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Una nuova tragedia nel Sahel

Una  nuova tragedia nel Sahel - Pierluigi Natalia

Il Mali

  

e l'eredità

  

della guerra

  

Febbraio 2013 

  

di Pierluigi Natalia

L'intervento armato della Francia in Mali e il successivo dispiegamento della forza militare della Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale (Ecowas) hanno tenuto per qualche settimana le prime pagine dei giornali e poi, come spesso accade nelle diverse Afriche, hanno smesso di fare notizia. In che non significa che siano stati risolutivi delle intricate e interconnesse problematiche non solo di quel Paese, ma dell'intera regione del Sahel. Le popolazioni saheliane, anzi, rischiano di vedere aggravate le loro difficili condizioni, drammatiche da sempre e rese ancora più difficili da un quinquennio di crisi economica globale provocata dalla speculazione finanziaria e pagata soprattutto dai Paesi più deboli di quella e di altre aree dell'Africa. L'azione francese ha avuto un sostanziale appoggio dei Governi dell'area e della comunità internazionale – e persino in ambito cattolico non sono mancate voci favorevoli. L'argomento è stato quello che si ripete da oltre un decennio, cioè la necessità di lottare contro il terrorismo internazionale di matrice fondamentalista islamico. Meno ascolto, invece, hanno avuto gli ammonimenti di quanti – per esempio il responsabile degli affari politici dell'Onu, Jeffrey Feltman – hanno parlato di soluzione né semplice né veloce, ammonendo che le azioni militari, ammesso che non possano essere evitate del tutto, devono essere coordinate con cambiamenti politici.

I dubbi maggiori riguardano proprio questo aspetto. Per esempio, gli sviluppi militari sembrano aver fatto passare in secondo piano le perplessità sulla transizione dopo il colpo di Stato messo in atto il 22 marzo scorso nella capitale maliana Bamako da reparti militari guidati dal capitano Amadou Haya Sanogo. I golpisti, che avevano rovesciato il presidente Amadou Toumani Touré, avevano poi dovuto accettare appunto di avviare una transizione, sotto pressione internazionale. Capo di Stato ad interim era stato nominato l’ex presidente del Parlamento, Diacoumba Traoré, e primo ministro Modibo Diarra. Quest'ultimo, però, è stato ben presto rovesciato anch'egli dai militari al comando di Sanogo, che ha così dimostrato di mantenere intatto il suo controllo sul Governo.

Anche questo rende evidenti le ombre che si proiettano sulla possibilità di un vero dialogo nazionale per ricostruire la pace e che la rioccupazione militare del nord non basterà certo a dissipare. Anzi. Autorevoli fonti internazionali, dall'alto commissariato dell'Onu per i rifugiati alla Corte penale internazionale, hanno denunciato l'aumento di tensioni e violente tra comunità etniche in diverse aree del Mali. Tuareg e arabi, in particolare, accusati da altri gruppi di sostenere la ribellione separatista, sono stati fatti oggetto di vendette da parte dei militari maliani, tutti appartenenti alle etnie nere del sud, che hanno affiancato i francesi nella riconquista delle regioni settentrionali.

Come sempre accade, questo ha portato nuove ondate di profughi, sfollati interni o rifugiati all'estero, ridotti in condizioni drammatiche. E è soprattutto in queste situazioni che le posizioni più estremistiche trovano ascolto e proseliti.

Del resto, non solo le vicende africane, ma tutti i conflitti avviati da un ventennio in nome della lotta al terrorismo, basti pensare a Iraq e Afghanistan, dimostrano come la guerra non risolva i problemi e non raggiunga neppure gli obiettivi dichiarati. In merito, come spesso in passato, si è parlato di intervento occidentale destinato a concludersi in tempi brevissimi. Ma indipendentemente dalle informazioni fornite dai comandi militari, quasi mai attendibili in senso assoluto e tanto più nei conflitti dell'ultimo ventennio, è un fatto che l'offensiva francese è proseguita senza ostacoli fino a Kidal, all'estremo confine nordorientale del Mali, dove si sono protratti per giorni i bombardamenti sulle residue postazioni dei gruppi jihadisti. E questo non perché Kidal fosse la roccaforte degli islamisti, come scritto con una certa superficialità da molta stampa internazionale, ma perché la resistenza mirava a proteggere il ritiro dei miliziani verso il massiccio degli Infoghas, un immenso territorio pietroso vasto quasi la metà della Francia, dove è facile nascondersi per piccole formazioni guerrigliere, mentre sono estremamente difficili i movimenti di truppe regolari. Il che rende facile ipotizzare che possa riproporsi una situazione come quella afghana. A dimostrazione che l'uso dei cacciabombardieri serve poco per risolvere le crisi di sistema e che anzi tende a innescare un effetto domino.

Tra l'altro, a far precipitare la situazione in Mali, un anno fa, fu proprio un'altra crisi, quella libica, che vide un massiccio intervento armato occidentale. In questa luce si possono leggere, infatti, sia l'insurrezione dei tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell'Azawad (Mnla), incominciata il 17 gennaio 2012, sia la pressoché contemporanea concentrazione in quell'area dei gruppi jihadisti che poi hanno preso il sopravvento, come Al Qaeda per il Maghreb islamico (Aqmi) o il Movimento per l'unicità e il jihad nell'Africa occidentale (Mujao), ai quali si è presto affiancato il movimento islamista tuareg locale Ansar Ed Din. Tra i fattori determinanti, ci fu infatti il rientro in patria di miliziani tuareg, pesantemente armati, che avevano fatto parte delle forze di Gheddafi, sconfitte dagli insorti libici appoggiati dalla Nato. L'accresciuta porosità delle frontiere, libiche e non solo, seguita alle rivolte del 2011 nel Maghreb, ha fatto il resto, favorendo anche gli spostamenti dei gruppi jihadisti. Tra l'altro, a Timbuctu è stata più volte segnalata la presenza anche di miliziani di Boko Haram provenienti dalla Nigeria, oltre che appunto di Aqmi e Mujao e di altre sigle di quella che in occidente viene considerata una sorta di galassia del terrorismo internazionale di matrice fondamentalista islamica.

Tutti questi gruppi, che dell'islam hanno una concezione profondamente diversa da quella delle popolazioni tuareg, come dimostrano le sistematiche distruzioni dei monumenti a Timbuctu, erano uasi subito entrati in conflitto con l'Mnla, che dopo l'intervento francese ha provato a riorganizzarsi e a proporsi come interlocutore politico.

Di contro, i gruppi jihadisti sembrano intenzionati a riproporre in Mali e nel Sahel la situazione in Somalia, dove le milizie radicali di al Shabaab hanno guidato a lungo l'insurrezione contro le istituzioni appoggiate dalla comunità internazionale. Il paragone dovrebbe preoccupare. Pur sconfitta militarmente da forze internazionali, infatti, al Shabaab ha mantenuto intatta la sua capacità di colpire, come dimostrano i continui attentati in Somalia e non solo. Che lo schema possa ripetersi nel Sahel è già stato dimostrato dalla presa di ostaggi di gennaio nel sito algerino per l’estrazione del gas di In Amenas, finita tragicamente. Anche questo conflitto, cioè, minaccia di varcare i confini e trasformarsi sempre più, in tutto il Sahel, in una nuova guerra di ostaggi, in senso proprio come avvenuto in Algeria, e soprattutto in senso lato, con popolazioni innocenti in balia delle violenze e senza mezzi minimi di sostentamento.