E le parole perdono senso. Da un lato o dall’altro Dio è dimenticato o almeno lo è quella dottrina sociale della Chiesa nella quale si esprime l’identità cattolica, la patria di cui in tanti si riempiono la bocca serve per chiamare alle armi o almeno per indicare un nemico sul quale indirizzare odio e rancore, la famiglia ridotta a una generica forma di convivenza in palese contraddizione, tra l’altro, con il dettato costituzionale, il popolo considerato solo in quanto somma di consumatori e per quanti non possono procurarsi neppure l’essenziale peggio per loro. Si vantano presunti aumenti dell’occupazione e si tralascia che si tratta di lavori incerti e mal pagati.

L’Istat ha certificato che nel 2023 è aumentato il numero delle persone in povertà assoluta. Ed è significativo che la percentuale maggiore di tale aumento sia rappresentata da famiglie in cui pure c’è una persona che lavora. E intanto si aumenta la spesa per le armi e si contrae la spesa sociale.
Sì, in questo prolungato venerdì di passione il buio continua a incombere su tutti noi. Ma non è – quanti si professano cattolici dovrebbero saperlo – una condizione perpetua. Si può e si deve guardare alla prospettiva della Pasqua, che non è come sembra da ridurre a occasione di dolci con sorpresa, di pranzi particolarmente sostanziosi e di vacanze, ma la celebrazione per i cristiani dell’avvenimento centrale della storia umana.
La Settimana Santa si è aperta con la Domenica delle Palme che ha il suo centro nella Passione del Signore. Scrivevo alcuni anni fa su queste pagine che le fronde di palma o di olivo, come si usa da noi, non sono una sorta di portafortuna o di talismano: sono un omaggio alla regalità di Gesù. Ma questa regalità si manifesta in modo sconcertante sulla croce, rinuncia a schemi di potenza umana, indica per quali strade umanamente illogiche passi la gloria, che diventa misura di confronto e di verifica nel servizio dei fratelli. Proprio in questo misterioso scandalo di umiliazione, di sofferenza, di abbandono totale si compie il disegno salvifico di Dio.
Eppure non dobbiamo nasconderci che nell’impatto con la croce la fede vacilla. Se il patibolo prima schiaccia e poi uccide il Giusto per eccellenza, allora la vicenda umana sembra dar ragione alla potenza dell’ingiustizia, della violenza e della malvagità. Tutti noi siamo investiti dalla domanda inquietante sul cumulo insopportabile di dolore che investe tutti i crocifissi della storia. Dove sono la perfezione, l’onnipotenza, la giustizia di Dio se non interviene in certe situazioni intollerabili?
Ripeto di non avere risposte da darvi né insegnamenti da proporvi. Da fratello tra fratelli, senza una specifica missione ministeriale, posso solo condividere con voi la coscienza che sulla croce muoiono tutte le false immagini di Dio che la mente umana ha partorito e che continuiamo, forse inconsciamente, ad alimentare e che il Vangelo è il vocabolario che possiamo usare per distinguere la differenza tra religiosità e fede che la Pasqua esprime. Religiosità è quanto si concentra nell’apparenza e la giustifica. Spesso in modo positivo, ma talora come in una festa priva di sostanza, della quale misuriamo il godimento, ma non indaghiamo il senso. La religiosità è fatta di liturgie non meditate, che spesso debordano in trionfalismo o, peggio, tracimano in fondamentalismo. La religiosità ci porta sia ad osannare l’entrata di Cristo sia a disconoscerlo. Perché non entra mai nel mistero pasquale.
Per farlo occorre la fede. Per seguire Cristo nella solitudine del Getsèmani, bagnata di sudore di sangue, nel processo fatto al debole, nella tortura, nel disprezzo, nell’essere condotto fuori dalle mura della società, nell’essere ucciso sulla croce, occorre la fede.
E occorre la speranza di Maria, per traversare il silenzio del Sabato, per guardare oltre il sepolcro, fino alla pienezza della vita, fino alla Resurrezione. Quella del Cristo, quella dei nostri cari che al sepolcro abbiamo consegnato, la nostra.
E occorre la carità, l’amore, perché la vita non sia una scorciatoia di menzogne o di illusioni, su Dio e su noi stessi. Percorrere la via della croce, come singoli e come comunità, significa dunque chiedere dunque al Signore di accrescere la nostra fede, di aiutarci a non fuggire dal mistero della sofferenza, ma di riconoscerlo come misura d’amore e come nutrimento di un’ostinata speranza.