che sei anni di vera e propria militarizzazione del Paese abbiano portato a successi almeno parziali nella guerra al narcotraffico stesso che Calderón aveva lanciato come priorità del suo mandato e nella quale aveva fatto ricorso in modo massiccio all'esercito.

 

Di contro, gli esponenti del Governo uscente, e quindi Vásquez Mota, rivendicano quelli che ritengono lusinghieri risultati delle loro politiche liberiste, con un boom degli investimenti stranieri che ha rilanciato le esportazioni del Paese e portato ad un tasso di crescita che quest’anno potrebbe superare le stesse stime governative del 3,5 per cento. Lo scorso anno sono arrivati 18 miliardi di investimenti stranieri diretti, e per quest’anno le stime parlano di livelli almeno simili. "Le compagnie internazionali hanno capito che devono essere nel nostro Paese se vogliono esportare nelle Americhe", ha dichiarato ancora nei giorni scorsi il ministro dell'economia, Bruno Ferrari, in un'intervista rilasciata al “Financial Times” durante il g20 tenuto proprio in Messico. Sul fatto che questo si sia tradotto in un miglioramento delle condizioni, anche economiche, della popolazione esprimono però forti dubbi persino i commentatori internazionali di sicure concezioni liberiste. Sempre il “Finalcial Times” ha ricordato che nel Messico "bloody but booming" (insanguinato, ma in boom economico), le corporation internazionali si trovano bene perché, pur essendo vicine alle violenze, si sentono immuni per diversi ordini di ragioni. Primo perchè solitamente i loro stabilimenti si trovano negli enormi parchi industriali, protetti da massicce misure di sicurezza, sorti in tutto il Messico settentrionale, a poca distanza dal confine Usa, dopo il varo del Nafta, l'accordo di libero scambio nelle Americhe. Ma anche perchè, come ha sintentizzato sempre sul quotidiano finanziario londinese Alejandro Hope, ex funzionario dell’intelligence messicano ora consulente di sicurezza, "il crimine organizzato non sa cosa fare quando si tratta di multinazionali, la sua struttura di estorsione è fatta per le piccole e medie imprese messicane". Inoltre, dopo dodici anni, la popolazione messicana sembra in maggioranza non credere più al principio del libero mercato come volano di sviluppo.

 

In ogni caso, l’ondata di violenza che insanguina il Messico potrebbe arrivare a macchiare le elezioni di domenica: Leonardo Valdes, responsabile dell’Istituto federale elettorale (Ife), ha assicurato che la giornata elettorale «non sarà condizionata» dalla violenza, ma ha ammesso allo stesso tempo che sulle elezioni pesa il rischio non solo della guerra contro i narcotrafficanti, ma anche di possibili conflitti etnici e sociali, ammettendo che il 14 per cento delle 66.000 sezioni in cui è diviso il Paese rappresentano un «centro potenziale di insicurezza» per le operazioni di voto. 

 

  

3 agosto 2012

 

Approvata dall'Assemblea nominata dai clan

Costituzione provvisoria per una Somalia precaria

Pierluigi Natalia

 L'adozione della Costituzione provvisoria della Somalia da parte dall’Assemblea costituente, insediata a Mogadiscio dal 25 luglio, è stata indicata con enfasi dalle autorità locali come una tappa decisiva della transizione somala che deve concludersi entro il 20 agosto. “Vi posso annunciare che la Somalia oggi è uscita dal periodo di transizione”, ha detto il primo ministro somalo Abdiweli Mohamed Ali, sebbene ancora manchino diverse tappe alla conclusione del processo politico avviato sotto l’egida dell’Onu. Manca, soprattutto, l'effettiva normalizzazione di un Paese da oltre un ventennio ostaggio di una guerra civile continua, con diverse fasi di intensità e diversi protagonisti. Ne ha fornito l'ennesima prova il fatto che i lavori dell'Assemblea si siano conclusi subito dopo che due attentatori suicidi avevano tentato di introdursi nella sede in cui erano riuniti gli 825 delegati in rappresentanza dei vari clan somali, senza però riuscirci, dato che le forze di sicurezza li hanno fermati prima che potessero raggiungere il loro obiettivo, di modo che sono stati le uniche vittime delle esplosioni che hanno innescato.

 

Le prossime tappe fissate dalla comunità internazionale sono la nomina dei deputati della futura Assemblea nazionale, che saranno designati dai capi tradizionali dei clan somali. A loro volta i deputati eleggeranno il capo dello Stato e questo nominerà un primo ministro incaricandolo di formare il Governo. Il tutto, come detto, entro il 20 agosto, quando scadrà il mandato delle attuali istituzioni di transizione.

 

Ammesso che si rispettino tali scadenze, rimangono praticamente da superare tutti gli ostacoli sostanziali, dalla sicurezza alla stabilizzazione, dalla giustizia al coordinamento internazionale, mentre lungo il cammino verso la pace restano le persistenti pietre d’inciampo sia dei ribelli armati sia dei principali contrasti politici, istituzionali, culturali e di indirizzo economico tra le fazioni somale.

 

Il testo approvato dagli 825 delegati dell'Assemblea costituente, che hanno lavorato per appena una settimana su una bozza preparata per loro da responsabili dell'Onu. entra immediatamente in vigore, ma resterà provvisorio fino a un referendum popolare. Tra le questioni di principio irrisolte, che il testo minaccia anzi di rendere concretamente impossibili da tutelare c'è la libertà di culto, dato che non solo l'islam viene definito religione di Stato, ma in pratica unica fonte di diritto. Così come non vi è traccia della richiesta, più volte avanzata dal Gruppo internazionale di contatto per la Somalia, di creare in pratica dal nulla un settore indipendente per la gestione della giustizia, fondato sul rispetto dei principi internazionali.

 

Anche sul piano politico, le formule di compromesso trovate finora non sembrano aver risolto i nodi dei rapporti tra il Governo centrale e le regioni da tempo proclamatesi autonome del Puntland, del Somaliland e del Galmudug. La questione è rilevante anche sul piano economico. Sui temi della ricostruzione e dei finanziamenti tutti gli attori internazionali hanno ribadito negli ultimi mesi consenso e impegni, almeno in linea di principio, ma anche sotto questo aspetto ci sono interessi interni e esteri difficili da conciliare. Per esempio, l’anno scorso sono stati scoperti importanti giacimenti petroliferi sottomarini al largo delle coste del Puntland, o meglio ne è stata confermata la presenza. Secondo alcune fonti, anzi, sarebbero già incominciate le trivellazioni in alto mare, anche se non ancora il pompaggio, a opera soprattutto della British Petroleum.

A gestire l'industria petrolifera, come pure la riscossione delle tasse e dei proventi dei commerci e dei traffici portuali sarà il Joint Financial Management Board, organismo composto da rappresentanti somali, ma soprattutto di Francia, Gran Bretagna, Unione europea, Banca Mondiale. Il bord è formalmente incaricato di aumentare la trasparenza e di rafforzare le istituzioni pubbliche nella gestione finanziaria. Ma diversi osservatori hanno dubbi sulle disinteressate intenzioni dei membri di tale organismo. Al tempo stesso, l’assenza vistosa nel bord di attori non tradizionali in Somalia, quale la Turchia, che ultimamente hanno contribuito significativamente alla ricostruzione di Mogadiscio e avviato programmi di sviluppo nelle regioni sottratte al controllo di al Shabaab, lasciano intravedere i contrasti e le forze che si agitano dietro le quinte. A conferma che il disastro somalo, in definitiva, potrebbe trasformarsi in un vero e proprio eldorado per chi riuscirà ad assicurarsi un posto in prima fila nella ricostruzione post-bellica.

 

Il tutto mentre resta incerta la prospettiva di pieno successo dell’offensiva delle forze governative e dell’Amisom, la missione dell’Unione africana, contro le milizie radicali islamiche di al Shabaab, protagoniste da anni della ribellione contro le autorità di transizione, internazionalmente riconosciute, guidate dal presidente Sharif Ahmed. Oltre tutto, la scelta di al Shabaab di affiancare all'azione militare gli attentati terroristici, sia in Somalia sia nei Paesi che forniscono truppe all'Amisom, mantiene viva una minaccia reale sulla prospettiva di pacificazione. L'Amisom e le forze governative non hanno infatti ripreso il controllo completo del territorio, il che protrae tra l'altro le difficoltà di far arrivare i necessari aiuti umanitari alle stremate popolazioni, soprattutto del sud. Di conseguenza, si rischia di non avere il tempo per fronteggiare adeguatamente la minaccia di una nuova carestia, mentre diversi segnali indicano come stiano tornando le condizioni che un anno fa provocarono una crisi alimentare con decine di migliaia di vittime. Soprattutto nel sud della Somalia, per quasi un milione e mezzo di civili, in particolare sfollati, si prospetta una nuova emergenza in un contesto già segnato da livelli di malnutrizione acuta.