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La crisi demografica certificata dall'Istat

La crisi demografica certificata dall'Istat - Pierluigi Natalia

  

Italia

  

che invecchia

  

17 giugno 2014

Un Paese che invecchia sempre più e dove a frenare il calo demografico non vale neppure l’apporto degli immigrati. Anche l’arrivo di questi ultimi è fra l’altro in diminuzione, mentre al contrario aumenta l’emigrazione, soprattutto di giovani che non vedono prospettive di futuro. È preoccupante il quadro dell’Italia che emerge dal rapporto sulla popolazione pubblicato questa settimana dall'Istat. Un Paese dove non si fanno bambini e da dove i scappano i giovani, almeno quelli in grado di farlo, mostra i segni di quella che non è più solo una crisi economica e finanziaria contingente, per quanto protratta nel tempo, ma è sociale, culturale e persino identitaria, se è vero che la rinuncia a mettere al mondo figli può essere letta come perdita di fiducia nel futuro.

Nel 2013 sono state registrate 514.308 nascite, circa ventimila in meno rispetto all’anno precedente, con una diminuzione del 3,7 per cento. Si tratta del picco negativo di sempre nel rapporto tra nascite e decessi in Italia, ancora maggiore di quello del 2012, quando la mortalità fece registrare valori particolarmente elevati nei mesi invernali. Il dato è tanto più significativo, proprio perché i decessi nel 2013, in tutto 600.744, sono stati circa dodicimila in meno. Il saldo naturale, quello dato appunto dal rapporto tra nascite e decessi, è negativo per 86.436 unità.

A questo ha contribuito la diminuzione, per la prima volta da decenni, delle nascite di figli d’immigrati — 2.189 in meno del 2012 — che pure rappresentano il 15 per cento del totale. Cioè nonostante, poiché gli immigrati sono l’8,1 dei residenti, quattro milioni e novecentomila circa, questo dato sulle nascite è il solo che argina, almeno in parte il progressivo invecchiamento della popolazione.

Va aggiunto però che l’immigrazione in Italia, fatta soprattutto di giovani e donne, è in diminuzione rispetto al passato, dato che smentisce la cosiddetta “invasione” paventata da molti (e da molti sfruttata come argomento di propaganda xenofoba se non razzista) in relazione alle crisi in Africa e nel Medio Oriente. Nel 2013, infatti, gli immigrati sono stati 43.000 in meno rispetto all'anno precedente.

Anche così, comunque, sono stati circa 182.000 più degli emigrati, 82.000 persone (14.000 in più rispetto al 2012).

A lasciare l’Italia sono soprattutto i giovani con i maggiori livelli di scolarizzazione, con una perdita preoccupante di quelle che si usa definire risorse umane Si tratta di un segnale inequivocabile di quanto i giovani italiani si sentano sempre più attratti da altri Paesi dove pensano di potersi costruire un futuro che la patria sembra negare loro. Tra l'altro, i giovani italiani che vanno all’estero, tolti casi marginali, non lo fanno per cercare un lavoro qualsiasi, se non in un primo momento, magari per perfezionare gli studi, ma perché vedono la possibilità che venga riconosciuto l’alto valore del loro percorso di formazione. Il che dimostra che non è tanto il livello di istruzione a dover essere messo in discussione in Italia, quanto il modello di sviluppo che lascia scuola e università avulse dal mondo del lavoro.

Certo, l'emigrazione italiana non ha nulla a che vedere con quella dai Paesi del mondo devastati da fame e guerra. Bé ottantamila emigranti sembrerebbero di per sé un numero drammatico in un Paese che in passato ne ha avuti decine di milioni. Ma proprio questo non ritrovare in patria risposte al bisogno di futuro di tanti giovani italiani è uno dei dati del rapporto dell’Istat che più sollecita una presa di coscienza. Conferma infatti il cortocircuito tra depressione demografica, depressione economica e riduzione di speranze, che racconta il declino del Paese.