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L'Africa paga a Trump il prezzo più alto

Marzo 2025

C’è un aspetto spesso non sottolineato nell’esame della situazione critica nella quale in questa prima parte del 2025 le politiche del presidente statunitense Donald Trump, a partire dalla questione dei dazi, hanno gettato l’economia e il commercio mondiale, e che prospettano devastazioni ulteriori soprattutto dei Paesi più poveri, in particolare gli africani. È l’ormai pluridecennale trasferimento della ricchezza dal lavoro, cioè dall’economia reale, alla finanza, che di reale ha sempre più solo una natura predatoria famelica. L’esempio più evidente lo offre il cosiddetto l’outsourcing, cioè il trasferimento delle produzioni da parte delle imprese dei Paesi paradossalmente definiti avanzati verso quelli con la mano d’opera a basso costo e soprattutto privi di ogni controllo sui diritti del lavoro e di costante erosione della spesa sociale.

Ma intanto per gli Stati Uniti stanno ormai venendo al pettine i nodi di quello che già Charles De Gaulle definiva un “privilegio esorbitante”, cioè poter di gestire – grazie all’imposizione del dollaro come moneta di riferimento mondiale – la bilancia dei pagamenti e i propri deficit senza mai dover aggiustare la propria economia interna, con i risparmi del resto del mondo, in particolare dai Paesi poveri, facendo un debito internazionale esorbitante che oggi Trump intende far pagare agli altri.

Lo provano sia il taglio agli aiuti allo sviluppo, sia appunto i dazi. E se questi non sembrano spaventare la Cina, che degli Stati Uniti è il maggiore creditore, e forse neppure l’Unione europea, sempre se riuscisse finalmente a darsi una reale unità d’intenti, particolarmente ardua in questa fase storica è la condizione dei Paesi africani, mai davvero affrancati dalle predazioni coloniali e che dipendono in gran parte sia dalle esportazioni (a prezzi stabiliti dai compratori) sia dagli aiuti internazionali. Con Trump è stata seppellita, infatti, la dottrina di clintoniana memoria “Trade not Aid” (Commercio e non Aiuti), che avrebbe dovuto sollevare le periferie del mondo dal sottosviluppo, dato che il presidente statunitense gli aiuti li ha cancellati e ha reso il commercio ancora più oneroso di quanto già non sia.

È significativo che Trump abbia imposto i dazi più alti a due Paesi che dipendono quasi del tutto dalle esportazioni negli Usa, il 50% al Lesotho, il piccolo e regno enclave del Sud Africa e il 47% al Madagascar. Seguono Isole Mauritius (40%), Angola (32%), Sud Africa (30%), Costa d’Avorio con (21%) e Nigeria 14%(. Per tutti gli altri, comunque, la tariffa minima è del 10%. Va aggiunto che sta scadendo l’African Growth and Opportunity Act (AGOA), l’accordo firmato nel 2000 dall’amministrazione di Bill Clinton, che finora ha consentito a 32 Paesi dell’Africa subsahariana di esportare negli Stati Uniti circa 6.800 prodotti senza dazi doganali. Se Trump, come probabile, non rinnoverà l’AGOA, le conseguenze economiche e sociali per quelle popolazioni sarebbero pesanti.

Finora al ricatto di Trump sembra essersi piegato solo lo Zimbabwe, che ha abbassato i propri dazi doganali sulle merci statunitensi, accettando di indebolire le proprie industre a vantaggio di quelle Usa, nella speranza di ottenere un rapporto preferenziale. Di contro con il Sud Africa Trump sta portando avanti un duro scontro con l’abbastanza palese intenzione di minare la coesione dei BRICS (la sigla indica Brasile, Russia, India, Cina e appunto Sud Africa, i primi cinque Paesi che hanno dato vita al raggruppamento, oggi allargato a diversi altri). In merito va ricordato che Trump, appena eletto, dichiarò che li avrebbe puniti con dazi del 100% se avessero smesso di usare il dollaro nei loro commerci, ipotesi che potrebbe consolidarsi in tempi relativamente brevi.

In ogni caso, per l’Africa le vie da seguire sembrano solo due. La prima è ampliare la cooperazione con altri soggetti internazionali, in particolare con i BRICS e l’Unione europea. L’altra potrebbe essere l’effettiva implementazione dell’AfCFTA, l’Area di libero scambio continentale entrata in vigore nel 2021 tra tutti gli Stati africani esclusa l’Eritrea. Per gli africani, che oggi commerciano più con le potenze esterne che tra loro, ciò incrementerebbe l’industrializzazione, il mercato del lavoro e il commercio interno, consentendo di ridurre la dipendenza dai mercati esteri e di costruire solide strutture economiche e di sviluppo all’interno del proprio territorio. Ma per quanto suddetto è purtroppo da temere che i popoli africani continueranno a pagare dazio non solo a Trump, ma a una storia plurisecolare di oppressione e sfruttamento della quale resta arduo intravedere la fine.

Giubileo e debito dei poveri

5 dicembre 2024

C’è nell’avvicinarsi del Giubileo del 2025 una strana incuria istituzionale e comunicativa sul senso forse più proprio dell’avvenimento. Eppure a ricordarlo almeno a chi si dichiara cristiano basterebbe il Padre nostro: “… rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori…”. Lo stesso Gesù ci ha detto di pregare così e noi lo facciamo più o meno da duemila anni. A chiacchiere. Nei fatti ci sono nel mondo miliardi di persone affamate, assetate, prive di cure, schiavizzate di fatto dal peso spaventoso del debito internazionale dei loro Paesi.  Succede un po’ ovunque, ma la condizione peggiore resta quella dell’Africa. A chiarire bene la questione basta quanto affermato lo scorso giugno da Papa Francesco in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze e cioè che il tema del debito estero «investe i principi etici fondamentali e deve trovare spazio nel diritto internazionale»: 

Per capire meglio è utile un po’ di ricapitolazione storica. Nel periodo della almeno apparente decolonizzazione, in particolare negli anni Sessanta, sembrò che il nord del mondo riconoscesse il suo debito con l’Africa e fosse disposto a pagarlo, in aiuti e investimenti. Né a questo fu estranea l'azione della Chiesa, soprattutto con i missionari, che con il Concilio Vaticano II riscoprì pienamente il suo compito evangelico e sociale universale, dopo secoli di eurocentrismo non di rado macchiato da collateralismo con il potere coloniale. Si, quegli anni sembrarono una stagione di speranza per l'Africa. Ma già c'erano i germi di una nuova condanna al sottosviluppo, compresa la sottovalutazione della questione agricola, e quelli della guerra, responsabilità certo di classi dirigenti africane preda di corruzione e di bramosia di potere personale, ma anche e soprattutto di interessi stranieri che le ispiravano e le alimentavano. 

La guerra fredda e il suo strano equilibrio basato sulla deterrenza sostanzialmente congelarono la situazione, ma negli anni seguiti al crollo dell’Unione Sovietica è strutturalmente mutato lo scenario. La sconfitta del totalitarismo comunista non ha significato diffusione della democrazia, come in molti affermano pomposamente. Non c’è stata l’affermazione di condizioni ispirate al diritto internazionale, ma la diffusione sempre meno arginata di una finanzia predatoria che indirizza le scelte politiche, per non parlare della tecnologia e della produzione di armi delle quali si impone sempre più l’utilizzo.  Alla crisi debitoria degli anni Ottanta ancora si rispose con iniziative delle istituzioni internazionali, Fondo monetario e Banca mondiale, che condonarono circa cento miliardi di dollari di debito ai Paesi subsahariani a basso reddito. Ma subito dopo quegli stessi Paesi caddero nella trappola di sostituire il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati – assicurazioni, banche, fondi di investimento – molto più oneroso e a breve termine.  

Questo ha imposto l’aumento progressivo dei costi “di servizio” (cioè i soli interessi annui), legato alle attività speculative sui mercati internazionali e la pretesa che per arginare il debito vengano attuate «senza se e senza ma» le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni (soprattutto il land grabbing, vale a dire l’accaparramento dei terreni da parte delle aziende straniere). Si tratta di un affare colossale dato il forte deprezzamento delle monete locali, mentre i debiti si pagano in dollari o appunto in natura a prezzi fissati dagli acquirenti. 

Contro tutto ciò si mobilita la parte migliore delle società civili. In questo senso va per esempio la costituzione all’inizio di questa estate del Comitato per il Giubileo Ecumenico Globale, al quale partecipano Caritas Internationalis, diverse Caritas nazionali, organizzazioni cattoliche europee e nordamericane aderenti alla CIDSE, la Cooperazione Internationale per lo Sviluppo e la Solidarietà, e le similari strutture Latinidad in America Latina ed Eurodad in 28 Paesi del continente europeo. Per l’Italia è da citare la Carta di Sant’Agata dei Goti stilata da un gruppo di giuristi per sollecitare che la Corte di Giustizia dell’Aja si pronunci sui principi e sulle regole applicabili al debito internazionale, nonché al debito pubblico e privato.  Significativa anche la proposta della rete Link 2007, che associa alcune tra le più importanti Ong italiane, di convertire il debito in valuta locale, il che avvierebbe una dinamica virtuosa dato che quei soldi dovrebbero necessariamente essere spesi all’interno dei Paesi poveri sotto forma d’investimenti. 

© Popoli e Missione

 

 

 

 

La sfida dei Brics

Allargamento  e ricadute geopolitiche – Ruolo guida della Cina  – Le prospettive di un sistema finanziario alternativo – Ma l’ampliamento può comportare rischi per la coesione del gruppo dati gli irrisolti contrasti tra alcuni membri

Parole chiare e parole chiave

7 settembre 2024

«Non si può pensare che l’economia abbia bisogno delle banche», intese come banche d'affari, perché farlo equivale a un «errato sistema economico che ha dimenticato l’uomo e la sua dignità». Sono parole chiare in giorni in cui alla politica si richiederebbero parole chiave.   Perché in questi tempi di incertezza e persino di non speranza nel futuro c'è necessità di discernere il bene dal male non solo nei comportamenti personali, ma anche nell'analisi del contesto storico che attraversiamo e delle vicende che impongono alla nostra vita direzioni e condizioni spesso incontrollabili. C'è bisogno, cioè, di visione e di idealità, che è cosa diversa dalla degenerazione ideologica di qualunque segno.

Ma quelle parole, non sono della politica. Le pronunciò infatti un vescovo italiano, Mario Toso, oggi alla guida della diocesi di Faenza-Modigliana, diversi anni fa, quando era segretario (numero due) del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, un dicastero vaticano. A tanti sedicenti laici – in realtà anticlericali in ritardo sulla storia -  farebbe bene ascoltarle. E magari uscire dallo schema di una presunta corrispondenza tra identità cattolica e collocazione politica tra i sedicenti difensori del trinomio Dio, Patria, Famiglia. Perché oggi c'è bisogno di un riformismo autentico, di sistema e non solo di contingenza, un riformismo capace di essere radicale sulle basi della convivenza civile.  E in questo i cattolici non possono essere meno determinati di tanti presunti progressisti.

«Se non sono gratuiti   i sistemi economici e il bene comune diventano un male pubblico. Se c'è una cosa che caratterizza il sistema finanziario e monetario moderno è che è diventato una forma di capitalismo addirittura più retrivo di quello dell’800. In quel periodo, infatti, le persone erano cose, oggi, invece, sono addirittura ignorate». Anche queste sono parole del vescovo Toso.  E ancora: «La crisi economica che stiamo vivendo non è quella tempesta leggera e momentanea che ci si vuole proporre, ma appare senza fine e rimarrà tale, perché è soprattutto di tipo entropico. Occorre cessare la speculazione che si fa dell’uomo e della società e aprire le coscienze all’attuazione di sistemi finanziari che si basino sul concetto di democrazia».

Per opporsi alla finanza speculativa che non conosce confini, né teme più di tanto controlli a livello statale, occorre un salto di qualità anche nel ripensare le istituzioni cosiddette di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale). Queste infatti hanno progressivamente perso il mandato e la vocazione universale di garantire uno sviluppo economico adeguato in modo da ridurre le situazioni di povertà e di disuguaglianza, che anzi hanno in non pochi casi aggravato. Lo stesso discorso può farsi sul piano dei consessi governativi. Per esempio, il G20 è certamente un passo in avanti rispetto al precedente G8, oggi G7 con l’espulsione della Russia, ma non può essere ritenuto rappresentativo di tutti i popoli e manca di una legittimazione e di un mandato politico democraticamente controllabile. E meno ancora, in questo senso, conta il G7.

L'uscita dalla crisi mai davvero affrontata richiede determinazione nel perseguire gli obiettivi, compreso quello di restituire alla politica il suo primato sull’economia e sulla finanza, per ricondurre queste ultime alle loro reali funzioni, prima tra tutte quella sociale.

Il primo passo potrebbe e dovrebbe essere la tassazione delle transazioni finanziarie, mediante aliquote eque, ma modulate con oneri proporzionali alla complessità delle operazioni, soprattutto in quelle che si effettuano nel cosiddetto mercato secondario, meno trasparente. Le risorse di una tale tassazione andrebbero destinate a promuovere lo sviluppo globale e sostenibile, secondo principi di giustizia sociale e di solidarietà.

Ma soprattutto è necessario un impegno a separare le banche in senso proprio e società finanziarie speculative, riservando solo alle prime il sostegno pubblico, dietro obbligo di uscire dai sistemi di finanza tossica. Se un compito ha oggi la politica, un compito che interpella tutti, ma in particolare l’Europa e in essa l’Itali, chiamate a ricordare la loro identità fondante di culla dello Stato sociale, è quello di esprimere una volontà reale di condizionare il sostegno pubblico alle banche, anche con forme di ricapitalizzazione, a comportamenti virtuosi per sviluppare l’economia reale. Cioè di non consentire più che siano solo o principalmente il denaro, la cupidigia, il falso mito del mercato a determinare il destino dei popoli.

L'Africa del Dio diviso