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La rinuncia di Benedetto XVI al pontificato

La rinuncia di Benedetto XVI al pontificato - Pierluigi Natalia

Non gran rifiuto

  

ma servizio

  

 in vera umiltà

  

11 febbraio 2013


 

di Pierluigi Natalia

 Ingravescente aetate. L'età avanzata. È questa la ragione – e non c'è da dubitarne – che ha spinto Benedetto XVI a deporre il pontificato. Il terzo millennio consegna alla Chiesa una novità epocale, sotto ogni punto di vista: il Papa rinuncia. Per quasi otto secoli, l'unico precedente, Celestino V, è stato accompagnata dalla condanna dantesca (vera o presunta, dato che non è certo se il personaggio citato nel 3 canto dell'Inferno sia proprio lui) del “gran rifiuto” fatto per “viltade”. E certo un uomo della cultura e della sensibilità di Joseph Ratzinger non lo ignora. Ma il tempo di oggi non è il medioevo, con i suoi pericoli di scismi e il suo temporalismo ecclesiastico. Chiunque subentrerà a Ratzinger sul soglio di Pietro certo non subirà la sorte di Bonifacio VIII, il successore di Celestino V che una feroce letteratura – di Dante, Silone e non solo – ha inchiodato a un'immagine forse ingiusta di esclusiva ambizione. Ma anche oggi, come allora non mancano, in ogni ambiente, tentazioni di porre se stessi davanti all'interesse generale, scelte non di servizio, ma di potere.

Anche in questo, l'affermazione di umiltà fatta da Benedetto XVI deve far riflettere. Non c'è alcuna dubbio che le motivazioni di questa rinuncia siano quelle indicate dal Papa in Concistoro: "nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato".

Avvisaglie non erano mancate, ma la decisione è stata presa da Ratzinger in un riserbo assoluto. Soprattutto è stata annunciata dopo «aver ripetutamente esaminato» la propria coscienza «davanti a Dio». Del resto, già nel libro intervista “Luce del mondo” il Papa aveva risposto a una domanda su sue possibili dimissioni, nel mezzo delle polemiche per lo scandalo degli abusi fatti da religiosi, spiegando che non ci si dimette in un momento di pericolo, ma solo in un momento di serenità o «quando semplicemente non ce la si fa più». Se questo fosse per Joseph Ratzinger un momento di serenità è questione sulla quale ciascuno ha sicuramente una propria opinione. Di certo, non mancano, nel mondo e nella Chiesa – o meglio nella Curia – motivi per pensare il contrario, dagli scandali finanziari che sono tornati a turbare l'animo dei fedeli, alle sfide poste dal settarismo sempre più pervasivo alla Chiesa e al suo dialogo con le altre religioni, alla stessa crisi economica che si protrae e che schiaccia i più poveri, coloro nei quali siamo chiamati a riconoscere il Cristo. E la speranza è che proprio queste priorità nella sua irrinunciabile azione missionaria, siano tenute bel presenti dal Conclave che si accinge a scegliere il successore di Benedetto XVI.

Ma in quest'ora, c'è bisogno di sottolineare soprattutto la libertà della scelta, della coscienza rettamente formata, la libertà della persona che in un cattolico, tanto più in un Papa, è sempre sinonimo di obbedienza a un dovere più grande. La scelta di Ratzinger è un segno profetico perché cambia una prassi consolidata al punto da finire per essere ritenuta volontà di Dio e forse annuncia altri cambiamenti. Quello che già Paolo VI aveva più volte ipotizzato, senza convincersi che i suoi tempi fossero maturi per una simile rivoluzione, Benedetto XVI lo ha fatto. Il pontificato può essere vissuto come una croce da portare fino in fondo, come ricorda la grande lezione data dalla sofferenza di Giovanni Paolo II negli ultimi anni della sua vita. Ma se questa croce non schiaccia solo chi la porta, ma minaccia di invalidare il servizio alla Chiesa universale la si può deporre.

Certo è un evento epocale, non solo sul piano storico, ma anche su quello dottrinale. Un Papa, riconosciuto universalmente come grande teologo, ha dichiarato che è possibile ritirarsi e lasciare ad altri il pontificato prima della sua scadenza naturale, che finora è stata sempre considerata la morte. Del resto, da tempo è già così per i vescovi, quei vescovi ai quali il Concilio Vaticano II aveva restituito la pienezza di un ruolo in comunione e non in contrapposizione, come spesso accaduto, con il successore di Pietro.

 Ratzinger ha parlato di vigore che viene meno. E tutti i primi commenti si sono soffermati sull'aspetto delle forze fisiche, anche con più o meno documentati giudizi di tipo medico. Meno sottolineato è stato il riferimento al vigore dell'animo. Il servizio episcopale chiede una pienezza o almeno una sufficienza di forza d'animo per restare concentrati sul presente, sul qui e ora. L'avanzare dell'età può forse compromettere questa prioritaria attenzione. Lo capì bene Paolo VI, quando pose un limite d'età sia al servizio episcopale sia allo stesso diritto dei cardinali di eleggere il Papa. Benedetto XVI è andato anche oltre: il Papa di età più avanzata dai tempi di Leone XIII, cioè da oltre un secolo, ha posto la questione dell'età in modo diametralmente opposto a come è stata valutata finora.

Questo impone a tutti noi di ragionare diversamente. Significa che il pontificato è ad tempus. Questo non cambia il depositum fidei, ma certo cambia il volto dell’organizzazione della Chiesa. Siamo tutti chiamati, fedeli e pastori, a guardare alla nostra appartenenza ecclesiale, ai nostri compiti di servizio, ai nostri stessi pensieri identitari, con una nuova umiltà. Con il pontificato stesso non più legato alla vita del Papa, tutti sapremo meglio di essere servi inutili.