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La sfida del fondamentalismo islamico in Africa

La sfida del fondamentalismo islamico in Africa - Pierluigi Natalia

Guerra

  

che alimenta

  

la guerra

 

  

24 settembre

L'attenzione della stampa mondiale passa da una crisi all'altra, imponendo all'opinione pubblica, al manifestarsi di una nuova emergenza, si pensi a quella in Siria, una sorta di oblio sulle precedenti. Ma episodi come quelli accaduti durante lo scorso fine settimana a Nairobi, con l'assalto sferrato a un centro commerciale da un commando delle milizie radicali islamiche di al Shabaab, confermano come la guerra alimenti la guerra, nelle sue espressioni più tradizionali e in quelle, aumentate da un ventennio a questa parte, della guerriglia e degli attacchi terroristici. Vale praticamente in tutto il mondo (è di questi giorni la cruenta riesplosione di un conflitto nelle Filippine) ma vale soprattutto in Africa.

 

Anche volendo tralasciare la vicenda libica, con l'ingresso di massicce forniture di armi che si sono diffuse in tutto il Sahel, solo quest'anno ci sono almeno tre situazioni – In Mali, in Nigeria e appunto in Somalia - che spingono a riflettere su quanto denunciato da Papa Francesco all'Angelus dell'8 settembre sulle le responsabilità dei produttori, dei venditori e dei trafficanti di armi, del denaro senza controllo e senza principi.

 

Nel Mali, l'informazione internazionale si è concentrata sull'insediamento, del nuovo presidente, Ibrahim Boubacar Keïta, visto come un incamminamento sulla strada della riconciliazione nazionale. Dopo l’insurrezione secessionista tuareg nel nord del gennaio 2012 e il colpo di Stato militare del marzo successivo, che aveva rovesciato il presidente Amadou Toumani Touré, era seguito l’intervento armato francese del gennaio scorso contro i gruppi fondamentalisti islamici, come il Movimento per l’unicità e il jihad nell’Africa occidentale (Mujao) e Al Qaeda per il Magheb islamico (Aqmi), che avevano preso il controllo del territorio settentrionale. Alla cerimonia, il 19 settembre, è intervenuto, tra altri capi di Stato, il presidente francese, François Hollande, il quale ha sostenuto che «abbiamo vinto questa guerra». L'affermazione, peraltro, è almeno prematura, come dimostra il fatto che le truppe francesi, il cui ritiro avrebbe dovuto essere ultimato entro aprile, sono ancora impegnate in battaglia nel nord del Mali.

 

Le milizie del Mujao e dell’Aqmi, oltre a risultare tutt’altro che definitivamente sconfitte ed espulse dal nord del Mali - contro di loro è in corso in questi giorni nel deserto del Tilemsi un’operazione di truppe francesi – hanno consolidato le posizioni in tutto il Sahel, come hanno confermato già lo scorso gennaio l'attacco all'impianto di estrazione del gas di In Amenas, in Algeria – anch'esso, come questo fine settimana a Nairobi, con una presa di ostaggi conclusa con una strage dopo l'intervento di truppe governative – e quello ai siti minerari per l'estrazione dell'uranio in Niger. Tra l'altro, il primo ministro britannico, David Cameron, dopo la vicenda di In Amenas aveva detto che poteva essere l’inizio di una battaglia lunga decenni contro il terrorismo in Nord Africa.

 

Una vicenda dai contorni più strettamente nazionali sembra quella della Nigeria, nel cui nord-est opera da quasi cinque anni il gruppo di matrice fondamentalista islamica Boko Haram, ritenuto responsabile di sistematiche violenze che hanno provocato oltre tremila morti. Anche in questo caso, peraltro, si è assistito a un mutamento di strategie che fa pensare a un disegno più ampio. I primi attacchi di Boko Haram hanno avuto come bersaglio strutture governative, in particolare commissariati di polizia, e interessi occidentali. Ben presto, però, le violenze si sono concentrate sulle comunità religiose, soprattutto cristiane, ma anche islamiche che rifiutano il fondamentalismo nella sua versione omicida. A trasformare la situazione in una vera e propria guerra civile, con battaglie ormai quasi quotidiane, ha contribuito la decisione del presidente nigeriano Goodluck Jonathan di dichiarare nei mesi scorsi lo stato d'assedio in tre Staati nordorientali, il Borno, lo Yobe e l'Adamawa, e di inviarvi l'esercito. Ancora una volta, gli sforzi delle autorità religiose di favorire un dialogo sono stati bruscamente vanificati, con da un lato la scelta almeno discutibile di affidare alle armi la soluzione di problemi che sono prima sociali ed economici e poi religiosi, e dall'altro un aumentato consenso di larghi strati della popolazione più discriminata alle posizioni del gruppo fondamentalista. Nel frattempo, la presenza di armi in Nigeria si è diffusa sempre più.

 

Sempre in Nigeria, in questo caso nella regione meridionale petrolifera del Delta del Niger, resta irrisolta la questione che si protrae fin dall'epoca del colonialismo, cioè appunto il controllo delle risorse petrolifere rimasto in massi parte nelle mani di multinazionali straniere, mentre le èpopolazioni locali vedono se possibile peggiorare continuamente le loro condizioni, per non parlare delle devastazioni ambientali di un territorio ormai compromesso dallo sfruttamento senza controllo delle sisorse fossili.

 

L'esempio più drammatico, comunque, resta proprio la Somalia, da oltre vent'anni teatro di una guerra civile, con diverse fasi e diverse intensità, che le solenni dichiarazioni internazionali non hanno certo conclusa. Al Shabaab prese le armi dopo che un intervento militare dell'Etiopia in Somalia aveva scacciato da Mogadiscio nel 2006 le corti islamiche che vi avevano insediato una sorta di Governo e incominciato ad avviare una possibile pacificazione. Successivamente, nel 2009, c'era stato il ritiro delle truppe di Addis Abeba e un'intesa per una transizione guidata proprio da quello che era stato il leader delle corti islamiche, cioè Sharif Ahmed. Ma intanto la guerra civile era riesplosa.

 

L'’attacco di Al Shabaab al centro commerciale Westgate di Nairobi è il più sanguinoso, ma non il primo, sferrato in Kenya, Paese che aveva inviato truppe a combattere in Somalia. I soldati kenyani, originariamente impegnati in un’operazione autonoma dal dichiarato scopo di mettere in sicurezza il confine, erano poi stati integrati nell’Amisom, la missione dell’Unione africana. Proprio le forze di Nairobi erano state determinanti nell’offensiva di un anno fa contro le milizie di Al Shabaab che controllavano il sud della Somalia e in particolare Chisimaio, seconda città e secondo porto del Paese. Al Shabaab fu dichiarata sconfitta subito dopo e la comunità internazionale considerò formalmente conclusa la transizione somala, con il varo delle nuove istituzioni guidate dal presidente Hassan Mohamud. Ma numerosi episodi negli ultimi mesi hanno dimostrato che la capacità di colpire di Al Shabaab, con azioni di guerriglia e attentati, è rimasta intatta sia in Somalia sia all’estero. La vicenda di Chisimaio, inoltre ha suscitato duri contrasti tra il nuovo Governo somalo e quello del Kenya, accusato di aver sostenuto la milizia Ras Ramboni guidata da uno dei “signori della guerra “ somali, Ahmed Mohamed Islam, meglio conosciuto come Ahmed Madobe, che si è dichiarato governatore di Chisimaio, dopo aver sconfitto le forze di Bare Adam Shire, a sua volta meglio noto come Barre Hirale, un altro dei “signori della guerra” che da decenni spadroneggiano in Somalia. Successivamente, tra Mogadiscio e Ahmed Madobe c’è stata un’intesa, ma le tensioni con Nairobi restano latenti.

 

Tra l'altro, proprio in questi giorni ci sono state denunce, in particolare dell'associazione dei premi Nobel per la pace, sul fatto che il Governo del Kenya avrebbe dato a società straniere, come l'italiana Eni, concessioni di sfruttamento petrolifero offshore per giacimenti sottomarini del cosiddetto corridoio 5, nei pressi della linea di di confine, che sembrerebbero sotto sovranità somala.

 

Né il Kenya è l'unico Paese dell'area in allarme per possibili attacchi. Uganda ed Etiopia, in particolare, sono in prima linea: entrambe combattono al fianco dei soldati somali e del governo di Mogadiscio contro al Shabaab e il fatto che gli insorti islamisti abbiano colpito al cuore la capitale kenyana alimenta il timore di un'accentuata strategia regionale da parte di milizie che, come in altri parti del mondo, non sembrano avere problemi a procurarsi armi. A Kampala, si è mobilitato l'esercito per attivare un protocollo di emergenza ideato dopo il doppio attentato, sempre di al Shabaab, che nel 2010 causò 77 vittime tra gli spettatori di una partita di calcio della coppa del mondo in Sud Africa trasmessa per televisione.

 

Ad Addis Abeba intanto, il principale partito di opposizione Medrek ha diffuso una nota in cui chiede il ritiro dell’esercito dalla Somalia. «finchè i nostri soldati rimarranno sul territorio – ha spiegato un responsabile del partito al Sudan Tribune – il nostro Paese sarà un bersaglio privilegiato». Dopo il ritiro nel 2009, le truppe di Addis Abeba hanno varcato nuovamente la frontiera nel 2012, per sostenere l’offensiva contro al Shabaab, in particolare nelle regioni occidentali della Somalia. Gli insorti hanno minacciato più volte l’Etiopia, affermando di voler vendicare l’invasione, ma finora il Paese non è stato bersaglio di attacchi.