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Natale 2016

Ci è dato un bambino

 

21 dicembre 2016

Si rischia la banalità dopo tanti anni spesi come giornalista e come osservatore di questioni internazionali nello scrivere dell'arrivo del Natale quando si è spinti dal duplice, severo monito dei fatti e dell’ispirazione cristiana, dell’esame della storia come vicenda in cui incarnare il Vangelo. Il rischio del commentatore è quello del generico appello ai “buoni sentimenti” o della semplice denuncia del travisamento del significato del giorno in cui la Chiesa fa memoria dell’Incarnazione. Il rischio del giornalista è quello di smettere di fare – e di farsi – domande e di cercare risposte e notizie da diffondere.

Nei manuali di giornalismo si sostiene che una notizia ben data, oltre a documentare le fonti, debba contenere cinque elementi. In gergo si dice le cinque “W”, perché in inglese si esprimono con parole che incominciano appunto con quella lettera, cioè “who” (chi), “what” (cosa), “when” (quando) “where” (dove) e “why” (perché). E allora proviamo a seguire il manuale, anche se tra le domande relative alla “notizia Natale” ce ne possono essere alcune all’apparenza paradossali. Chi è il soggetto della notizia? Cosa è l’avvenimento che si commenta? Quando avviene? Dove accade? Perché si verifica?. Sembrerebbe facile: Gesù (chi) nasce (cosa) circa duemila anni fa (quando) a Betlemme (dove) per redimere il mondo dal peccato (perché). Quanto alle fonti, ci sono i Vangeli. Ciò detto, l’articolo sembrerebbe finito e magari sarebbe un bene perché lascerebbe spazio a penne migliori di quella di chi scrive. Però (c’è sempre un però) nessun buon giornalista si accontenta di una prima risposta, per quanto autorevole possa essere la fonte, e cerca di scavare ancora un po’.

E allora, indipendentemente dal fatto storico accaduto duemila anni fa, se si assume il concetto che Gesù è con noi ogni giorno, in ogni situazione, anche la più semplice di quelle domande può suscitare altre domande e altre risposte. Ad esempio: oggi dove nascerebbe Gesù se per un paradosso teologico volesse tornare ad incarnarsi? E se decidesse ancora per Betlemme (la storica città profetata come patria del Messia d’Israele, ma oggi in territorio palestinese) sarebbe un israeliano o un palestinese, si innesterebbe nella tradizione israelitica o in quella musulmana o, magari, il quella della residua minoranza cristiana che abita la Terra che le tre religioni abramitiche definiscono Santa?

E ancora: nascerebbe nel Nord del mondo dove il predominio del consumo si sposa a un indurimento dei rapporti sociali frutto di una crescente perdita di senso, o nel Sud devastato un cui si muore o da cui si fugge per andare incontro a crescenti rifiuti, respingimenti, nuove vessazioni?

Ovviamente la risposta univoca non esiste, ci sono solo quelle determinate da opinioni personali più o meno maturate attraverso l’esame della realtà, c’è solo il più o meno ragionevole convincimento di ciascuno. Però (c’è sempre un però) se vuole stare ai fatti e all'ispirazione cristiana, non può ignorare che tutto il Vangelo (e tutta la dottrina sociale della Chiesa) raccontano un’opzione preferenziale per il povero. Ed oggi, nascere poveri significa con una ragionevole probabilità percentuale nascere tra gli affamati, tra le vittime di guerre interminabili, tra i profughi.

Ma forse, nel caso di questa paradossale nuova nascita, i Vangeli andrebbero riscritti, magari perché la Madre e il suo sposo da qualunque Nazareth in Galilea a qualunque Betlemme in Giudea non ci arriverebbero proprio, fermati dagli estenuanti blocchi che gli egoismi e la paura costruiscono in ogni parte del mondo. E invece che in una grotta scaldata dal fiato di animali, Gesù nascerebbe nel fango di una tenda improvvisata ò sul sedile di una macchina arroventata, lungo quelle barriere che accrescono il rancore.

Mi capita spesso di trovarmi immerso in scambi di opinioni proprio sul significato del Natale. Si va a una recita di bambini e si sentono raccontare strane favole riguardo a stelle comete che si perdono e chiedono informazioni a renne parlanti che trascinano slitte cariche di doni. Incontro continuamente persone di apparente levatura sia intellettuale sia morale secondo le quali la definizione non solo mia preferita, ma filologica del Natale (“il Bambino che nasce”) non sarebbe corretta perchè “confessionale e non universale” e sarebbe invece opportuno considerare questa festa “come – cito un vecchio amico in una discussione di qualche anno fa - la fine dell'anno ovvero un momento di presa di coscienza di sé in cui si tirano le somme, si pesano le proprie azioni e omissioni, si rinnovano i proponimenti e si fanno i programmi per l'anno successivo”. Un altro amico, intervenendo nel dibattito, a sua volta definiva un po’ infantile il mio riferimento al Bambino. All'epoca pensai per un momento di rispondere, a proposito di infantilismo, che “tirare le somme, pesare azioni e omissioni, rinnovare proponimenti e fare programmi” sembra molto la “letterina” che da bambini, con più o meno spontaneità, scrivevamo per Natale ai genitori. Poi cominciai a riflettere – e continuo a farlo da anni - sul merito delle posizioni che mi si contrapponevano. E sono appunto posizioni che sollecitano domande.

Le risposte – ovviamente personali – sono le stesse da dare alle domande “paradossali” di cui scrivevo prima. Pur nell’assoluto rispetto di ogni convinzione, pur nella determinazione e persino nell’ostinazione del dialogo con l’altro, per il cristiano il Natale è un fatto identitario. Per il cristiano il Natale non è, non può essere una generica festa della gioia, dei doni, magari della rafforzata unità delle famiglie, non è la favola pseudo rassicurante di Babbo Natale, peraltro ridotto da decenni a testimonial della Coca Cola e di altri prodotti di consumo.

Il Natale è storia. Anzi, è il punto cruciale della storia, è l’Incarnazione. E se di storia di oggi bisogna parlare, se sulla speranza di sempre bisogna oggi interrogarsi, allora il Dio che si fa Bambino vuole nascere povero tra i poveri, a Betlemme (di Giuda o di Cisgiordania che sia) come in ogni luogo dove il povero interpella la coscienza di tutti. E il povero più colpito è il bambino, derubato non solo del presente, ma della speranza del futuro, se non del fatto stesso di averlo un qualche futuro.

Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Già duemila anni fa, all’esultanza del Natale del Bambino fece quasi immediato riscontro l’orrore, già allora il marchio di Erode venne a ricordare alla Madre, a tutte le madri, che su ogni innocenza è in agguato una spada.

Si, il Vangelo ci dice che il Natale non è certo “cartolina” o “fumetto”.

Ma pure Natale è speranza e certezza. Concludo con un pensiero su Maria che mi accompagna da tempo e del quale mi fece dono un amico, un sacerdote francescano che è tra le persone che più stimo. Questo frate mi disse una volta che Maria è colei che consente di prendere Dio fra le braccia. Mi sembrò e continua a sembrarmi un pensiero stupendo e gravido di significati. Lo “giro”, quindi a tutti voi, felice, ameno una volta, di poter essere un giornalista che dà notizie buone. Auguri a tutti e che Dio vi benedica.