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Parigi teatro di un feroce attacco del terrorismo jihadista

Il lutto e il coraggio

 

14 novembre 2015

Parigi, la Francia, l'Europa tutta si sono svegliate stamani – seppure gli avvenimenti hanno consentito un riposo notturno – nel lutto dopo il feroce attacco del terrorismo jihadista di ieri sera. Sono state uccise quasi centotrenta persone — 128 secondo i dati ufficiali, al momento in cui scrivo, di un bilancio che però continua purtroppo a essere aggiornati di ora in ora — e ne sono state ferite oltre duecentocinquanta, un centinaio delle quali giudicate dai sanitari in condizioni critiche. Numeri terribili che fanno del molteplice attentato il più grave mai messo in atto in Francia.

I principali attacchi sono stati portati allo Stade de France, dove si stava giocando una partita di calcio tra le rappresentative di Francia e di Germania, e nella sala concerti Bataclan, dove si stava esibendo un gruppo rock americano. Qui i terroristi hanno preso in ostaggio centinaia di ragazzi e poi hanno aperto il fuoco, uccidendone almeno ottanta, prima di farsi esplodere quando è scattato l’intervento delle forze speciali. Quasi contemporaneamente, in diversi altri punti di Parigi, i terroristi aprivano il fuoco contro alcuni locali.

Ma c'è un altro aspetto da sottolineare. Il terrorismo ha come scopo quello che il suo stesso nome identifica: seminare il terrore, spingere le vittime a chiudersi in sé stesse, minare quei valori di solidarietà e civile convivenza alla base del nostro sistema di vita. Ma nell'ora più difficile, Parigi ha saputo rispondere con umanità e coraggio, con una diffusa azione di sostegno reciproco. Diversi cittadini hanno scelto di non barricarsi in casa e hanno aperto le porte delle loro abitazioni alle persone in fuga nelle strade. I tassisti di Parigi hanno portato in salvo molte persone, rifiutando di accettare pagamenti. Così come, quando dopo molte ore di angoscia gli spettatori dello Stade de France, dove gli attacchi sono incominciati, hanno potuto lasciare l’impianto, lo hanno fatto cantando la Marsigliese.

Sono diverse le chiavi di lettura con le quali un commentatore può leggere questa ennesima sfida del terrorismo jihadista. Il più sbagliato è certo quello xenofobo e razzista, uguale nei jihadisti che chiamano “crociati” gli occidentali e nei sedicenti patrioti di casa nostra che chiamano terroristi gli islamici tout cort. Certo, quanto accaduto a Parigi è una nuova pagina di quella che Papa Francesco ha definito “terza guerra mondiale a pezzi” . Una guerra che in questi anni si è combattuta quasi in ogni continente, ma che che vede l'Europa e l'Occidente in genere coinvolti soprattutto negli scenari nordafricani e del Vicino e Medio Oriente. Proprio oggi, a Vienna, c'è un'ennesimo vertice tra i Paesi coinvolti nella crisi siriana nella quale si è innestata la sfida dell'Isis. Non ne sta emergendo, ancora una volta, una strategia comune. E proprio questa servirebbe di fronte alla sfida del terrore, che ha ormai sempre meno confini nazionali. Basti pensare, oltre alla Siria e all'Iraq, alla Libia, dove le violenze tra milizie rivali non conoscono tregua e il dialogo sulla proposta di pace delle Nazioni Unite si è arenato. Ma anche alla nuova accentuazione di quelle in Isrele e nei Territori palestinesi.

La scelta di Parigi come obiettivo dei terroristi può probabilmente essere figlia del pesante coinvolgimento militare francese in Iraq e in Siria, dopo quelli in Libia e nel Mali (per non parlare di altri scenari dell'Africa sahariana). Né – obbligo di vigilanza a parte – in questo senso cono completamente infondate le valutazioni di quanti giudicano meno credibili le minacce all'Italia, se non fosse per il fatto che qui c'è il Vaticano. (Ma anche sotto questo aspetto è difficile credere che un solo musulmano possa giudicare un nemico un Papa come Francesco, chiaramente caratterizzato per la sua vicinanza ai poveri in genere e ai Paesi poveri in particolare).

Ma non possono ignorarsi altre circostante delle ultime settimane. A metà di ottobre Ayman Al Zawahiri, successore di Osama bin Laden al vertice di Al Qaeda, si era rivolto in un messaggio audio all'Isis ) proponendo «l’urgente unione dei jihadisti» per lanciare un massiccio attacco contro «occidente, Russia, hezbollah e alawiti», a conferma che lo scontro tra sunniti e sciiti è “un pezzo della guerra mondiale a pezzi” molto più evidente del presunto scontro tra islam e occidente. E l'appello sembra essere stato raccolto. Ne hanno dato conferma, prima ancora della strage di ieri sera a Parigi, l’ordigno che ha seminato morte ad Ankara, il disastro dell'aereo russo nel Sinai e la bomba che due giorni fa ha dilaniato il cuore di Beirut.

Ma c'è un altro aspetto da sottolineare. Il terrorismo ha come scopo quello che il suo stesso nome identifica: seminare il terrore, spingere le vittime a chiudersi in sé stesse, minare quei valori di solidarietà e civile convivenza alla base del nostro sistema di vita. Ma nell'ora più difficile, Parigi ha saputo rispondere con umanità e coraggio, con una diffusa azione di sostegno reciproco. Diversi cittadini hanno scelto di non barricarsi in casa e hanno aperto le porte delle loro abitazioni alle persone in fuga nelle strade. I tassisti di Parigi hanno portato in salvo molte persone, rifiutando di accettare pagamenti. Così come, quando dopo molte ore di angoscia gli spettatori dello Stade de France, dove gli attacchi sono incominciati, hanno potuto lasciare l’impianto, lo hanno fatto cantando la Marsigliese.

Le indagini sulla strage parigina potranno smentirmi – ma non credo – in una certezza interiore che mi viene da decenni trascorsi fra le tragedie del mondo, soprattutto del suo Sud devastato. Coloro che hanno seminato morte a Parigi non sono giunti da poco in Europa, magari su quei barconi fatiscenti che portano tanti uomini, donne, bambini alla morte nel Mediterraneo. Sono cittadini europei, figli o magari nipoti di immigrati arrivati molti decenni fa. Se oggi rifiutano e combattono il nostro stile di vita non è per una scelta religiosa, ma per l'assenza di convinzione in valori spesso sbandierati, ma di fatto mai riconosciuti davvero come diritti di tutti, dalla libertà all'uguaglianza.

La crisi economica imposta da anni al mondo da una finanzia predatoria avallata da politiche miopi che in nome di presunti pareggi di bilancio massacrano le conquiste dello Stato sociale, hanno precluso a tanti giovani persino la “via debole” del consumismo. La crisi ha infatti tolto loro persino questa ultima prospettivo, questa presunta ciambella di salvataggio di una società in cui l''interesse del singolo è unico metro di valutazione. Come nel Mediterraneo da tempo naufraga, insieme con tante vite umane, lo spirito istitutivo dell'Europa culla dei diritti dell'uomo, così naufraga la speranza di integrazione e di pacifica convivenza per gli emarginati da una pseudocultura occidentale che ha da tempo smesso di interrogarsi intorno alle questioni centrali, antropologiche prima che religiose, della vita e della morte.