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di Pierluigi Natalia
Pierluigi Natalia
Pierluigi NataliaUn marinaio prestato al giornalismo |
Francesco
promemoria
di ostinata
speranza
ROMA, 21 aprile 2025.
Sede vacante. Queste pagine sono scritte nel tempo tra la morte di Papa Francesco e l'elezione del suo successore. È vuota — vacante appunto — la cattedra di Pietro. Ma non lo è la Chiesa. Lo Spirito che i cardinali invocheranno riunendosi in Conclave non cessa mai di operare. Né cessa l'intercessione materna dell'Immacolata. Non c'è nella Chiesa, nella sua esperienza storica e nel suo più genuino sentire, un tempo «sospeso». I riti stessi insegnano che non possiamo lasciare i nostri occhi troppo a lungo velati di lacrime, che lo sguardo deve farsi presto limpido e fermo per scrutare il futuro.
L'omaggio a Papa Francesco non può, non deve vestirsi di mero rimpianto. Gli stessi riti dei Novendiali (i nove giorni di celebrazioni di suffragio che seguono al funerale del Papa) si protraggono appunto così a lungo - giova ricordarlo - non per celebrare il pontefice scomparso, ma per invocare su di lui la misericordia di Dio, della quale più ha bisogno chi più ha avuto talenti affidati.
Non è la Sede vacante, il tempo dell’esaltazione, anche se frutto dei sentimenti più nobili e sinceri, ma della riflessione e della memoria nel senso più autentico. Per la Chiesa e per l'umanità tutta. Il resto, tutto il resto minaccia di confondere il cuore e la coscienza, persino di far debordare il lutto e l'emozione non nella giusta venerazione, ma appunto in un'esaltazione che può mutarsi, anche inconsapevolmente, in idolatria.
E sarebbe, oltretutto, un cattivo servizio a un Papa che ha segnato la storia di questi anni difficili con l’esempio, via via sempre più solitario tra i leader mondiali, di un’ostinata speranza, di un diuturno richiamo alla causa dell’uomo, di un convinto impegno per la giustizia e per la pace. Sarebbe una sconfitta — forse la più irridente — per un pontificato che pure già tanto ha avuto inascoltato il suo magistero. Anche grazie all’opera del Papa del primo Papa latino americano, il primo gesuita – che ha scelto di rivestire il discernimento ignaziano con la sapientia cordis del santo di Assisi del quale ha voluto prendere il nome - nella Chiesa è cresciuta la consapevolezza del dover essere segno di contraddizione per essere fedele al suo mandato. Di contraddizione con la deriva di questa stagione della storia verso i conflitti, verso il cedimento allo strapotere di chi controlla denaro e tecnologia. In estrema sintesi la consapevolezza di dover essere, qui ed ora, lievito di bene nella società, di scongiurare la condanna a ridursi a sale privato di sapore.
Questo comporta il sottrarsi a luoghi comuni e ad arroccamenti di chiusura. Sui primi c’è in particolare un’opinione tanto diffusa nell’opinione pubblica da essere diventata appunto un luogo comune, magari in molti persino in buona fede, cioè che la Chiesa non dovrebbe fare politica, non dovrebbe “ingerirsi” negli affari dello Stato. In Italia, in particolare, a dare sostegno a tale opinione c’è una storia plurisecolare di comportamenti discutibili delle autorità ecclesiali, dal potere temporale, alla lotta per le investiture, alle crociate, fino ad arrivare al collateralismo democristiano. Tutto vero, tutto all’apparenza convincente, almeno qualora si abbia l’onestà intellettuale di contestualizzare tali fatti nelle vicende storiche in cui sono accaduti.
Eppure è un’idea sbagliata. Papa Francesco ha ricordato con forza e con chiarezza a tutti che il magistero papale non è limitato alla sfera spirituale, che l’identità religiosa, soprattutto cattolica, non si esprime solo nel culto. La dottrina della Chiesa è anche dottrina sociale. E la riflessione sulla società, sui diritti di ciascun essere umano e sui modi di difenderli e affermarli, è lo scopo proprio della politica, quella vera, quella di governo della cosa comune, non certo quella che molti, troppi suoi praticanti, diciamo così, ne ha reso il nome stesso sinonimo di malcostume, di corruzione, di interesse privato, di famelico attaccamento a un potere che non ha nulla a che vedere con il servizio e che anzi è un potere solo di facciata, caratterizzato cioè dal servilismo di chi controlla il denaro.
Questa dottrina sociale, così come si è andata formando attraverso il magistero pontificio e la grande sintesi del Concilio Vaticano II interpella la coscienza di ogni cattolico in ogni situazione, dalle amministrazioni locali, alla gestione degli Stati, ai rapporti internazionali. Del resto cattolico significa universale. E quindi il Papa e la Chiesa fanno politica. Appunto universale, per l’umanità tutta, per ciascun essere umano. E se proprio nel contemperamento dei diritti e dei bisogni di tutti bisogna dare delle priorità queste devono guardare ai poveri, agli scartati, per usare un termine che spiega bene il magistero di Papa Francesco. Se non è chiaro questo, è piuttosto pretenzioso definirsi cattolici.
Così come è blasfemo usare a sproposito il nome di Dio, magari associandolo altrettanto a sproposito a quelli di patria e di famiglia. Il magistero di Papa Francesco, in questa stagione della storia, non è stato una sequela di “buoni sentimenti”, per usare sempre a sproposito un’altra espressione della quale si è banalizzato e pervertito il significato. È stato invece una seria indicazione di quanto può scongiurare l’inquietante deriva in atto verso l’uso sempre più incontrollato della guerra, con la terrificate prospettiva di un ricorso persino alle armi nucleari che potrebbe significare distruzione pressoché totale dell’umanità.
Di questo bisogna tenere conto per comprendere perché chiunque succerà a Papa Francesco sarà chiamato a guidare la Chiesa nell’opporre al delirio dei ricorrenti nazionalismi i principi del multilateralismo e della prioritaria tutela della pace, alla pseudo cultura del nemico la scelta di un’ostinazione nel dialogo.
La causa della pace richiede nuovi strumenti culturali — e soprattutto interculturali — e il parallelo rifiuto di stereotipi e di ideologie obsolete come mezzi interpretativi degli avvenimenti. Per questo, per una prospettiva di un futuro di democrazia matura, occorrono percorsi formativi orientati a promuovere una vita di relazione rispettosa dell'altro e capace di valorizzare le diversità di genere, di età, di razza, di etnia, di cultura e persino di religione. La democrazia si costruisce infatti a partire da una molteplicità di soggetti. Nei cosiddetti «mondi vitali», come ad esempio famiglia, comunità religiosa, associazioni, organizzazioni di volontariato, prendono forma sociale le sensibilità individuali. Sono tali realtà, dunque, a dover individuare quei percorsi formativi. Alle istituzioni politiche, espressione della società civile, si chiede in parallelo la capacità di evolversi e di adeguarsi ai rapidi cambiamenti economici e culturali. Solo così tali istituzioni potranno assicurare regole comuni di convivenza per estendere all'intera collettività uguali opportunità nei confronti della qualità della vita.
In queste ore che per la Chiesa sono di Sede vacante, accanto agli umili si sono posti in preghiera — o almeno hanno mostrato di farlo — i «grandi della Terra», i responsabili della cosa pubblica che tante volte Papa Francesco, come i suoi predecessori, ha voluto incontrare nella sua azione al servizio dell'uomo, fatta di dialogo e di ascolto. La Chiesa non rinuncerà al dialogo con il mondo, sceglierà sempre la fatica del confronto. Perché la causa di Dio è la causa dell’uomo. E forse, in queste ore, è proprio ai potenti che va rivolto l'invito alla conversione del cuore, ad entrare in sintonia con lo spirito dei loro popoli, per non vanificare, per non tradire, la memoria e la lezione di un pontificato che ha segnato la storia recente e che continua ad interpellare il futuro.
Papa Francesco ha aperto le braccia nel gesto della fratellanza a tutte le religioni, ha teso la mano a tutte le povertà di ogni donna, di ogni uomo, di ogni vecchio e di ogni bambino. La speranza vera dei popoli è che la sua eredità si segni come un promemoria per il mondo. La riflessione su questo Papa, infatti, in quell'ora e per il futuro, non chiede generici omaggi, chiede memoria. Non chiede il tributo di lacrime, chiede l'impegno a rispettare e ad accogliere la grande lezione sull'unica politica degna, quella dei costruttori di pace, quella del rispetto dell'uomo, di ogni uomo.
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