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Quello della morte di Ariel Sharon

Quello della morte di Ariel Sharon - Pierluigi Natalia


Un ordinario

 

giorno di guerra

  

  

11 gennaio 2014

Quello di oggi è stato un “ordinario giorno di guerra”, anche se negli annuari internazionali sarà ricordato, probabilmente, soprattutto per la morte dell’ex premier israeliano Ariel Sharon, uno dei principali protagonisti della storia del suo Paese. Sharon, che il 28 febbraio avrebbe compiuto 86 anni, era in coma da otto anni, in seguito a una grave emorragia cerebrale che lo aveva colpito il 4 gennaio 2006. La sua figura sembra destinata a rimanere controversa. Da un lato fu il responsabile del massacro nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila, nel 1982 in Libano. Ma fu anche il primo ministro che nel 2005 decise il ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza.

Né certo, in questi otto anni la pace tra israreliani e palestinesi ha fatto pregressi. Ancora ieri, il Governo israeliano ha pubblicato bandi di appalto per 1.400 nuove case in Cisgiordania e a Gerusalemme est. La decisione, che fa seguito ad altri analoghi annunci avutisi negli ultimi giorni, è stata duramente contestata dai palestinesi. Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), l’ha definita «un messaggio» diretto a Washington e al suo segretario di Stato, John Kerry, «una forma di sabotaggio contro i suoi sforzi per la pace». È un invito — ha aggiunto Erekat — «a non tornare nella regione per proseguire gli sforzi nei negoziati tra Israele e palestinesi».

Ma non sono solo i palestinesi a protestare. Anche Yar Lapid, il leader del partito centrista Yesh Atid e attuale ministro delle Finanze israeliano, ha criticato la mossa dell’Esecutivo. «Gli appalti — ha dichiarato Lapid — sono solo dichiarazioni di intenti, prive di contenuto: una cattiva idea». Poi ha annunciato che il suo partito farà «il possibile» affinché questo progetto «non venga realizzato». Dichiarazioni significative, queste, tenuto conto del fatto che il partito di Lapid ha un ruolo chiave nella maggioranza che sostiene il Governo di Benjamin Netanyahu, il leader del Likud, il partito cardine della destra israeliana, che Sharon lasciò a suo tempo per fondare, con il labourista Shomon Peres, il Kadima, un nuovo partito che nelle intenzioni avrebbe dovuto raccogliere le parti israeliane più decise a mandare a buon fine il pluridecennale negoziato con i palestinesi. Presentatosi per la prima volta alle elezioni legislative israeliane nel 2013, Yesh Atid ha ottenuto a sorpresa il secondo posto dietro il Likud.

Da New York, intanto, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, non ha nascosto l’allarme per questi sviluppi della situazione: la politica di Netanyahu sugli insediamenti in Cisgiordania e su Gerusalemme est — ha ammonito — «non è solo illegale, ma rappresenta anche un ostacolo alla pace».

La notizia della morte di Sharon ha fatto modificare l'impaginazione dei giornali e le scalette delle trasmissioni radiotelevisive. Paradossalmente, per un uomo che ha trascorso in guerra tutta la vita, la sua morte è avvenuta in un giorno nel quale non sono stati segnalati fatti di sangue in Israele e nei Territori palestinesi. Eppure, come detto, questo 11 gennaio 2014 è stato, come detto, l'ennesimo “ordinario giorno di guerra” in gran parte del mondo, compresa proprio la tormentata regione mediorientale. Di segito, a riprova, le notizie da tre teatri di stragi

 

IN SIRIA

 

Dopo quasi tre anni di conflitto e nell'incertezza sugli esiti della conferenza di pace convocata per il 22 gennaio prima a Montreux e poi a Ginevra, le popolazioni siriane restano in ostaggio di una crisi spaventosa che in ogni caso appare destinata a comprometterne il futuro sviluppo. È quanto emerge dalle affermazioni fatte ieri dal segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, durante la tradizionale conferenza stampa di inizio anno al Palazzo di Vetro di New York. Due ospedali su cinque, ha dichiarato il segretario generale, sono stati distrutti e lo stesso è accaduto per molte scuole e altre infrastrutture. «Le parti in guerra devono rendersi conto che hanno ormai perso decenni di sviluppo del loro Paese e che un’intera generazione è a rischio», ha detto Ban Ki-moon, dichiarandosi particolarmente allarmato per gli effetti regionali e globali del conflitto.

Tra i pochi aspetti positivi, c’è il sostanziale rispetto dei programmi stabiliti dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) e dall’Onu sulla distruzione dell’arsenale siriano. «Anche se c’è stato un piccolo ritardo, tutto ora sta procedendo secondo i programmi e la missione Onu-Opac sta lavorando giorno e notte per rispettare l’ambiziosa tabella di marcia della distruzione delle armi», ha sottolineato il segretario dell’Onu. Poco prima era stata la responsabile della missione, la diplomatica olandese Sigrid Kaag, a dichiarare in un’intervista all’emittente Al Arabiya che il Governo siriano riuscirà a rispettare il termine del 31 marzo per la consegna di tutte le sue armi chimiche.

La diplomazia internazionale, intanto, tenta di sciogliere i nodi legati alla conferenza di pace, la cosiddetta Ginevra 2, che proiettano ombre sulle sue possibilità di successo. Sembra comunque essere stato raggiunto uno degli obiettivi, quello di avere al tavolo dei negoziati una delegazione sufficientemente rappresentativa dell’opposizione al presidente siriano Bashar Al Assad. Con questo esito, infatti, si sono conclusi due giorni di riunioni, ieri e l’altro ieri a Córdoba, in Spagna, tra diversi gruppi appunto d’opposizione, compresa la Coalizione nazionale siriana, protagonista dell’originaria insurrezione, quasi tre anni fa, contro Assad e considerata il principale interlocutore di tutti quei Paesi che chiedono l’uscita di scena del presidente siriano.

Resta invece aperta la questione della partecipazione dell’Iran, principale alleato regionale del Governo di Damasco. A opporsi sono sia alcuni Paesi dell’area, come Arabia Saudita, Qatar e Turchia, sia soprattutto gli Stati Uniti, organizzatori della conferenza insieme con l’Onu e la Russia, che al contrario ritengono positiva, se non indispensabile, la presenza di Teheran. Una decisione in merito è attesa dall’incontro, questo lunedì a Parigi, tra l’inviato dell’Onu e della Lega araba, Lakhdar Brahimi, il segretario di Stato americano, John Kerry, e il ministro degli Esteri russo, Serghiei Lavrov.

Ad accrescere le inquietudini c’è l’intensificazione dei combattimenti sui fronti siriani, con impatti sempre più devastanti sulle popolazioni. Forte preoccupazione in merito ha ribadito il presidente del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr), Peter Maurer, da ieri in Siria per negoziare un maggiore accesso dell’organizzazione alle zone teatro dei combattimenti e ai luoghi di detenzione. Secondo quanto comunicato dal Cicr, Maurer incontrerà a Damasco alti funzionari del Governo siriano e responsabili e volontari della società della Mezzaluna rossa siriana, principale partner del Cicr in Siria. «Le nostre attività si sono ampliate notevolmente nel corso dell’ultimo anno, ma abbiamo bisogno di poter fare molto di più. Sono determinato a fare pressione per ottenere un maggiore accesso per il Cicr e la Mezzaluna Rossa siriana, e in particolare, per migliorare la consegna imparziale di assistenza medica nelle zone assediate» ha dichiarato Maurer al suo arrivo a Damasco.

Quella in Siria è al momento la più vasta operazione umanitaria del Cicr in termini di risorse impegnate. Secondo le ultime stime dell’Onu, almeno 9,3 milioni di siriani, cioè il 40 per cento della popolazione, hanno bisogno di aiuti umanitari.

 

IN SUD SUDAN

 

Non ci sono ancora svolte nel negoziato ad Addis Abeba per mettere fine alla guerra civile divampata a metà dicembre in Sud Sudan, dove si fronteggiano le forze fedeli al Governo guidato dal presidente Salva Kiir Mayardit e i ribelli che fanno riferimento all’ex vicepresidente Rijek Machar, rimosso dall’incarico lo scorso luglio.

Mentre gli sforzi diplomatici non sembrano ancora in grado di sbloccare lo stallo negoziale, le uniche notizie delle ultime ore riguardano sviluppi militari, in particolare la riconquista da parte delle forze governative di Bentiu, la capitale dello Stato di Unity, occupata la settimana scorsa dai ribelli. Lo stesso Rijek Machar ha confermato la notizia, promettendo però di tornare all’offensiva. Nello stesso tempo, peraltro, il leader dei ribelli ha confermato il proprio impegno nel negoziato.

Scenari sempre più drammatici, intanto, vengono delineati dalle agenzie dell’Onu e da organizzazioni non governative internazionali. Secondo quanto prospettato ieri dall’alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), il numero di sfollati in Sud Sudan potrebbe quasi raddoppiare nei prossimi mesi, passando dai 232.000 attuali a oltre 400.000 entro aprile. L’Unhcr aggiunge che anche il numero di rifugiati nei Paesi vicini continua a crescere e potrebbe salire a 125.000 dai 43.000 che hanno finora varcato le frontiere, in particolare quella meridionale con l’Uganda, ma anche quelle con il Kenya, l’Etiopia e il Sudan. Sempre ieri, l’organizzazione International Crisis Group (Icg) ha sostenuto che in quasi un mese di combattimenti ci sono stati diecimila morti.

 

NELLA REPUBBLICA CENTROAFRICANA

 

Non ha fermato le violenze nella Repubblica Centroafricana la svolta politica registrata ieri con l’abbandono del potere da parte dei leader della coalizione Seleka, responsabile del colpo di Stato che a marzo scorso aveva rovesciato il presidente François Bozizé. Il leader della Seleka, Michel Djotodia, che si era autoproclamato presidente di transizione, e il primo ministro, Nicolas Tiangaye, avevano rassegnato le dimissioni durante il vertice della Comunità economica dell’Africa centrale (Ceeac), concluso ieri a N’Djamena, in Ciad. La notizia era stata accolta nella capitale centroafricana Bangui dai festeggiamenti di migliaia di manifestanti. Nella notte, però, sono di nuovo dilagati gli scontri tra le milizie della Seleka e quelle loro contrapposte. La Croce rossa locale riferisce di almeno tre morti e di saccheggi e incendi, a conferma di come sia sostanzialmente fallito finora il disarmo delle milizie per il quale sono stati dislocati sia i soldati del contingente francese, sia quelli della Misca, la missione originariamente inviata dalla Ceeac e passata lo scorso 19 dicembre, per mandato dell’Onu, sotto la responsabilità dell’Unione africana.

Oggi è previsto l’avvio delle operazioni di sgombero delle migliaia di stranieri africani bloccati nel Paese. In particolare, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) prevede di rimpatriare oggi con un ponte aereo ottocento dei circa 2.500 cittadini del Ciad, molti dei quali donne e bambini, che si trovano in un campo improvvisato nei pressi dell’aeroporto di Bangui. Sempre secondo l’Oim, sessantamila africani dei Paesi vicini hanno chiesto di essere rimpatriati e oltre la metà — bloccati in zone di confine ad alto rischio — hanno necessità di aiuti urgenti.