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L'Africa del Dio diviso

Cos’è peccato?

20 agosto 2024

Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, qualche giorno fa al Meating di Rimini, ha detto in sintesi, tra l’altro, che gli interessi sul debito pubblico italiano equivalgo più o meno alla spesa nazionale in istruzione e ha aggiunto o che per ridurre tale debito è indispensabile aprire le frontiere a milioni di lavoratori immigrati. Non credo di forzare la notizia se mi spinge a qualche considerazione su un tema che esula gli aspetti strettamente contabili, quello del peccato, di solito non troppo approfondito negli strumenti di comunicazione per l’opinione pubblica.  Peccato è una parola difficile da definire. In generale potremmo dire che secondo tutte le grandi religioni è ciò che contrasta il progetto di Dio per l’uomo. Per quanti – e soprattutto nei Paesi dell’opulenza – religiosi non sono, potrebbe sintetizzarsi nell’egoismo di chi fa pagare ai più deboli i propri privilegi. Nella definizione della dottrina della Chiesa cattolica i peccati sono “catalogati” in diverse categorie. In questa sede limitiamoci a contestualizzare nella realtà attuale i quattro che secondo la Chiesa gridano vendetta – o meglio le cui vittime gridano vendetta – al cospetto di Dio.  Sono i peccati sessuali contro natura, l’omicidio volontario, togliere il giusto compenso al lavoratore, l’oppressione del povero. In questo il magistero ecclesiale ha prodotto importanti approfondimenti che risultano evidenti nella Dottrina sociale della Chiesa (ricordando che su questi temi l’aggettivo è essenziale). Sul primo e più in generale sull’identità e sui comportamenti della sfera sessuale basti dire che è passato molto tempo dalla prassi confessionale preconciliare quando persino i bambini nella quasi totalità dei casi erano sottoposti a stringenti interrogatori in merito.

Gli altri tre andrebbero letti sinotticamente, perché in sostanza le tragedie che provocano sono strettamente collegate. L’omicidio volontario non è questione solo individuale, ferme restando le responsabilità personali in qualunque delitto, ma chiama in causa la guerra e l’uso indiscriminato delle armi, tenendo presente la mai abbastanza citata opinione di Papa Francesco sul fatto che le guerre si fanno per vendere le armi.  Per inciso, per quanto riguarda l’Italia, quest’anno supererà per la prima volta i 29 miliardi di euro, con una crescita del 5,1% rispetto al 2023 e del 12,5% in due anni. E per cosa si spendono non è chiaro, dato che l’Italia è l’unico Paese a non rendere pubblici, per esempio, quali armamenti fornisce all’Ucraina.  

Negare il giusto compenso al lavoratore chiama in causa la sempre maggiore incuria dell’economia reale devastata da un liberismo da tempo asservito allo strapotere della finanza predatoria che ne trae profitti indecenti e di fatto truffaldini. L’Europa e in essa soprattutto l’Italia, un tempo culle dello Stato sociale, consentono da anni lo svuotamento dei diritti del lavoro, sempre più precarizzato e privato di quelle garanzie costate sudore e fatica alle generazioni del dopoguerra, con contratti che non garantiscono nulla, senza l’obbligo di retribuzione decente, per esempio con un salario minimo garantito che non consenta, come in Italia, di spacciare il lavoro povero per aumento dell’occupazione. E chi il lavoro non lo trova comunque viene tacciato di essere un fannullone da chi percepisce appannaggi favolosi senza di fatto mostrare di meritarseli.

L’oppressione del povero cresce ovunque nel mondo con il venir meno dei punti fondamentali della convivenza civile, valga per tutti il finanziamento prioritario della sanità pubblica, con stanziamenti proporzionali al prodotto interno lordo e non con pochi soldi spacciati per aumento della spesa pubblica nel settore. Senza un sostegno al bisogno di effettiva incidenza, come esiste del resto quasi in ogni Paese europeo, ma non nel nostro, dove era stato finalmente introdotto, ma è stato cancellato con motivazioni convincenti solo per chi nel bisogno non è mai stato. Senza un sistema fiscale equo, cioè progressivo e controllato davvero, senza ammiccamenti ai potentati finanziari, a quanti realizzano guadagni immensi sottoposti a tassazioni nulle o irrisorie, e neppure agli evasori di minore ma comunque significata rilevanza.

Il Prodotto interno lordo (Pil) è una fotografia di questa situazione. Non trova invece spazio adeguato nell’informazione quel Prodotto sociale lordo (Psl), pure misurabile e misurato, che racconta i vantaggi della pace, del lavoro non schiavizzante, della lotta alla miseria. Un paio di dati lo spiegano bene. Del Pil mondiale le guerre assorbono oltre 14% e sottraggono alle necessità delle popolazioni oltre 15 trilioni di dollari (in cifra si scrive 15 seguito da dodici zeri). La sola spesa diretta in armamenti, in continua crescita nell’ultimo ventennio, nel 2023, ultimo dato accertato dal Sipri di Stoccolma (Istituto di studi sulla pace tra i più prestigiosi e attendibili al mondo) è stata di 2.443 miliardi di dollari, per quasi il 60% da Paesi della Nato, seguiti da Cina e Russia che insieme non raggiungono la metà della cifra statunitense. E risulta già evidente che nel 2024 la guerra in Ucraina e quella a Gaza hanno aumentato la spesa, dato che le altre guerre non si sono certo fermate.

La cifra significa più o meno 6,7 miliardi al giorno. Circa 150 miliardi, 22 giorni di spesa in armi, secondo le stime della Banca Mondiale garantirebbero acqua potabile e servizi igienico-sanitari di base a quanti nel mondo non ne hanno, oltre due miliardi di persone, riducendo drasticamente le malattie, soprattutto infantili, e per inciso contenendo in modo significativo il fenomeno migratorio. Con 267 miliardi di dollari in più l’anno, spesi per le armi in una quarantina di giorni, secondo l’Onu, si metterebbe fine alla fame nel mondo entro il 2030.

Sulle questioni italiane, basta citare un dato solo: il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza nei 57 mesi in cui sono stati in vigore (aprile 2019-dicembre 2023) hanno erogato 34,5 miliardi di euro, più o 1,2 milioni al giorno nella media del periodo. A fine 2024 gli italiani avranno speso, euro più euro, 79 milioni e mezzo al giorno per mandare armi in giro.

Stupidità e ferocia

8 agosto 2024

Quanto accaduto questa settimana in Gran Bretagna, con reiterati episodi di violenza razzista, obbliga a riflessioni amare sul progressivo venir meno dei valori faticosamente affermati in Europa – e più generale in Occidente – dopo gli orrori del nazismo e del fascismo culminati con la mattanza della seconda guerra mondiale. Per cinquant’anni la scelta su quei valori ha garantito all’Europa il periodo di pace più lungo della sua storia. La svolta negativa è incominciata, paradossalmente, con la fine della guerra fredda e il crollo del sistema sovietico. La sconfitta del totalitarismo comunista non ha significato diffusione della democrazia, come molti potenti affermano pomposamente e molti ingenui magari credono ancora in buona fede. Non c’è stata nessuna affermazione delle condizioni ispirate al diritto internazionale, tantomeno alla Dottrina sociale della Chiesa che di quel diritto accoglie i valori più autentici, ma la diffusione sempre meno arginata di una finanzia predatoria che indirizza le scelte politiche, per non parlare della tecnologia e della produzione di armi delle quali si impone sempre più l’utilizzo.

Al tempo stesso c’è stato quasi contemporaneamente il risorgere dei nazionalismi, per secoli il vero cancro dell’Europa. La prima esplosione ci fu nell’ex Jugoslavia, dove per la prima volta dopo il 1945. La guerra tornò a devastare città europee. E se all’epoca sembrò a molti – non a tutti, compreso chi traccia queste righe – una reazione al lungo congelamento del sistema comunista, i fatti si sono incaricati di dimostrare che quel morbo non riguardava solo l’Est europeo, ma il continente tutto e non solo. Lo si chiami neofascismo, neonazismo, sovranismo o suprematismo bianco è sempre la stessa realtà perniciosa, sempre con lo stesso schema per distorcere e appiattire la capacità di pensare e di documentarsi delle cittadinanze meno attente: metti loro paura e indica un nemico. Un tempo erano le democrazie “demo-pluto-giudaico-massoniche”, con particolare istigazione contro gli ebrei, ma anche contro i nomadi. Poi sono diventati i migranti e gli islamici in genere.

La situazione in Europa è ormai nota a tutti. Ma questa deriva democratica, nonostante significative reazioni popolari, con ultimo esempio il voto alle elezioni politiche francesi, ormai si sta facendo largo anche negli Stati Uniti, dove l’istigatore di un attacco al Campidoglio di quattro anni fa, sotto processo per svariati reati, torna a correre per la Casa Bianca dichiarando esplicitamente che non riconoscerà una nuova sconfitta e che comunque in caso di sua vittoria “queste elezioni saranno le ultime perché le cose cambieranno”. Saranno pure farneticazioni propagandistiche, ma certo c’è da preoccuparsi.

E soprattutto c’è da imparare a riflettere, perché la democrazia e il diritto internazionale non sono mai dati per sempre e purtroppo se non si difendono con l’impegno sociale e politico continuo, costa nuovo sangue riconquistarli.

Congedo dai lettori

Le dimissioni da direttore responsabile di Sosta e Ripresa motivate ai lettori

Giubileo, Padre nostro e senso che non si coglie

29 giugno 2024

C’è nell’avvicinarsi del Giubileo del 2025 una strana incuria nel dibattito internazionale sul senso forse più proprio dell’avvenimento. Un senso che basterebbe la preghiera del Padre nostro a obbligare almeno chi si dichiara cristiano a ricordare: “… rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori…”.  Lo stesso Gesù ci ha detto di pregare così e noi lo facciamo più o meno da duemila anni. A chiacchiere. Del resto, già nell’antico Testamento la remissione, la cancellazione dei debiti (che riducono in schiavitù) era il segno caratterizzante il Giubileo. E se non fosse all’apparenza blasfemo trattandosi di Parola di Dio, bisognerebbe ripetere l’espressione, dato che nell’antico Israele quell’indicazione biblica di fatto non è mai stata applicata, se non da alcuni singoli individui che conoscevano bene il significato di giustizia.

E la situazione oggi è anche peggiorata. Nel mondo miliardi di persone affamate, assetate, prive di cure, schiavizzate di fatto, aggiungono a queste condizioni inumane il peso spaventoso del debito internazionale dei loro Paesi.  Succede un po’ ovunque, ma la condizione peggiore resta quella dell’Africa, che non è povera, ma impoverita dallo sfruttamento che ha sempre subito. E un bene, dunque, che si cerchi di riproporre la questione del debito internazionale all’attenzione delle opinioni pubbliche, come ha fatto, per esempio, in quest’ultima settimane il giornalista comboniano padre Giulio Albanese – che per inciso Sosta e Ripresa ha l’orgoglio di annoverare tra le proprie firme – sulle due principali testate in italiano della stampa cattolica, L’Osservatore Romano e Avvenire.

Per capire meglio è utile premettere un po’ di ricapitolazione storica. Nel periodo della almeno apparente decolonizzazione, in particolare negli anni Sessanta, sembrò esserci in Africa una stagione di crescita e di cooperazione, sembrò persino che il nord del mondo riconoscesse il suo debito e fosse disposto a pagarlo, in aiuti e investimenti. Né a questo fu estranea l’azione della Chiesa, soprattutto con i missionari, che in quegli anni del Concilio Vaticano II riscoprì pienamente il suo compito evangelico e sociale universale, dopo secoli di eurocentrismo non di rado macchiato da collateralismo con il potere coloniale. Sì, gli anni Sessanta sembrarono una stagione di speranza per l’Africa. Ma già c’erano i germi di una nuova condanna al sottosviluppo, compresa la sottovalutazione della questione agricola a vantaggio dell’industrializzazione. E c’era soprattutto il germe della guerra, responsabilità certo di classi dirigenti africane via via sempre più preda di corruzione e di bramosia di potere personale, ma anche e soprattutto di interessi stranieri che le ispiravano e le alimentavano.

Nei 35 anni dalla fine della guerra fredda è strutturalmente mutato lo scenario internazionale. La sconfitta del totalitarismo comunista non ha significato diffusione della democrazia, come si scrive e si legge ovunque (per inciso, in particolare in Italia dove a lucrare voti dichiarando di combattere, sempre a chiacchiere, il comunismo si è incominciato dopo ’89, quando cioè era ormai almeno in Europa una realtà esaurita). Non c’è stata nessuna affermazione delle condizioni ispirate al diritto internazionale, ma la diffusione sempre meno arginata di una finanzia predatoria che indirizza le scelte politiche, per non parlare della tecnologia e della produzione di armi delle quali si impone sempre più l’utilizzo.

E questo ci riporta al tema di questo articolo, cioè la preoccupazione e lo scandalo che all’immediata vigilia del Giubileo la questione del debito africano (non solo con gli Stati, ma anche con gli attori privati) scompaia dai radar delle opinioni pubbliche, nell’aumento progressivo dei costi “di servizio” (cioè i soli interessi da pagare annualmente), in cifra assoluta arrivati vicino a 1.200 miliardi di dollari. É una pietra d’inciampo spaventosa per ogni sforzo di sviluppo, soprattutto se raffrontata al valore complessivo del prodotto interno lordo africano che è di circa 3 trilioni di dollari. Per capirsi basta confrontarlo con quello dell’Unione europea, di 16 trilioni e mezzo con una popolazione di un terzo.

Questa predazione della vita delle persone ormai si fa sentire anche in Italia. Si pensi agli extra profitti delle banche, mai tassati, mentre gli interessi di prestiti e mutui hanno ormai raggiunto livelli di usura. Si pensi al dissesto di sanità, istruzione e previdenza mentre si aumenta la spesa in armamenti. Si pensi alla cancellazione delle misure di sostegno all’indigenza, mentre gli unici debiti condonati dalle attuali autorità governative sono quelli fraudolenti dei grandi evasori fiscali. Ma la condizione degli africani è ovviamente ben più drammatica.

Un giornalista non è certo un prete in confessionale, ma stavolta una “penitenza” al lettore mi arrogo il diritto di darla: reciti un Padre nostro e ci rifletta.