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Dopo sei anni di guerra civile

Dopo sei anni di guerra civile - Pierluigi Natalia

    

Discarica

 

libica

 

 Marzo 2017

 

Avete presenti quei bambini che non vogliono lavarsi perchè tanto poi si risporcano? Un po' alla volta, talora imponendosi, si spiega loro che l'igiene è una questione quotidiana che non può essere trascurata, altrimenti si accumulano sporcizia, germi nocivi e si compromette la salute dell'organismo. Per l'igiene sociale, soprattutto nei rapporti internazioni, la questione è simile, ma ai comportamenti patogeni si continuaa dare spazio. Un esempio evidente viene dalla Libia, dove sei anni dopo la rivolta che portò alla caduta di Gheddafi e alla sua uccisione, la situazione si è incancrenita. Caos, guerra civile, instabilità e frammentazione lasciano campo libero da un lato a terroristi e trafficanti di esseri umani, dall'altro – per usare un'espressione da medioevo europeo o magari da scenari da fantasy – a baroni che voglioni farsi re.

Per semplificare, i soggetti in conflitto sono tre, Khalifa al-Ghwell, l'ex-premier che gioca un ruolo di terzo incomodo fra il presidente del Consiglio presidenziale oggi appoggiato dall'Onu, Fayez Al-Sarraj, e l'uomo forte della Cirenaica sostenuto dal Parlamento libico di Tobruk, il generale Khalifa Haftar. Poi ci sono gli islamisti radicali che dichiarano appartenenza all'Isis e – cosa che la stampa internazionale tende sempre a dimenticare, i tuareg del sud-ovest, la cui condizione è da un decennio coinvolta in tutte le crisi sahariane. Anche di al-Ghwell, capo dell'alleanza di milizie filo-islamiche Fajr Libya (Alba della Libia), in gran parte formata dalle milizie d Misurata, che conquistò Tripoli nell'estate 2014, si erano dimenticati in molti, compreso il Governo italiano che ha firmato un accordo con Sarraj volto proprio a bloccare i barconi dei migranti.

Ma anche se ora a Tripoli c'è Sarraj, che a metà febbraio ha definito "fuori legge" la cosiddetta Guardia nazionale, cioè le milizie che appoggiano al-Ghwell, quest'ultimo ha dimostrato di essre tutt'altro che fuori partita. Tra l'altro, il 17 febbraio, nel sesto anniversario della rivoluzione, ha ha potuto inscenare una riapertura dell'aeroporto internazionale della capitale libica, semidistrutto nei combattimenti di tre anni fa. In ogni caso, i miliziani di Misurata che hanno combattuto per liberare Sirte dall'Isis l'anno scorso ora vogliono un posto nella mappa del potere libico. A quanto risulta a chi scrive, al-Ghwell si è alleato con la tribù dei Warshafana, tradizionalmente vicina ad Haftar e che controlla la parte a ovest di Tripoli. Da parte sua, Sarraj non riesce ad ottenere la fiducia del Parlamento di Tobruk che vuole ancorare in costituzione un ruolo per Haftar.

Questo, per grandi linee, è il puzzle libico sei anni dopo la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che il 19 marzo 2011, a guerra civile appena incominciata, avallò, al dichiarato scopo di tutelare la popolazione civile libica, l'intervento della Nato voluto fortemente dalla Francia, ma con l'appoggio di diversi altri Paesi, compresi Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Tra gli occidentali, parteciparono all'azione Canada, Gran Bretagna e Stati Uniti, all'epoca nel primo mandato presidenziale di Obama con Hillary Clinton Segretario di Stato, un'amministrazione di Washington che in quegli anni, riguardo a quanto stava avvenendo nei Paesi delle cosiddette primavere arabe, a essere benevoli capì poco e a essere un po' più espliciti fece più danni che altro. E per inciso, supporto a quell'intervento armato diede anche il Governo italiano, all'epoca guidato da quel Silvio Berlusconi, poco tempo prima irriso in tutto il mondo per aver baciato pubblicamente la mano a Gheddafi, che si era presentato a Roma con la sua tenda da beduino e con quaranta cosiddette amazzoni della sua guardia personale.

Ma non furono certo gli aspetti “scenografici”, tanto decantati dalla stampa internazionale, a costituire il cuore del quarantennio di potere del leader libico, né sei anni fa a decretare la fine della Jamaria (letteralmente Stato governato dalle masse) il sistema “socialismo islamico” inventato da Gheddafi e che di fatto aveva garantito a lui il controllo del Paese, ma anche una convivenza sostanzialmente pacifica tra la miriade di tribù, diverse e storicamente conflittuali, che compongono la popolazione del Paese, in un complicato ma tutt'altro che precario equilibrio con i gruppi di potere urbani, gli apparati amministrativi e le società straniere che non hanno mai smesso di controllare i giacimenti petroliferi. E proprio il vacillare dello status quo di questo controllo, con la prospettiva di perdite di quote per gli occidentali, soprattutto europei, aiuta a comprendere perché la Nato avesse tanta fretta di liquidare Gheddafi una volta per tutte.

Eppure la narrazione degli avvenimenti di sei anni fa, con poche lodevoli eccezioni, in Occidente e non solo, fu quella di una lotta del bene contro il male: da una parte il dittarore cattivo, dall'altra gli insorti buoni. Mai in una crisi internazionale le grandi potenze si erano mosse con tanta tempestività. Dai fatti di Bengasi del 17 febbraio alla risoluzione del Consiglio di sicurezza, passò appena un mese. Per fare solo un esempio, in Bosnia ed Erzegovina (che produce cavoli e non petrolio) c'erano voluti tre anni nonostante che massacri e pulizie etniche fossero note a tutti.

L'intervento “a tutela delle popolazoni civili” fu in realtà una serie di sistemati bombardamenti contro le forze governative e favorirì in modo determinante la vittoria dei ribelli, che non erano certo una coalizione impegnata in una guerra di liberazione nazionale. L'azione delle milizie si rivelò subito puro e semplice bandidsmo, con rapine e distruzioni e violenze di ogni tipo contro civili inermi, comprese appunto le pulizie etniche, come quella dei circa centomila abitanti non arabi di Tawargha, obbligati a fuggire verso il Sahara, dove se ne persero le tracce.

Se una cosa le milizie ribelli sapevano era che senza il sostegno della Nato non avrebbero mai sconfitto le forze governative. Forse questo avrebbe potuto consentire di metterli tutti intorno a un tavolo e obbligarli a trattative. Invece ciascun soggetto libico e internazionale pensò di poter giocare il proprio ruolo a tutela del proprio esclusivo interesse. E, come detto, la partita in Libia si chiama petrolio. Non a caso, tutti i belligeranti si guardarono bene dal distruggere i pozzi e gli impianti energetici.

Ma, tolto questo aspetto, la partita ha continuato a incattivirsi, mostrando quanto fosse falsa quella narrazione. La “rivoluzione” assistita dalla Nato non ha fatto emergere alcuna classe dirigente credibile, né ha portato ai compromessi sui quali costruire un nuovo patto sociale e quindi la pace.

E oggi la Libia è un Paese ancora senza controllo, senza alcuna forma di statualità, dove i commercianti di uomini imperversano buttando a mare i disperati che sognano una vita migliore in Europa. E a noi occidentali, soprattutto a noi italiani primi destinatari insieme ai greci delle rotte della disperazione, sembra interessare solo impedire che arrivino. Del resto, la vittoria di Trump nelle elezioni statunitensi ha tolto ogni remora a quanti dichiarano espressamente che i migranti sono nemici, tutti potenziali terroristi.

Né si tratta, come ancora poteva pensarsi fino a qualche anno fa, di minoranze, magari nutrite, ma comunque minoranze. Oggi la politica si fa in prevalenza con l'attenzione non alle effettive richieste sociali, soprattutto dei ceti più svantaggiati, ma ai brontolii di pance che anni e anni di disinformazione, di comunicazione isterica e senza controllo, hanno di fatto scollegato dal cervello e dal cuore.