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La sorte dei prigionieri nel conflitto contro l'Isis

 Ostaggi della barbarie

Aprile 2019

Il conflitto siriano sembra quasi uscito dai radar dell'attenzione internazionale, con l'ormai prevedibile sconfitta dell'Isis, almeno sul piano del controllo del territorio, dato che la questione della capacità di colpire con il terrorismo resta purtroppo aperta. A risvegliare l'attenzione nei primi mesi di questo 2019 sono state notizie, o meglio “rumors”, sulla sorte dei prigionieri del gruppo jihadista.

Secondo fonti curde, riprese prima dai media libanesi e poi dalla stampa internazionale, a Baghouz, dove al momento in cui questo articolo viene scritto si sta combattendo contro l'ultima sacca di resistenza dell'Isis, sarebbe in corso una trattativa per la liberazione di 24 ostaggi stranieri. Tra questi ci sarebbero padre Paolo dell'Oglio, il gesuita romano scomparsi nel luglio del 2013 a Raqqa, la “capitale” del sedicente califfato jihadista, il giornalista britannico John Cantlie, rapito nel 2012, e un'infermiera neozelandese. Un sacerdote che aveva dedicato la vita a promuovere il dialogo interreligioso e la comprensione tra le diverse comunità siriane, una donna impegnata a curare i malati, un giornalista che faceva il suo mestiere, a conferma dell'incancrenimento del contesto sociale, dell'arretramento del rispetto dei valori dell'uomo, che da tempo si registra un po' in tutto il mondo, ma che in quelle terre martoriate ha assunto dimensioni spaventose.

Sull'attendibilità di queste informazioni ci sono solo ipotesi, o meglio speranze. Ma che nelle mani dell'Isis ci siano ancora ostaggi purtroppo è certo. Ancora in questa presumibilmente ultima fase del conflitto, dunque, tra l'Isis e chi lo combatte trattative si tengono. In passato, alcune volte si sono concluse con scambi di prigionieri o pagamenti di riscatti, anche se non sempre è ammessi dai governi coinvolti. In ogni caso, il delirio jihadista è tutt'altro che assopito. Lo ha tragicamente dimostrato l'ennesimo video di un brutale sgozzamento diffuso dall'Isas, quello del giapponese Kenji Goto, per il quale era stato chiesto un riscatto di duecento milioni di dollari. Ovviamente, in questi anni in cui orrore e ferocia sono diventati strumenti di comunicazione, non è possibile sapere quando tale delitto sia stato perpetrato. Tuttavia il messaggio è chiarissimo: se non avranno la possibilità di sottrarsi alla cattura o alla morte e non otterranno la liberazione di alcuni loro dirigenti catturati, Kenji Goto non sarà stato l'ultima vittima.

Né gli ostaggi stranieri sono gli unici prigionieri dell'Isis. Un problema cruciale è quello della sorte dei civili che per anni hanno subito le vessazioni – e l'indottrinamento - del gruppo jihadista che controllava un territorio vastissimo. Tragica è la condizione dei bambini nati dai matrimoni forzati con i miliziani imposti alle donne catturate, oggi in gran parte orfani abbandonati. Ancora più tragica quella dei tanti ragazzini o al più adolescenti che sono stati testimoni di violenze brutali, poi costretti a imbracciare le armi e compiere a loro volta delitti inumani contro civili inermi, vittime che l'età fa innocenti e che sono state trasformate in carnefici, torturati diventati trorturatori, in un'oscena escalation della cosiddetta sindrome di Stoccolma, il legame morboso che un prigioniero può stringere con il suo carceriere.

La legge internazionale riconosce ai bambini soldato reclutati da gruppi armatil o status di vittime, da liberare e reinserire nella società. Ma in questo caso i numeri sono impressionanti e quella di riabilitare, attraverso programmi mirati, una generazione pervasa da un'ideologia delirante trasmessa già durante l'infanzia non è un'impresa facile. E il futuro che li aspetta minaccia di trasformarsi in una prigione a vita, anche se senza sbarre.

Né certo il diritto internazionale, almeno per ora, è per loro una reale tutela. Secondo l'ultimo rapporto dell'organizzazione umanitaria Human Rights Watch, oltre millecinquecento minori catturati dalle Forze democratiche siriane (Sdf), sostenute dagli Stati Uniti, sono detenuti, e "spesso sono stati torturati per estorcere confessioni di sospetta appartenenza all'Isis nei territori un tempo sotto il controllo dell'organizzazione jihadista". Molti di questi adolescenti, si legge nel rapporto, sono stati condannati a pene detentive dopo "processi frettolosi e ingiusti" e tra questi ci sono almeno 185 minori stranieri condannati per presunte connessioni con i miliziani dell’Isis.

Anche la sorte di quanti sono accorsi da tutto il mondo per combattere con il sedicente califfato, i cosiddetti foreign fighters, provoca frizioni nella comunità internazionale. Secondo la Commissione europea, in Siria tra il 2011 e il 2016 ne sono arrivati oltre 42.000, cinquemila dei quali europei, compresi diversi italiani. Il presidente statunitense Donald Trump ha detto che i foreign fighters  nelle mani delle Sdf devono essere rimpatriati nei Paesi di provenienza o verranno semplicemente lasciati liberi. Ma almeno per quanto riguarda gli europei, la questione non è semplice.

Inizialmente i Governi europei si sono rifiutati di rimpatriare i loro cittadini, ma alcuni hanno iniziato a riconsiderare la loro posizione, secondo alcuni commentatori proprio in seguito alle pressioni degli Stati Uniti. La Macedonia del Nord è stata il primo Paese europeo a muoversi in questo senso, rimpatriando e processando sette combattenti nell'agosto 2018.

A gennaio la Francia ha dichiarato che stava considerando il rimpatrio di 130 uomini e donne, ma al momento non se ne è fatto nulla. La Germania, che ha molti foreign fighters, prende tempo, ma il ministero dell'Interno ha comunque reso noto che sono già tornati in patria un terzo dei circa mille cittadini tedeschi che a partire dal 2013 si sono uniti all'Isis in Iraq e Siria. Molti di loro sono stati perseguiti o inseriti in programmi di riabilitazione.

Aldilà di ogni altra considerazione, la riluttanza europea si spiega con il fatto che difficilmente le prove a loro carico reggerebbero nei tribunali dei loro Paesi. Parlando specificamente dei casi nel Regno Unito, Shiraz Maher, direttore del Centro Internazionale per lo Studio della Radicalizzazione, ha scritto che "per varie ragioni legali, molte di quelle che sono chiamate 'prove sul campo di battaglia' non sarebbero ammissibili in tribunale, sia per la loro consistenza sia per il modo in cui sono state ottenute. Nei tribunali britannici, per esempio, non sono ammesse le intercettazioni". "Il risultato è che alcuni combattenti britannici rimpatriati potrebbero semplicemente essere rilasciati una volta tornati in patria”.

Quanto all'Italia, la posizione non cambia per chi nel conflitto siriano ha combattuto per l'Isis o contro. Esclusi ovviamente i casi di crimini di guerra o contro l'umanità, per il codice italiano andare a combattere all'estero non è reato. Si può tuttavia attivare misure di restrizione nei loro confronti per “pericolosità sociale”, come ha chiesto a gennaio la procura di Torino per cinque persone che in questi anni hanno raggiunto la regione a maggioranza curda di Rojava, in Siria, per combattere l'Isis o comunque per sostenere la lotta dei curdi. 

Ancora più complessa è la questione di quanti, soprattutto donne, sono andati nel “califfato”, ma non hanno partecipato a combattimenti o ad atti di violenza. Su diversi media europei sono state pubblicate interviste a queste persone che ora chiedono di tornare a casa. Secondo Maarten van de Donk, membro del Radicalisation Awareness Network della Commissione Europea, l'organismo che si occupa di monitorare l'incidenza dei fenomeni di adesione al terrorismo di matrice pseudoreligiosa, "dipingere le donne come innocenti e gli uomini come colpevoli rientra in una visione manichea della realtà. Non tutte le donne sono innocenti, alcune lavoravano per la polizia dell'Isis e sappiamo anche che molte di loro lavoravano nel reclutamento".

Ancora più drastica – e a giudizio di chi scrive più inquietante – e la posizione su queste persone espressa da Maher, secondo il quale anche gli stranieri che non hanno combattuto hanno comunque contribuito ad alimentare la macchina propagandistica dell'Isis, dato che "si tratta di individui altamente radicalizzati che hanno dato un sostegno intangibile all'Isis attraverso la semplice presenza sul territorio; la loro presenza ha rappresentato una sorta di vittoria morale e propagandistica per il gruppo". In pratica, espatrio irregolare a parte, sarebbero colpevoli di connivenza con il nemico e di reato d'opinione.