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I presidenti israeliano e palestinese in Vaticano

I presidenti israeliano e palestinese in Vaticano - Pierluigi Natalia

  

Pace, preghiera

  

e buon senso

  

8 giugno 2014

 

Abbattere i muri e costruire ponti. Chiunque ha sentito, almeno una volta, usare questa espressione riguardo a molti e inveterati conflitti. Non tutti, forse, sanno però che a coniarla fu Giorgio La Pira in una lettera a Paolo VI nel febbraio del 1970, nella quale delineava il significato del suo sforzo incessante per il disarmo e la pace. In molti, alla vigilia dell’incontro in Vaticano tra Papa Francesco e i presidenti israeliano e palestinese, Shimon Peres e Mahmoud Abbas (meglio conosciuto come Abu Mazen), tornano a riflettere su quelle parole e forse su quel concetto di una «Chiesa come centro di gravità delle Nazioni», che era alla base dell'idea lapiriana.

Non c'era all'epoca – e a maggior ragione non c'è oggi – nessuna componente prioritariamente confessionale in questa visione. Con Paolo Vi e con i suoi successori, anzi, la Chiesa cattolica ha riconosciuto la propria parte di responsabilità nelle devastazioni provocate dai contrasti e dalle divisioni religiose e ha accresciuto, nei gesti e nelle dichiarazioni, la convinzione che dialogo e preghiera comune non siano segni di vita spirituale e mezzi di intercessione, ma anche strumenti di valore civile.

I segnali in questo senso, dal pontificato montiniano allo “spirito di Assisi” che ha segnato quello di Giovanni Paolo II, fino alle iniziative di Papa Francesco, sono inequivocabili. Lo scorso anno la giornata di preghiera e digiuno per la pace in Siria, voluta da Papa Francesco, contribuì se no a fermare il conflitto, almeno a scongiurarne l'escalation che si prospettava. Proprio dall'incontro interreligioso ad Assisi del 1987, poi ripetuto ogni anno, emerse uno slogan feliche che faceva giustizia di tante divisioni non solo storiche, ma teologiche. Se le differenze di credo impediscono ancora di “pregare insieme” è comunque possibile “essere insieme per pregare”. Ora l'idea di offrire all'ebreo Shimon Peres e al musulmano Mahmoud Abbas il Vaticano come luogo d'incontro a questo scopo manda un nuovo e forte segnale.

Coglierlo, per i protagonisti e per tutti gli osservatori, avrà un significato spirituale e concreto, nella sfera dei sentire religioso e in quella della politica (non a Caso, proprio Paolo VI diceva che dopo la preghiera è proprio la politioca la forma più alta di carità). Introdurre questo elemento nelle situazioni di crisi può contribuire in modo significativo alla causa della pace e, per inciso, a prosciugare l'acqua torbida nella quale trova nutrimento la violenza di matrice fondamentalista religiosa. Ricordando che si tratta di un cancro degenerativo che non risparmia nessuna confessione.