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Rapporto dell'Onu su ventuno Paesi in conflitto

Rapporto dell'Onu su ventuno Paesi in conflitto - Pierluigi Natalia

  

L'arma

  

dello stupro

  

25 aprile 2014

 La violenza sulle donne non è solo il frutto di comportamenti malati o criminali, se non in senso lato. Da sempre è una prassi sistematica giustificata se non incoraggiata dai nemici della pace e della convivenza civile. In Occidente, nonostante l'accesso delle donne ai diritti politici, ci sono voluti decenni perché lo stupro venisse punito in quanto crimine contro la persona e non contro la morale (e ancora oggi per le donne risulta difficile denunciare la violenza subita, se non altro perché si persistere in molti casi a cercare una loro responsabilità per presunta “provocazione”). Ma lo stupro non appartiene alla sfera della sessualità, neppure a livello patologico. Lo stupro è un arma di potere e, soprattutto, un'arma di guerra «devastante come una bomba», secondo l'espressione usata dal Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in un rapporto diffuso oggi. Ban Ki-moon sottolinea, appunto, che le violenze sessuali nei conflitti armati, prendendo sempre di più di mira i membri più vulnerabili della società – donne e bambini, ma anche uomini - mirano a ostacolare i processi di pace e di riconciliazione.

Nonostante che a livello globale vi sia in questo momento uno slancio politico senza precedenti per porre fine a questi crimini, le Nazioni Unite ritengono necessaria una maggiore azione a livello regionale e nazionale. Il rapporto prende in considerazione ventuno Paesi in situazione di conflitto (tanto per ricordare che la guerra continua ad accompagnare la vicenda umana anche in questo nuovo millennio) dall’Afghanistan alla Siria, dalla Repubblica Centroafricana al Myanmar.

«Come mostra il dossier, tali gravi violazioni si verificano ancora troppo spesso, ma stiamo iniziando a fare progressi tangibili», ha detto Ban Ki-moon citando i casi di Repubblica Democratica del Congo e Somalia. Anche in Colombia si intravedono barlumi di speranza, con il Governo che sta addestrando le forze di sicurezza per prevenire e rispondere alle violenze sessuali.

In Afghanistan, invece, l’Independent Human Rights Commission ha registrato un aumento del 25 per cento delle violenze contro le donne nel periodo da marzo a settembre 2013. Così come nella Repubblica Centrafricana, dove gli esperti hanno avuto chiare indicazioni che le violenze sessuali sono state una caratteristica principale degli attacchi avvenuti tra i mesi di marzo e dicembre dello scorso anno.

Anche nel conflitto siriano lo stupro è un’arma utilizzata costantemente. Nel dossier sono individuati 34 gruppi armati nel Paese - ribelli di dicersa ispirazione, spesso in lotta tra loro, ma anche forze di sicurezza governative - «credibilmente sospettati di stupro e altre forme di violenza sessuale in situazioni di conflitto». In diversi casi, inoltre, i gruppi armati usano lo stupro come strategia per ottenere il controllo dei territori con risorse naturali preziose.

La questione è certamente politica, ma anche giuridica. Un ruolo fondamentale deve avere la Corte penale internazionale (Cpi) dell'Aja, il tribunale permanente dell’Onu competente sui crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità. Dopo l’aggiornamento dei suoi statuti, tre anni fa, la Cpi annovera infatti gli stupri tra i crimini contro l'umanità. Inoltre, la Corte è chiamata a completare gli sforzi dei tribunali nazionali e, nel caso, a sostituirsi loro quando non siano in grado o non vogliano portare i responsabili davanti alla giustizia.

Per rendere quest'azioni di civiltà più incisiva serve comunque, accanto alla volontà politica, una presa di coscienza diffusa delle società civili. Un esempio, proprio alla vigilia della pubblicazione del rapporto dell'Onu, è venuto dalla Nigeria, il Paese più popoloso dell'Africa, percorso da violenze di matrice etnica, economica e anche pseudo religiosa. Le stragi in Nigeria sono ormai quotidiane, soprattutto nelle regioni nordorientali teatro dell’azione del gruppo islamista Boko Haram, responsabile da oltre quattro anni di attacchi e attentati terroristici che hanno provocato migliaia di vittime, in massima parte civili. A ciò si aggiungono gli scontri, che spesso sfociano in massacri, tra etnie di coltivatori e di allevatori per il controllo dei territori e delle risorse d’acqua.

A conferma di come sia superficiale la lettura di molta stampa occidentale che rubrica situazioni diverse alla voce “terrorismo islamico”, proprio la situazione in Nigeria mostra profonde differenze con quella in Somalia. Qui le milizie radicali islamiche di al Shabaab, a loro volta autrici di azioni di guerriglia e attentati, non si sono mai macchiate di violenze contro le donne o di rapimenti. È invece il caso di Boko Haram, come dimostra il recente rapimento di oltre duecento ragazze, delle quali non si hanno notizie certe, di un liceo di Chibok, nello Stato del Borno, che del gruppo islamista è la roccaforte. Sulla vicenda è intervenuto Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986, da molti considerato il maggior drammaturgo africano. Soyinka ha rivolto n appello ai connazionali a mobilitarsi contro Boko Haram per una battaglia «che è proprio la nostra, prioritariamente la nostra». Secondo lo scrittore, «dobbiamo levare gli scudi contro Boko Haram. Ribellarci contro le bombe e contro il rapimento delle nostre figlie. Non possiamo rimanere con le mani in mano e guardare le nostre ragazze innocenti diventare schiave di teppisti e terroristi. Sarebbe tradire i nostri figli e consolidare l’attività di questi sequestratori».