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Da Leone XIII a Leone XIV

Da Leone XIII a Leone XIV - Pierluigi Natalia

 

 

Lavoro

Dottrina

sociale

della Chiesa

e Costituzione

 

12 maggio 2025

Il lavoro e la sua collocazione nel complesso dei rapporti sociali sono tra i campi più importante con il quale un cattolico può e deve confrontarsi con il dettato evangelico “non potete servire Dio e Mammona” (Lc 16, 13).  Su questo chi scrive potrebbe citare l’avallo di molte importanti citazioni da documenti di magistero. Ne sceglie invece una di Tommasa Alfieri, figura luminosa del laicato cattolico del Novecento e sotto molti aspetti anticipatrice del Concilio Vaticano II. Sono due righe in una stupenda riflessione su Maria pregata come Ancilla laboriosa: «Noi non siamo schiavi legati a muovere una macina pesante; siamo figli che trafficano i beni del Padre! Col Padre» (da “Uno sguardo che accarezza la memoria”, edizioni Amici della Familia Christi 2010, pag.468).

Parole che aiutano a ricordare il nostro essere figli di una storia da sempre particolarmente attenta al lavoro, ma dovremmo dire più precisamente ai lavoratori. Lo siamo perché cattolici e perché cittadini italiani. Da cattolici perché lo mostrano tutti gli interventi di magistero,  pontificio e non solo, che si sono susseguiti dalla Rerum novarum scritta da Leone XIII nel 1891 fino alla Evangeli gaudium di Papa Francesco nel 2013, passando sia per la denuncia - lo sfruttamento dei lavoratori,   la dura realtà dei campi e delle fabbriche, la piaga del lavoro minorile, ecc. - sia per l'affermazione del significato antropologico del lavoro, cioè di quella attività nella quale l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita, sia dei diritti del lavoratore,  per primo quello al  giusto salario che permette l’accesso adeguato agli altri beni destinati all’uso comune (Evangeli gaudium n.192).

Da cittadini italiani lo siamo perché questo insegnamento è il più recepito nella Costituzione nella quale "lavoro" è il secondo termine più usato dopo "legge". L’articolo 1, sulla «Repubblica fondata sul lavoro», tante volte citato pappagallescamente, dal quale derivano diritti e doveri per contribuire al progresso «materiale o spirituale della società» posti all'art. 3, disegna lo stretto legame tra il lavoro - visto come mezzo di libertà, d’identità, di crescita personale e comunitaria, d’inclusione e di coesione sociale, di responsabilità individuale verso la società - e la dignità della persona.

La Costituzione ha quasi ottant'anni. Se in alcuni periodi questi principi, sostanzialmente allineati agli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa, hanno improntato molte politiche del Paese e ne hanno favorita la crescita e in parte la giustizia sociale, è un fatto che da oltre un trentennio a questa parte la tendenza si è invertita. Quell'antropologia secondo il progetto di Dio, quella visione dei costituenti che in gran parte, ne fossero o meno coscienti, quel progetto recepiva, ha ceduto di fronte alla sfida pervasiva di Mammona. Da trent'anni si accelera il passaggio della ricchezza del mondo dal lavoro al parassitismo, dalla costruzione di migliori condizioni di vita sempre più diffuse, allo strapotere di una finanza famelica e predatrice. Per stare alla sola Italia, questo significa da tempo ignorare la Costituzione secondo la quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge” (Art.36).

 Limitiamoci a cinque questioni. La prima e gravissima è la disoccupazione giovanile, che supera il 40 per cento, per un terzo formato dai cosiddetti “neet” (acronimo inglese per "not in education, employment or training”, giovani che non lavorano, non studiano, non si formano). Aggiungiamoci un disagio e una frustrazione crescenti che vanno anche oltre, generati dal lavoro precario e da quello irregolare, cioè non protetto, non sicuro e non adeguatamente retribuito. Questo sgretola il patto intergenerazionale padri/madri-figli/figlie senza il quale non esiste progresso e neppure giustizia; blocca il cosiddetto ascensore sociale, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi senza merito e i poveri sempre più poveri senza colpa; rovescia la cosiddetta piramide sociale, ponendola in un precario equilibrio in cui sono pochi vecchi a sostenere le vite quotidiane dei giovani.

 E questo ci porta al secondo argomento, l’allargamento dell'area della povertà, provocata proprio dall'attacco sistematico al diritto al lavoro attraverso soprattutto il progressivo smantellamento - e non è un gioco di parole - dei diritti dei lavoratori, per sostituirlo con prestazioni d'opera incerte e non garantite.  La stessa povertà assoluta, raddoppiata nell'ultimo decennio con una accelerazione degli ultimi due anni, rispecchia meglio di ogni altro dato questo rovesciamento dissennato e questo tragico abbandono del patto sociale: tra quanti hanno più di sessantacinque anni la povertà assoluta è ferma al 4%, mentre tra quanti hanno meno di 17 anni ormai sfiora il 20%.

 La terza criticità è quella del lavoro femminile e delle sue implicazioni sulla vita familiare. Da diversi anni, ormai, le ragazze raggiungono livelli di scolarità superiore rispetto ai coetanei maschi. Ciò nonostante la loro partecipazione al mondo del lavoro rimane molto limitata. La disoccupazione femminile italiana maggiore è di quella pur alta maschile. I salari delle donne sono sensibilmente più bassi di quelli degli uomini a parità di mansione. Il numero di figli pro capite è tra i più bassi in Europa. Non sono solo statistiche, sono le prove lampanti di come la nostra società sia restia tanto a riconoscere e valorizzare le competenze delle donne, quanto soprattutto a creare una reale compatibilità tra lavoro e vita familiare.

 Il quarto aspetto è la distanza, la sconnessione tra il sistema scolastico e il mondo del lavoro. Non solo la scuola - soprattutto per il progressivo avvilimento imposto ai suoi operatori - sta perdendo la sua capacità di costruire coltura. Non solo, secondo i rapporti internazionali, un terzo degli studenti italiani di scuola superiore sono incapaci di comprendere un testo scritto di media difficoltà, ma pur nel proliferare dei corsi scolastici e delle attività extrascolastiche, la scuola non supera l'incancrenito schematismo della separazione  tra il momento formativo e quello lavorativo, il che si traduce in un divario sempre più ampio  tra la domanda di competenze nel mondo del lavoro e  i profili in uscita da scuole e università. Paradossalmente, in un Paese con disoccupazione tanto alta, un quinto delle offerte di lavoro non trovano candidati.

 Servono scelte politiche, riforme vere che riempiano questo burrone, che spianino il percorso di crescita dei nostri giovani. Serve uno sforzo culturale, una visione di futuro che ripensi insieme scuola e lavoro, ponendoli al centro di ogni progetto di sviluppo umano e sociale. E questo non significa assoggettare la scuola alle imprese, soprattutto private, che di solito tendono a considerare il lavoro uno dei costi e, per inciso, il primo da tagliare quando scendono i profitti. Garantire il lavoro è il primo compito dello Stato, Quello che serve è un'azione pubblica forte e coesa, che in quel ripensamento efficace del rapporto tra scuola e lavoro sappia allenare le nuove generazioni a considerare la conoscenza, cioè il sapere, e l'abilità (il saper fare) non solo una ricchezza personale, ma i mezzi per impadronirsi di competenze nella risoluzione di problemi concreti, in ogni campo, dall’industria all’agricoltura, dal commercio all’artigianato, dal turismo al risanamento e alla custodia del territorio e del creato, dall'uso sapiente dei beni materiali all'acquisizione di quelli immateriali.

E questo porta al quinto punto, forse il più difficile e inquietante. Nelle società moderne il lavoro è soggetto a mutazioni vertiginose e tali da modificare stili di vita e modelli etici. Ciò pone grandi domande di fondo. Per esempio, cosa significa lavoro umano? Quali devono essere i nuovi diritti e doveri del lavoratore? Quale formazione continua (lifelong learnin dicono gli inglesi) va garantita ai lavoratori per prepararli al lavoro del futuro? Con quali competenze gestire il rapporto tra lavoratore e la macchina robot? Su quali conoscenze devono investire i giovani? 

 

Come in tutti i cambiamenti epocali, anche al tempo della cosiddetta economia 4.0 è compito della cultura e delle forze sociali trovare forme di tutela efficaci per il «lavoro degno». L’innovazione tecnologica può aiutare a risolvere o mitigare i conflitti tra lavoro e ambiente nella cura della casa comune. Per gestire queste nuove forme di lavoro sarà necessario ai lavoratori avere un equilibrio umano e spirituale solido. Per fare solo un esempio, il far coincidere la propria casa con il luogo del lavoro potrebbe essere un fattore di crisi negli equilibri relazionali, affettivi e familiari. Così come una disordinata gestione del tempo potrebbe appiattire sul lavoro anche quei momenti di riposo mentale, di gratuità e di lucidità di cui la vita ha bisogno.

 

La Dottrina sociale della Chiesa non è un deposito magisteriale già fissato. Come tutta la sua identità, il compito di evangelizzazione legato alla promozione umana, la costruzione della pace, anche quella dottrina è un cantiere aperto nel quale si continua a lavorare. Per la Chiesa, per tutti noi, quindi, indagare il rapporto tra economia 4.0 e quello che si profila come il lavoro 4.0 va considerato un compito da compiere con grande attenzione. Perché c'è la minaccia disumanizzante di piegare l'uomo alle logiche economicistiche care alla finanza predatoria, di ridurre a merce qualsiasi bene, dalla fiducia alla stima, dall'amicizia all'amore, dalla spiritualità alla fede. E se ciò accadesse questo lavoro 4.0 sarebbe la negazione del lavoro come progetto di Dio per l'uomo E sarebbero in molti, in troppi, a servire Mammona, per convincimento egoista alcuni, per coattazione ricattatoria i più.

 

Siamo figli di una storia da sempre particolarmente attenta al lavoro, ma dovremmo dire più precisamente una storia attenta ai lavoratori. Lo siamo perché cattolici e perché cittadini italiani. Da cattolici perché lo mostrano tutti gli interventi di magistero,  pontificio e non solo, che si sono susseguiti dalla Rerum novarum scritta da Leone XIII nel 1891 fino alla Evangeli gaudium di Papa Francesco nel 2013, passando sia per la denuncia - lo sfruttamento dei lavoratori,   la dura realtà dei campi e delle fabbriche, la piaga del lavoro minorile, ecc. - sia per l'affermazione del significato antropologico del lavoro, cioè di quella attività nella quale l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita, sia dei diritti del lavoratore,  per primo quello al  giusto salario che permette l’accesso adeguato agli altri beni destinati all’uso comune (Evangeli gaudium n.192).

La Dottrina sociale della Chiesa non è un deposito magisteriale già fissato. Come tutta la sua identità, il compito di evangelizzazione legato alla promozione umana, la costruzione della pace, anche quella dottrina è un cantiere aperto nel quale si continua a lavorare. Lo ha ricordato con chiarezza Leone XIV all’inizio del suo pontificato, ribadendo in più occasioni l’urgenza di far fronte a una situazione che già il suo predecessore Francesco definita di “policrisi” «… per evocare la drammaticità della congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui convergono guerre, cambiamenti climatici, crescenti disuguaglianze, migrazioni forzate e contrastate, povertà stigmatizzata, innovazioni tecnologiche dirompenti, precarietà del lavoro e dei diritti». Di conseguenza, secondo Leone XIV, «… su questioni di tanto rilievo la Dottrina Sociale della Chiesa è chiamata a fornire chiavi interpretative che pongano in dialogo scienza e coscienza, dando così un contributo fondamentale alla conoscenza, alla speranza e alla pace».

C’è una frase di Papa Francesco diventata famosa: “Il pastore deve avere l’odore delle pecore”. Il linguaggio è quello biblico ed evangelico, immediatamente comprensibile alla realtà sociale e culturale delle epoche in cui i testi sacri si sono formati. Oggi quell’indicazione ha bisogno di confrontarsi con linguaggi ed esperienze nuove, magari riflettendo sul significato di quelle non abbastanza recepite nel passato. Per tutte basta citare quella dei preti operai, nata in Francia durante la seconda guerra mondiale, quando migliaia e migliaia di lavoratori francesi vennero obbligati al lavoro coatto dalle truppe d’occupazione naziste e molti sacerdoti decisero di seguirne la condizione continuarono a farlo anche dopo che la sconfitta del nazifascismo restituì alla Francia e all’Europa la libertà.

Quell’esperienza fu contrastata negli anni successi, durante il pontificato di Pio XII, soprattutto per la sua componente sociale che fu considerata fiancheggiatrice dei partiti di sinistra. Tuttavia il Concilio Vaticano II tornò a recepirne il significato di apostolato con uguale titolo con le altre condizione del servizio sacerdotale nel decreto Presbyterorun ordinis, approvato con 2.390 voti favorevoli e soli quattro contrari e promulgato da Paolo VI il 7 dicembre 1965. Il decreto, infatti, al capitolo secondo, punto 8 afferma che tutti i sacerdoti “…hanno la missione di contribuire a una medesima opera, sia che esercitino il ministero parrocchiale o sopraparrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all'insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale, condividendo la condizione operaia…”. Fu in quegli anni che l’esperienza dei preti operai si affermò anche in Italia. Tuttavia trovò presto anche qui forti ostacoli, sebbene lo stesso Paolo VI, nell’enciclica Octagesima adveniens del 1971 ribadisse che “… la Chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi i testimoni della sollecitudine della Chiesa” (N 48).

Questo per quanto riguarda la posizione cattolica. Ma anche solo in quanto cittadini italiani dovremmo ricordare che i principi ispiratori della dottrina suddetta sono forse i più recepiti nella Costituzione nella quale "lavoro" è il secondo termine più usato dopo "legge". L’articolo 1 sulla «Repubblica fondata sul lavoro» - purtroppo tante volte citato pappagallescamente senza riflettere che ne derivano diritti e doveri per contribuire al progresso «materiale o spirituale della società» posti all'art. 3 -  disegna lo stretto legame tra il lavoro - visto come mezzo di libertà, d’identità, di crescita personale e comunitaria, d’inclusione e di coesione sociale, di responsabilità individuale verso la società - e la dignità della persona.

La Costituzione ha quasi ottant'anni. Se in alcuni periodi questi principi, sostanzialmente allineati agli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa, hanno improntato molte politiche del Paese e ne hanno favorita la crescita e in parte la giustizia sociale, è un fatto che da oltre un trentennio a questa parte la tendenza si è invertita. Quell'antropologia secondo il progetto di Dio, quella visione dei costituenti che in gran parte, ne fossero o meno coscienti, quel progetto recepiva, ha ceduto di fronte alla sfida, suadente e pervasiva di Mammona. Da trent'anni si accelera il passaggio della ricchezza del mondo dal lavoro al parassitismo, dalla costruzione di migliori condizioni di vita sempre più diffuse, allo strapotere di una finanza famelica e predatrice. Per stare alla sola Italia, questo significa da tempo ignorare la Costituzione secondo la quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.” (Art.36).

 Limitiamoci a cinque questioni. La prima e gravissima è la disoccupazione giovanile, che supera il 40 per cento, per un terzo formato dai cosiddetti “neet” (acronimo inglese per "not in education, employment or training”, giovani che non lavorano, non studiano, non si formano). Aggiungiamoci un disagio e una frustrazione crescenti che vanno anche oltre, generati dal lavoro precario e da quello irregolare, cioè non protetto, non sicuro e non adeguatamente retribuito. Questo sgretola il patto intergenerazionale padri/madri-figli/figlie senza il quale non esiste progresso e neppure giustizia; blocca il cosiddetto ascensore sociale, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi senza merito e i poveri sempre più poveri senza colpa; rovescia la cosiddetta piramide sociale, ponendola in un precario equilibrio in cui sono pochi vecchi a sostenere le vite quotidiane dei giovani.

 E questo ci porta al secondo argomento, l’allargamento dell'area della povertà, provocata proprio dall'attacco sistematico al diritto al lavoro attraverso soprattutto il progressivo smantellamento - e non è un gioco di parole - dei diritti dei lavoratori, per sostituirlo con prestazioni d'opera incerte e non garantite.  La stessa povertà assoluta, raddoppiata nell'ultimo decennio con una accelerazione degli ultimi due anni, rispecchia meglio di ogni altro dato questo rovesciamento dissennato e questo tragico abbandono del patto sociale: tra quanti hanno più di sessantacinque anni la povertà assoluta è ferma al 4%, mentre tra quanti hanno meno di 17 anni ormai sfiora il 20%.

La terza criticità è quella del lavoro femminile e delle sue implicazioni sulla vita familiare. Da diversi anni, ormai, le ragazze raggiungono livelli di scolarità superiore rispetto ai coetanei maschi. Ciò nonostante la loro partecipazione al mondo del lavoro rimane molto limitata. La disoccupazione femminile italiana maggiore è di quella pur alta maschile. I salari delle donne sono sensibilmente più bassi di quelli degli uomini a parità di mansione. Il numero di figli pro capite è tra i più bassi in Europa. Non sono solo statistiche, sono le prove lampanti di come la nostra società sia restia tanto a riconoscere e valorizzare le competenze delle donne, quanto soprattutto a creare una reale compatibilità tra lavoro e vita familiare.

 Il quarto aspetto è la distanza, la sconnessione tra il sistema scolastico e il mondo del lavoro. Non solo la scuola - soprattutto per il progressivo avvilimento imposto ai suoi operatori - sta perdendo la sua capacità di costruire coltura. Non solo, secondo i rapporti internazionali, un terzo degli studenti italiani di scuola superiore sono incapaci di comprendere un testo scritto di media difficoltà, ma pur nel proliferare dei corsi scolastici e delle attività extrascolastiche, la scuola non supera l'incancrenito schematismo della separazione  tra il momento formativo e quello lavorativo, il che si traduce in un divario sempre più ampio  tra la domanda di competenze nel mondo del lavoro e  i profili in uscita da scuole e università. Paradossalmente, in un Paese con disoccupazione tanto alta, un quinto delle offerte di lavoro non trovano candidati.

 Servono scelte politiche, riforme vere che riempiano questo burrone, che spianino il percorso di crescita dei nostri giovani. Serve uno sforzo culturale, una visione di futuro che ripensi insieme scuola e lavoro, ponendoli al centro di ogni progetto di sviluppo umano e sociale. E questo non significa assoggettare la scuola alle imprese, soprattutto private, che di solito tendono a considerare il lavoro uno dei costi e, per inciso, il primo da tagliare quando scendono i profitti. Garantire il lavoro è il primo compito dello Stato, Quello che serve è un'azione pubblica forte e coesa, che in quel ripensamento efficace del rapporto tra scuola e lavoro sappia allenare le nuove generazioni a considerare la conoscenza, cioè il sapere, e l'abilità (il saper fare) non solo una ricchezza personale, ma i mezzi per impadronirsi di competenze nella risoluzione di problemi concreti, in ogni campo, dall’industria all’agricoltura, dal commercio all’artigianato, dal turismo al risanamento e alla custodia del territorio e del creato, dall'uso sapiente dei beni materiali all'acquisizione di quelli immateriali.

E questo porta al quinto punto, forse il più difficile e inquietante. Nelle società moderne il lavoro è soggetto a mutazioni vertiginose e tali da modificare stili di vita e modelli etici. Ciò pone grandi domande di fondo. Per esempio, cosa significa lavoro umano? Quali devono essere i nuovi diritti e doveri del lavoratore? Quale formazione continua (lifelong learnin dicono gli inglesi) va garantita ai lavoratori per prepararli al lavoro del futuro? Con quali competenze gestire il rapporto tra lavoratore e la macchina robot? Su quali conoscenze devono investire i giovani?  

Come in tutti i cambiamenti epocali, anche al tempo della cosiddetta economia 4.0 è compito della cultura e delle forze sociali trovare forme di tutela efficaci per il «lavoro degno». L’innovazione tecnologica può aiutare a risolvere o mitigare i conflitti tra lavoro e ambiente nella cura della casa comune. Per gestire queste nuove forme di lavoro sarà necessario ai lavoratori avere un equilibrio umano e spirituale solido. Per fare solo un esempio, il far coincidere la propria casa con il luogo del lavoro potrebbe essere un fattore di crisi negli equilibri relazionali, affettivi e familiari. Così come una disordinata gestione del tempo potrebbe appiattire sul lavoro anche quei momenti di riposo mentale, di gratuità e di lucidità di cui la vita ha bisogno.

La Dottrina sociale della Chiesa non è un deposito magisteriale già fissato. Come tutta la sua identità, il compito di evangelizzazione legato alla promozione umana, la costruzione della pace, anche quella dottrina è un cantiere aperto nel quale si continua a lavorare. Per la Chiesa, per tutti noi, quindi, indagare il rapporto tra economia 4.0 e quello che si profila come il lavoro 4.0 va considerato un compito da compiere con grande attenzione. Perché c'è la minaccia disumanizzante di piegare l'uomo alle logiche economicistiche care alla finanza predatoria, di ridurre a merce qualsiasi bene, dalla fiducia alla stima, dall'amicizia all'amore, dalla spiritualità alla fede. E se ciò accadesse questo lavoro 4.0 sarebbe la negazione del lavoro come progetto di Dio per l'uomo E sarebbero in molti, in troppi, a servire Mammona, per convincimento egoista alcuni, per coattazione ricattatoria i più.

 

 

 

La morte del Papa e la sua eredità

La morte del Papa e la sua eredità - Pierluigi Natalia

 

 

  

Francesco 

promemoria

di ostinata  

speranza  

 

ROMA, 21 aprile 2025.

Sede vacante. Queste pagine sono scritte nel tempo tra la morte di Papa Francesco e l'elezione del suo successore.  È vuota — vacante appunto — la cattedra di Pietro. Ma non lo è la Chiesa. Lo Spirito che i cardinali invocheranno riunendosi in Conclave non cessa mai di operare. Né cessa l'intercessione materna dell'Immacolata. Non c'è nella Chiesa, nella sua esperienza storica e nel suo più genuino sentire, un tempo «sospeso». I riti stessi insegnano che non possiamo lasciare i nostri occhi troppo a lungo velati di lacrime, che lo sguardo deve farsi presto limpido e fermo per scrutare il futuro.

L'omaggio a Papa Francesco non può, non deve vestirsi di mero rimpianto. Gli stessi riti dei Novendiali (i nove giorni di celebrazioni di suffragio che seguono al funerale del Papa) si protraggono appunto così a lungo - giova ricordarlo -  non per celebrare il pontefice scomparso, ma per invocare su di lui la misericordia di Dio, della quale più ha bisogno chi più ha avuto talenti affidati.

Non è la Sede vacante, il tempo dell’esaltazione, anche se frutto dei sentimenti più nobili e sinceri, ma della riflessione e della memoria nel senso più autentico. Per la Chiesa e per l'umanità tutta. Il resto, tutto il resto minaccia di confondere il cuore e la coscienza, persino di far debordare il lutto e l'emozione non nella giusta venerazione, ma appunto in un'esaltazione che può mutarsi, anche inconsapevolmente, in idolatria. 

E sarebbe, oltretutto, un cattivo servizio a un Papa che ha segnato la storia di questi anni difficili con l’esempio, via via sempre più solitario tra i leader mondiali, di un’ostinata speranza, di un diuturno richiamo alla causa dell’uomo, di un convinto impegno per la giustizia e per la pace. Sarebbe una sconfitta — forse la più irridente — per un pontificato che pure già tanto ha avuto inascoltato il suo magistero. Anche grazie all’opera del Papa del primo Papa latino americano, il primo gesuita – che ha scelto di rivestire il discernimento ignaziano con la sapientia cordis del santo di Assisi del quale ha voluto prendere il nome - nella Chiesa è cresciuta la consapevolezza del dover essere segno di contraddizione per essere fedele al suo mandato. Di contraddizione con la deriva di questa stagione della storia verso i conflitti, verso il cedimento allo strapotere di chi controlla denaro e tecnologia. In estrema sintesi la consapevolezza di dover essere, qui ed ora, lievito di bene nella società, di scongiurare la condanna a ridursi a sale privato di sapore. 

Questo comporta il sottrarsi a luoghi comuni e ad arroccamenti di chiusura. Sui primi c’è in particolare un’opinione tanto diffusa nell’opinione pubblica da essere diventata appunto un luogo comune, magari in molti persino in buona fede, cioè che la Chiesa non dovrebbe fare politica, non dovrebbe “ingerirsi” negli affari dello Stato. In Italia, in particolare, a dare sostegno a tale opinione c’è una storia plurisecolare di comportamenti discutibili delle autorità ecclesiali, dal potere temporale, alla lotta per le investiture, alle crociate, fino ad arrivare al collateralismo democristiano. Tutto vero, tutto all’apparenza convincente, almeno qualora si abbia l’onestà intellettuale di contestualizzare tali fatti nelle vicende storiche in cui sono accaduti.

Eppure è un’idea sbagliata. Papa Francesco ha ricordato con forza e con chiarezza a tutti che il magistero papale   non è limitato alla sfera spirituale, che l’identità religiosa, soprattutto cattolica, non si esprime solo nel culto. La dottrina della Chiesa è anche dottrina sociale. E la riflessione sulla società, sui diritti di ciascun essere umano e sui modi di difenderli e affermarli, è lo scopo proprio della politica, quella vera, quella di governo della cosa comune, non certo quella che molti, troppi suoi praticanti, diciamo così, ne ha reso il nome stesso sinonimo di malcostume, di corruzione, di interesse privato, di famelico attaccamento a un potere che non ha nulla a che vedere con il servizio e che anzi è un potere solo di facciata, caratterizzato cioè dal servilismo di chi controlla il denaro. 

Questa dottrina sociale, così come si è andata formando attraverso il magistero pontificio e la grande sintesi del Concilio Vaticano II interpella la coscienza di ogni cattolico in ogni situazione, dalle amministrazioni locali, alla gestione degli Stati, ai rapporti internazionali. Del resto cattolico significa universale. E quindi il Papa e la Chiesa fanno politica. Appunto universale, per l’umanità tutta, per ciascun essere umano. E se proprio nel contemperamento dei diritti e dei bisogni di tutti bisogna dare delle priorità queste devono guardare ai poveri, agli scartati, per usare un termine che spiega bene il magistero di Papa Francesco. Se non è chiaro questo, è piuttosto pretenzioso definirsi cattolici.

Così come è blasfemo usare a sproposito il nome di Dio, magari associandolo altrettanto a sproposito a quelli di patria e di famiglia. Il magistero di Papa Francesco, in questa stagione della storia, non è stato una sequela di “buoni sentimenti”, per usare sempre a sproposito un’altra espressione della quale si è banalizzato e pervertito il significato. È stato invece una seria indicazione di quanto può scongiurare l’inquietante deriva in atto verso l’uso sempre più incontrollato della guerra, con la terrificate prospettiva di un ricorso persino alle armi nucleari che potrebbe significare distruzione pressoché totale dell’umanità.

Di questo bisogna tenere conto per comprendere perché chiunque succerà a Papa Francesco sarà chiamato a guidare la Chiesa nell’opporre al delirio dei ricorrenti nazionalismi i principi del multilateralismo e della prioritaria tutela della pace, alla pseudo cultura del nemico la scelta di un’ostinazione nel dialogo. 

La causa della pace richiede nuovi strumenti culturali — e soprattutto interculturali —  e il parallelo rifiuto di stereotipi e di ideologie obsolete come mezzi interpretativi degli avvenimenti. Per questo, per una prospettiva di un futuro di democrazia matura, occorrono percorsi formativi orientati a promuovere una vita di relazione rispettosa dell'altro e capace di valorizzare le diversità di genere, di età, di razza, di etnia, di cultura e persino di religione. La democrazia si costruisce infatti a partire da una molteplicità di soggetti. Nei cosiddetti «mondi vitali», come ad esempio famiglia, comunità religiosa, associazioni, organizzazioni di volontariato, prendono forma sociale le sensibilità individuali. Sono tali realtà, dunque, a dover individuare quei percorsi formativi. Alle istituzioni politiche, espressione della società civile, si chiede in parallelo la capacità di evolversi e di adeguarsi ai rapidi cambiamenti economici e culturali. Solo così tali istituzioni potranno assicurare regole comuni di convivenza per estendere all'intera collettività uguali opportunità nei confronti della qualità della vita. 

In queste ore che per la Chiesa sono di Sede vacante, accanto agli umili si sono posti in preghiera — o almeno hanno mostrato di farlo — i «grandi della Terra», i responsabili della cosa pubblica che tante volte Papa Francesco, come i suoi predecessori, ha voluto incontrare nella sua azione al servizio dell'uomo, fatta di dialogo e di ascolto. La Chiesa  non rinuncerà al dialogo con il mondo, sceglierà sempre la fatica del confronto. Perché la causa di Dio è la causa dell’uomo. E forse, in queste ore, è proprio ai potenti che va rivolto l'invito alla conversione del cuore, ad entrare in sintonia con lo spirito dei loro popoli, per non vanificare, per non tradire, la memoria e la lezione di un pontificato che ha segnato la storia recente e che continua ad interpellare il futuro.

Papa Francesco ha aperto le braccia nel gesto della fratellanza a tutte le religioni, ha teso la mano a tutte le povertà di ogni donna, di ogni uomo, di ogni vecchio e di ogni bambino.   La speranza vera dei popoli è che la sua eredità si segni come un promemoria per il mondo. La riflessione su questo Papa, infatti, in quell'ora e per il futuro, non chiede generici omaggi, chiede memoria. Non chiede il tributo di lacrime, chiede l'impegno a rispettare e ad accogliere la grande lezione sull'unica politica degna, quella dei costruttori di pace, quella del rispetto dell'uomo, di ogni uomo. 

 

L'Africa paga a Trump il prezzo più alto

Marzo 2025

C’è un aspetto spesso non sottolineato nell’esame della situazione critica nella quale in questa prima parte del 2025 le politiche del presidente statunitense Donald Trump, a partire dalla questione dei dazi, hanno gettato l’economia e il commercio mondiale, e che prospettano devastazioni ulteriori soprattutto dei Paesi più poveri, in particolare gli africani. È l’ormai pluridecennale trasferimento della ricchezza dal lavoro, cioè dall’economia reale, alla finanza, che di reale ha sempre più solo una natura predatoria famelica. L’esempio più evidente lo offre il cosiddetto l’outsourcing, cioè il trasferimento delle produzioni da parte delle imprese dei Paesi paradossalmente definiti avanzati verso quelli con la mano d’opera a basso costo e soprattutto privi di ogni controllo sui diritti del lavoro e di costante erosione della spesa sociale.

Ma intanto per gli Stati Uniti stanno ormai venendo al pettine i nodi di quello che già Charles De Gaulle definiva un “privilegio esorbitante”, cioè poter di gestire – grazie all’imposizione del dollaro come moneta di riferimento mondiale – la bilancia dei pagamenti e i propri deficit senza mai dover aggiustare la propria economia interna, con i risparmi del resto del mondo, in particolare dai Paesi poveri, facendo un debito internazionale esorbitante che oggi Trump intende far pagare agli altri.

Lo provano sia il taglio agli aiuti allo sviluppo, sia appunto i dazi. E se questi non sembrano spaventare la Cina, che degli Stati Uniti è il maggiore creditore, e forse neppure l’Unione europea, sempre se riuscisse finalmente a darsi una reale unità d’intenti, particolarmente ardua in questa fase storica è la condizione dei Paesi africani, mai davvero affrancati dalle predazioni coloniali e che dipendono in gran parte sia dalle esportazioni (a prezzi stabiliti dai compratori) sia dagli aiuti internazionali. Con Trump è stata seppellita, infatti, la dottrina di clintoniana memoria “Trade not Aid” (Commercio e non Aiuti), che avrebbe dovuto sollevare le periferie del mondo dal sottosviluppo, dato che il presidente statunitense gli aiuti li ha cancellati e ha reso il commercio ancora più oneroso di quanto già non sia.

È significativo che Trump abbia imposto i dazi più alti a due Paesi che dipendono quasi del tutto dalle esportazioni negli Usa, il 50% al Lesotho, il piccolo e regno enclave del Sud Africa e il 47% al Madagascar. Seguono Isole Mauritius (40%), Angola (32%), Sud Africa (30%), Costa d’Avorio con (21%) e Nigeria 14%(. Per tutti gli altri, comunque, la tariffa minima è del 10%. Va aggiunto che sta scadendo l’African Growth and Opportunity Act (AGOA), l’accordo firmato nel 2000 dall’amministrazione di Bill Clinton, che finora ha consentito a 32 Paesi dell’Africa subsahariana di esportare negli Stati Uniti circa 6.800 prodotti senza dazi doganali. Se Trump, come probabile, non rinnoverà l’AGOA, le conseguenze economiche e sociali per quelle popolazioni sarebbero pesanti.

Finora al ricatto di Trump sembra essersi piegato solo lo Zimbabwe, che ha abbassato i propri dazi doganali sulle merci statunitensi, accettando di indebolire le proprie industre a vantaggio di quelle Usa, nella speranza di ottenere un rapporto preferenziale. Di contro con il Sud Africa Trump sta portando avanti un duro scontro con l’abbastanza palese intenzione di minare la coesione dei BRICS (la sigla indica Brasile, Russia, India, Cina e appunto Sud Africa, i primi cinque Paesi che hanno dato vita al raggruppamento, oggi allargato a diversi altri). In merito va ricordato che Trump, appena eletto, dichiarò che li avrebbe puniti con dazi del 100% se avessero smesso di usare il dollaro nei loro commerci, ipotesi che potrebbe consolidarsi in tempi relativamente brevi.

In ogni caso, per l’Africa le vie da seguire sembrano solo due. La prima è ampliare la cooperazione con altri soggetti internazionali, in particolare con i BRICS e l’Unione europea. L’altra potrebbe essere l’effettiva implementazione dell’AfCFTA, l’Area di libero scambio continentale entrata in vigore nel 2021 tra tutti gli Stati africani esclusa l’Eritrea. Per gli africani, che oggi commerciano più con le potenze esterne che tra loro, ciò incrementerebbe l’industrializzazione, il mercato del lavoro e il commercio interno, consentendo di ridurre la dipendenza dai mercati esteri e di costruire solide strutture economiche e di sviluppo all’interno del proprio territorio. Ma per quanto suddetto è purtroppo da temere che i popoli africani continueranno a pagare dazio non solo a Trump, ma a una storia plurisecolare di oppressione e sfruttamento della quale resta arduo intravedere la fine.

Giubileo e debito dei poveri

5 dicembre 2024

C’è nell’avvicinarsi del Giubileo del 2025 una strana incuria istituzionale e comunicativa sul senso forse più proprio dell’avvenimento. Eppure a ricordarlo almeno a chi si dichiara cristiano basterebbe il Padre nostro: “… rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori…”. Lo stesso Gesù ci ha detto di pregare così e noi lo facciamo più o meno da duemila anni. A chiacchiere. Nei fatti ci sono nel mondo miliardi di persone affamate, assetate, prive di cure, schiavizzate di fatto dal peso spaventoso del debito internazionale dei loro Paesi.  Succede un po’ ovunque, ma la condizione peggiore resta quella dell’Africa. A chiarire bene la questione basta quanto affermato lo scorso giugno da Papa Francesco in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze e cioè che il tema del debito estero «investe i principi etici fondamentali e deve trovare spazio nel diritto internazionale»: 

Per capire meglio è utile un po’ di ricapitolazione storica. Nel periodo della almeno apparente decolonizzazione, in particolare negli anni Sessanta, sembrò che il nord del mondo riconoscesse il suo debito con l’Africa e fosse disposto a pagarlo, in aiuti e investimenti. Né a questo fu estranea l'azione della Chiesa, soprattutto con i missionari, che con il Concilio Vaticano II riscoprì pienamente il suo compito evangelico e sociale universale, dopo secoli di eurocentrismo non di rado macchiato da collateralismo con il potere coloniale. Si, quegli anni sembrarono una stagione di speranza per l'Africa. Ma già c'erano i germi di una nuova condanna al sottosviluppo, compresa la sottovalutazione della questione agricola, e quelli della guerra, responsabilità certo di classi dirigenti africane preda di corruzione e di bramosia di potere personale, ma anche e soprattutto di interessi stranieri che le ispiravano e le alimentavano. 

La guerra fredda e il suo strano equilibrio basato sulla deterrenza sostanzialmente congelarono la situazione, ma negli anni seguiti al crollo dell’Unione Sovietica è strutturalmente mutato lo scenario. La sconfitta del totalitarismo comunista non ha significato diffusione della democrazia, come in molti affermano pomposamente. Non c’è stata l’affermazione di condizioni ispirate al diritto internazionale, ma la diffusione sempre meno arginata di una finanzia predatoria che indirizza le scelte politiche, per non parlare della tecnologia e della produzione di armi delle quali si impone sempre più l’utilizzo.  Alla crisi debitoria degli anni Ottanta ancora si rispose con iniziative delle istituzioni internazionali, Fondo monetario e Banca mondiale, che condonarono circa cento miliardi di dollari di debito ai Paesi subsahariani a basso reddito. Ma subito dopo quegli stessi Paesi caddero nella trappola di sostituire il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati – assicurazioni, banche, fondi di investimento – molto più oneroso e a breve termine.  

Questo ha imposto l’aumento progressivo dei costi “di servizio” (cioè i soli interessi annui), legato alle attività speculative sui mercati internazionali e la pretesa che per arginare il debito vengano attuate «senza se e senza ma» le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni (soprattutto il land grabbing, vale a dire l’accaparramento dei terreni da parte delle aziende straniere). Si tratta di un affare colossale dato il forte deprezzamento delle monete locali, mentre i debiti si pagano in dollari o appunto in natura a prezzi fissati dagli acquirenti. 

Contro tutto ciò si mobilita la parte migliore delle società civili. In questo senso va per esempio la costituzione all’inizio di questa estate del Comitato per il Giubileo Ecumenico Globale, al quale partecipano Caritas Internationalis, diverse Caritas nazionali, organizzazioni cattoliche europee e nordamericane aderenti alla CIDSE, la Cooperazione Internationale per lo Sviluppo e la Solidarietà, e le similari strutture Latinidad in America Latina ed Eurodad in 28 Paesi del continente europeo. Per l’Italia è da citare la Carta di Sant’Agata dei Goti stilata da un gruppo di giuristi per sollecitare che la Corte di Giustizia dell’Aja si pronunci sui principi e sulle regole applicabili al debito internazionale, nonché al debito pubblico e privato.  Significativa anche la proposta della rete Link 2007, che associa alcune tra le più importanti Ong italiane, di convertire il debito in valuta locale, il che avvierebbe una dinamica virtuosa dato che quei soldi dovrebbero necessariamente essere spesi all’interno dei Paesi poveri sotto forma d’investimenti. 

© Popoli e Missione

 

 

 

 

La sfida dei Brics

Allargamento  e ricadute geopolitiche – Ruolo guida della Cina  – Le prospettive di un sistema finanziario alternativo – Ma l’ampliamento può comportare rischi per la coesione del gruppo dati gli irrisolti contrasti tra alcuni membri